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“Mi piace scrivere a te” (di Rocco Brindisi)

 
Continuo a pubblicare, con gratitudine e piacere, i testi che Rocco Brindisi mi fa avere a intervalli irregolari e luminosi. Non smetterò mai di essergli grato perché, anni fa, il suo Silenzio della neve spalancò davanti al mio sguardo di lettore una scrittura di prodigiosa libertà capace di rivelare la magia imprigionata nelle cose quotidiane: cercai e comperai gli altri suoi libri, compagni ora inseparabili dei miei itinerari attraverso la scrittura. [A. D.]

 

*

Mi piace scrivere a te, prima che a Dio. Lui mi risponde, ogni volta e, alla fine, implora sempre la stessa cosa: la propria Assenza. Sa che mi impietosisco, conosce anche le mie bestemmie, che lo chiamano in causa.
Le città, stordite come cani che non annusano più la neve e neanche la nebbia. Chiedo a questa città di inventare tramonti con una luce dolce per il mio amico, ma lei se ne fotte dei miei desideri. Una volta mi dicesti che non era vero che questa città avesse perso la memoria del vento. Per convincermi, avresti fatto una magia, il tuo sorriso era quello di un mago: avresti tirato la cosa che chiamiamo vento dalle sagome allungate dei dormienti, quelli che si stendono sotto i portici, avvolti in coperte della desolazione, e non sai mai se dormano davvero, guardi quella forma triste, ti chiedi cosa stiano pensando nel firmamento scuro della veglia, in quello del sonno, nella speranza che non sia gelida quella sospensione del cuore. Spero vengano assaliti da un languore infantile, che li protegga. Il tuo amico si perde in questi un po’ folli pensieri. Ho aperto la finestra perché ho fumato, e dopo qualche istante sento i ginocchi freddi. Chiudo la finestra, sbatto un plaid per mandare via le invisibili tracce di fumo. Bevo una camomilla, dove inzuppo una fetta di panettone. Vedo i capelli arruffati del mio amico, mentre scrive dell’anarchico delle montagne e già questo mi riscalda il cuore. Torno a letto, il divano che ho aperto, di sotto; da qualche settimana ho lasciato a Angela il lettone, facendo una cosa buona, da padre, in modo che non sentirà le mie puzze, si potrà allargare come vuole. [Rocco Brindisi]
 
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Lettera d’amore a Totò (di Rocco Brindisi)

Io amo Totò”. Si perde allegramente il pudore, pensando a Totò. Le mie figlie sono innamorate di Totò; Mariam e Sara, le mie nipoti, sono pazze di Totò; un amore, mai sbandierato, che si irradia e che nello stesso tempo è segreto. La nostra vecchia casa riecheggia delle nostre risate, quelle di loro due bambine, le risate a crepapelle di Maria, davanti a “Totò e le donne”: Maria concedeva raramente lo schiattamento amoroso della sua pancia; al suo Gesù, invece, sorrideva, sognando appuntamenti più casti della luna. In un vecchio cinema, a Roma, una folla di ragazzi scoppia a ridere, come facessero l’amore per la prima volta, quando Totò Cerca Moglie fa visita alla famiglia Bellavista (tutti cecati): per toglierli dall’imbarazzo, ha inforcato un paio di lenti che non gli lascia vedere niente.
In quegli anni vidi “Sussurri e grida” di Bergman, dove la governante col petto che debordava dall’anima girava nelle stanze dolorose con una lampada che aveva la sua stessa, rossa carnalità pietosa. Un filo misterioso teneva assieme questi due film: chi amava Totò, non poteva non amare “Sussurri e grida”. 
Nell’episodio“La patente” , Totò è conosciuto, temuto come portatore di iella: i suoi paesani lo scansano, e quando si imbattono in lui inventano mille scongiuri. Totò esige, per questa nomea, la patente di uno che procura disastri. Vestito di nero, a tutto punto, persino elegante, lenti nere, un sorriso di nera soddisfazione, quando vede, attorno a sé, spandersi il panico. Nel suo sguardo invisibile, l’incomparabile maestà di cataclismi in agguato. E quando elenca, e detta, alla figlia mortificata, con lucido orgoglio, i futuri clienti, i negozianti che faranno la fila per averlo dalla loro parte, restiamo incantati, così come quando, in “Miseria e nobiltà”, il principe di Casador, trastullandosi nell’abbraccio con Sophia Loren, dice agli astanti: “Io, questa nipote, me la vorrei interrogare”. Vorremmo trascinare le ore del tempo ai suoi piedi, per scongiurare qualsiasi eternità. Poiché l’immortalità sciupa, prima o poi, la memoria della vita, la felicità dei giorni, i dolori, presi a ballare da ragazze, principesse del Caos. Il terrore che la sfinitezza senza fine delle ore renda pallidi gli amori, tutti gli amori.  [Rocco Brindisi]
 

La lavanderia (di Rocco Brindisi)

Scendo in lavanderia con un bustone di panni. Mi porto le “Lettere di Don Milani” per ingannare l’attesa e perché questo libro è una delle letture più avvincenti di questi ultimi mesi: la bellezza dolorosa della lingua, l’ostinazione, fraterna, a ragionare sulle parole, sui fatti. Don Milani è malato, costretto a letto, è lì che scrive, credo usi un quaderno, immagino grande, e una biro. Il suo amore, testardo, per i poveri, per i dannati della terra.
 
La lavanderia è aperta, come ogni giorno, fino alle 10 di sera. Prima ancora di entrare, noto due persone, moglie marito, alle prese con un paio di macchine: lavaggio e asciugatura. La donna, cinquantenne, su una sedia a rotelle. Bionda, una benda sull’occhio sinistro. Una bella faccia. Si dà da fare con una catasta di panni, nessuna malinconia nelle mani, gesti decisi e un alone di allegria che viene da lontano. Il frastuono delle vasche. L’uomo le sta accanto, fa la sua parte; un signore piccolo, una faccia rotonda, lo sguardo buono, che trasforma questo rito in una sorta di gioco amoroso. Che ci sia un testimone fa risplendere il loro pudore. Penso che la benda sia qualcosa di temporaneo. Voglio sperarlo. Esco a fumare sulla soglia, l’uomo è vicino a me e, improvvisamente ride, parla da solo e ride. Sta imitando un attore che conosco, la sua voce. Gli dico che è bravo e ne sembra felice. La moglie, intanto, tira fuori un lenzuolo dall’asciugatrice, lo piega; nel piegarlo cade dalla sedia e sbatte con la testa su una delle macchine. Non si lamenta; io e il marito corriamo a soccorrerla, la rimettiamo seduta. Di solito, in una situazione come questa, il primo gesto di una donna è quello, misterioso, di riavviarsi i capelli. Lei non lo fa, né sembra mortificata dall’incidente. Forse lo é, teneramente. Riprende altri panni. Io e il marito torniamo sulla porta. E lui, tranquillo, mi racconta di altre imitazioni, mi fa sentire altre voci, sorride, dice di aver fatto cabaret, un cabaret amatoriale per un decina di anni.  [Rocco Brindisi]
 

Ancora notte (di Rocco Brindisi)

È ancora notte. 

Ho letto l’articolo di una donna. Parla, come nessuno mai, del “cinismo di noi cattolici”, di fronte alle violenze subite da bambini, ragazzi, da parte di preti e laici della Chiesa. Tra i preti, anche se la donna dell’articolo non lo nomina, il cinismo del Papa, il suo cinismo “buono”. Ma non esiste un cinismo che si possa coniugare con la bontà. Sarebbe una contraddizione, diabolica. È la prima volta che, qualcuno, in questo caso una donna, affronta l’ipocrisia, cattolica, come una sorta di maledizione della Chiesa. Si riferisce, nel caso specifico, al documento dei vescovi, incapaci di guardare in faccia l’atrocità del gesto che procura lo smarrimento, il dolore dell’infanzia sedotta, in nome di Dio (i sacerdoti che scorticano la fiducia di un bambino, di una bambina, fanno sempre il nome di Dio quando divorano il loro corpo). 
Le preoccupazioni dei cattolici, di coloro che dovrebbero svelare la verità, sono notarili. Essi: preti, psicologi di un Dio umiliante, tutori della gloria, delle speranze, dei soli indicibili dell’infanzia, dell’adolescenza, riportano le cause dell’orrore all’immaturità, alla mancanza di “formazione”; vorrebbero combattere la mostruosità con “percorsi educativi”; meno di niente, pur di conservare il potere. Poiché di questo si tratta: ribadire il vangelo del Potere. Osannato da cani e porci, il Papa non sa nulla della disperazione di un bambino straziato dai piaceri di un prete, dall’istinto famelico di chi fa scempio della sua inermità, dell’abbandono di un innocente ai sospiri, all’affanno di chi lo sta mangiando vivo. Se fosse cosciente di questo, il Papa si spoglierebbe in piazza gridando: “Il Vangelo non è un immondezzaio”. Quando viene a conoscenza di un dossier che raccoglie 301 mila casi di violenze da parte della Chiesa Francese, e di laici a essa legati, pensa, anche lui, che, comunque, la Chiesa rimanga il Corpo di Cristo. [Rocco Brindisi]

 

 

Quello che ci resta di questo film è tutto il film (di Rocco Brindisi)

 
 
SE FATE I BRAVI  di Stefano Collizzolli e Daniele Gaglianone
 
          Su tutto, il dolore di ricordare, riattraversare quei giorni con una memoria intatta. Il film si apre con la visione di treni in partenza, vagoni strapieni di ragazzi, che si parleranno, tra poco, e lo faranno con la curiosità, la gioiosa palpitazione, che li accomuna. 

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Amo la castità del ballatoio (di Rocco Brindisi)

Amo la castità del ballatoio.

La ragazza di ieri era un’altra.

L’ho vista di sfuggita: bruna, prosperosa, assente.

Era lì che spazzava.

Non l’ho invitata per il caffè: avrei dovuto rifarlo.

Né mi commuove non avere desideri.

E quando mi ha guardato, un istante, ho sperato non venisse 
                                                         [sfiorata dalla mia infelicità,

che non è tenue, al mattino.

[Rocco Brindisi]

Modesti consigli per il giornalista non ancora completamente imputtanito (di Rocco Brindisi)

  • Se hai deciso di ricordare all’interlocutore di Destra le Leggi Razziali del ’38, non contentarti della sua presa di distanza da quello che lui definirà un errore (non parlerà mai di colpa, di vergogna); passagli una copia di quelle Leggi e invitalo a leggerne tre, quattro articoli. Se troverà retorico farlo, leggiglieli tu. Non t’inorgoglire, stupidamente, come fanno tutti i tuoi colleghi, di aver nominato l’orrore. Leggere quegli articoli servirà anche a te che, ingenuamente, pensi di conoscerli.
  • Se inviti un politico di Sinistra, chiedigli se ricorda questi due nomi: Bolzaneto, la Diaz. Se li ricorda, chiedigli come mai un cittadino qualsiasi dovrebbe rispettare, a occhi chiusi, la Polizia, e perché mai nessuno di quei poliziotti sia finito in galera. Se ti risponde che si trattava di mele marce, ricordagli il centinaio di poliziotti che applaudirono i colleghi accusati di aver pestato a sangue e ammazzato un ragazzo: Aldovrandi. Ricordati, quando chiedi delle risposte, che non stai giudicando, ma stai cercando di capire.

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Se vince la Destra (di Rocco Brindisi)

Ogni volta che Rocco mi manda un suo testo provo la gioia e l’orgoglio di poter pubblicare uno degli autori che più stimo  e amo; questa volta mi permetto anche di aggiungere questa breve premessa perché condivido in pieno i contenuti del testo che andrete a leggere e perché, “se vince la Destra”, questi anni (già bui) diventeranno ancora più bui, ma, certamente, il nostro sentimento antifascista non cederà di un passo e continuerà ad avere nel 25 aprile il suo faro. [A. D.] Continua a leggere Se vince la Destra (di Rocco Brindisi)

Leggo “Le Belle Bandiere” (di Rocco Brindisi)

Leggo “Le belle bandiere”, seduto davanti al bar, sotto i portici. Il volto del poeta in copertina: capelli arruffati, guance scavate, una bellezza antica. La ragazza del bar mi informa, con un sorriso: “Il suo amico è venuto poco fa”. Un po’ le dispiace che non ci siamo incontrati, un po’ è felice di averlo nominato; terzo, ritiene una sorta di incantamento l’amicizia tra un vecchio signore, barba folta, bianca, con un ragazzo. La sua curiosità è gentile. Continuo a leggere. Un movimento brusco, e il libro si richiude. Ritorna lo sguardo del poeta, che mi trafigge e mi consola. Nei suoi occhi, la passione di guardare il mondo. Sta girando il “Decamerone”. Uno sguardo fiero della propria felicità. Nel film, è un pittore del Trecento in viaggio, che approda a Napoli. Nel libro, le sue risposte ai lettori di “Rinascita”. anni ’60. Lettere di operai, studenti, pensionati. In queste pagine, l’epopea di una lingua amorosa, che rinnova il proprio mistero, entrando negli affanni, le ragioni, i dubbi, i pudori, le speranze senza tempo, la devozione, mai ruffiana, del lettore nei confronti del poeta. Che parli di politica, di cinema o d’altro, c’è qualcosa di lancinante nel rispetto che egli nutre per l’interlocutore, per sé stesso e per il volto invisibile che guarda, scrivendo. Ancora il suo ritratto: la bocca chiusa, non serrata, è il terzo occhio, ribelle e magnanimo. Sarebbe stato bello morire in quei giorni, il terzo giorno la fine delle riprese di un film sulla gioia. Il ragazzo degli appuntamenti al bar non è venuto. Le parole del poeta, la sua faccia, così lontani dalla sua morte, che mi viene da piangere. [Rocco Brindisi]

 

Franca Rame (di Rocco Brindisi)

Franca Rame. Chi ha visto e ascoltato il suo monologo sullo stupro subìto dai fascisti, non ha avuto il tempo di sognare che il suo racconto non fosse vero. Ma è vero; le speranze cadono, si inabissano. La donna che ricostruisce l’orrore di quella sera lo fa con una semplicità allucinata, che dà alla testa. Le sue parole sono il suo corpo, il suo corpo sono le sue parole. Il suo corpo non diventa mai, neanche per un momento, uno spettro del teatro. Non ci sono preamboli. Sei tirato dentro quell’ora maledetta, appena reclina il capo sulla spalliera della poltrona. Resuscita, in un momento, il corpo terribile del racconto, assalita e immersa nel suo dolore disincantato. Descrive i gesti dei ragazzi uno per uno; i ragazzi fumano, spengono le sigarette sul suo collo, sul seno. Spalancano le sue gambe; uno di loro le spinge un ginocchio sulla schiena, fanno quello che sognavano di fare, sono fantasmi in carne e ossa, sente il loro seme colarle dentro.
Racconta tutto, su un palco; non getta un grido, non risplende il suo orrore; il suo sgomento non diventa mai, neanche per un momento, letterario. Il racconto non ha ambizioni, neanche quella di gettare buio sul tempo, di rendere ancora più scura quella notte. Volevano marchiarla, divorare la sua bellezza senza neanche guardarla; non credo abbiano mai pronunciato la parola “bellezza”, nella loro vita, i loro padri non avevano fiatato, leggendo il decalogo delle Leggi Razziali; nessuna vergogna che i bambini ebrei venissero espulsi dalle scuole del Regno. Tra i loro discendenti, impossibile che qualcuno sputi sulle loro tombe.
Franca Rame ci fa vedere la mostruosità, senza tremori; non usa mai neanche un sinonimo; in un monologo che fa impallidire quello di Amleto, mai un tentativo di levitazione, di osservare da fuori quello che le accade. Decine di morti, una dopo l’altra; non chiama in soccorso i silenzi della città a cancellare le voci, le coltellate delle voci: “Godi, puttana!”. La rivestono, la scaricano in strada. [Rocco Brindisi]

La cecità delle ore (di Rocco Brindisi)

La figlia di Beppino Englaro era, al tempo, una bambina. Stava nel cuore dei giorni. Nulla sapeva delle finzioni della morte. Come tutti i bambini, recitava, a volte un ultimo respiro. Giocava alla morte; poi, riprendeva a respirare, tornava al respiro del suo sguardo, e il respiro del suo sguardo era buono. La sua infanzia splendeva nella moltitudine delle parole che compaiono nei libri, nella solitudine fraterna delle cose. Aveva conosciuto, nell’adolescenza, la perfetta,  amorosa solitudine di nuotare accanto a un amico, un’amica. Aveva sfiorato gli amori che spingono teneramente il cuore nella notte. Aveva visto un amico ridotto a un corpo di tenebre e aveva detto, senza tentennamenti che, fosse capitato a lei, nessuno doveva privarla del respiro della morte.

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Il sonno di Angela (di Rocco Brindisi)

Angela dorme. Si è addormentata. Uno dei suoi sogni: addormentarsi. Uno dei miei sogni: sentire il suo sonno nell’aria. Così dolci, le sue palpebre abbassate. Batte, il cuore del sonno. La sua sagoma, avvolta dal lenzuolo, oro della notte. C’è un altro gioco possibile, in questo letto, tra padre e figlia? Sento fiorire i rami del sonno nella sua schiena. Il sonno di Angela perdona settanta volte sette.
Emily Dickinson. Un suo ritratto da bambina. Bianca allucinazione dei suoi versi. Bianco su bianco, bianco nel bianco. Non era necessario credere al corpo di Gesù nell’ostia. Quello che sconvolge e placa il cuore del tempo, è il dono. Il dono del suo corpo agli amici. Emily amava i bambini. Solo ai bambini era permesso di entrare nella sua stanza. Se la morte non diventa bambina, non entrerà nel regno, più terrestre del morso a una mela, dei cieli.
A Nina Simone che muore, in una campagna francese, dove si è ritirata perché la sua malattia, invece di trastullarsi, le spezzi il cuore, compare, ai piedi del letto, una bambina che le sussurra di non aver paura: “Non avere paura”. La bambina le chiede: “Grattami”; le prende la mano, se la porta dietro la schiena. Nina comincia grattare, la bambina le sposta la mano, la supplica di continuare a grattare, finché non trova il punto giusto. “Qui, qui!”. La bambina getta un grido di felicità. Ride.
Un ritratto di Amy Winehouse: una bambina di dieci anni. Pensierosa. Una tale, arcana bellezza, un tale dolore, negli occhi, che Dio si mangia le mani, per non averlo mai provato, neanche in sogno. [Rocco Brindisi]

Werner Herzog e io (di Rocco Brindisi)

Ho ricordato a Werner Herzog, dopo la proiezione del suo ultimo film: “La regina del deserto”, il viaggio che fece, a piedi, da Monaco di Baviera a Parigi, per vedere un’amica che stava morendo. Si era messo in cammino nella speranza, che per lui diventava sempre più una certezza, che, finché durava quel viaggio, l’amica non sarebbe morta. Sapevo di raccontargli quello che già sapeva; e lui, che stava a qualche metro da me, mi fissava con una espressione di sorpresa e di gratitudine. Non aveva dimenticato quell’avventura, ma certo, ascoltandomi, la stava rivivendo. Non pensava che un vecchio signore del sud potesse conoscere quella storia. Mi ha risposto, con il suo tedesco, e la voce della traduttrice che gli stava accanto, di trovare la mia memoria di quel fatto una cosa “gentile”. Ho aggiunto, poi,  che avevo fatto vedere alcune sequenze del suo “Nel paese del silenzio e dell’oscurità”, ai miei scolari di dieci anni, quando insegnavo. Herzog continuava a fissarmi e, quando ha preso di nuovo la parola, mi ha confessato, come gli si fosse illuminato il cuore in quel momento, che il film che gli avevo nominato era quello che amava di più, il più “profondo”. Mentre esce dal cinema, lo avvicino e, un po’ confusamente, gli chiedo se gli sia mai capitato di rivedere, in tutti quegli anni, la signora Fini, la donna sordocieca (meravigliosa protagonista del suo film). Mi risponde in inglese, sommerso da una decina di ragazzi; in quello che dice capisco soltanto che è felice, spiazzato dal mistero che uno sconosciuto gli ricordasse quel nome. Prima di sparire, aggiunge: ”Grazie” [Rocco Brindisi]

Una foto di Dio bambino (di Rocco Brindisi)

Qualcuno dovrebbe avere una foto di Dio bambino; non del bambino chiamato Cristo, ma un ritratto del Creatore del mondo, sorpreso nella sua infanzia, mentre guarda malinconicamente la propria eternità.  Mia madre, non l’ho mai vista guardare un ritratto, non l’ho mai sentita nominarne uno. Ho appena letto a Angela, che aveva pianto, alcune pagine del libro di Anne Tyler: “La ragazza nel giardino”. Ho proseguito, nonostante la bocca impastata. Durante una pausa, ha riaperto gli occhi due secondi per dirmi che era ancora sveglia e ho visto la dolcezza di una bambina felice di addormentarsi nella voce del padre. Ho ripreso a leggere, e quando si è addormentata, ho annusato l’aria per sentire l’odore del sonno. Alzandomi, ho sbattuto la testa contro il soffitto, ho poggiato il libro sul ripiano del guardaroba; scendo gli scalini con la solita cautela, di traverso, pensando che un giorno o l’altro potrei mettere un piede in  fallo e sfracellarmi sui radiatori. Mi viene da ridere. Esco a fumare sul ballatoio, rientro, per uscire di nuovo, infagottato dalla testa ai piedi. [Rocco Brindisi]

Raccontami qualcosa, come facevi una volta (di Rocco Brindisi)

Ascolto  “Hona” di Boubacar Traore.  Mi sono svegliato con una malinconia che mi spezza le ossa. Elena portava un fazzoletto in testa; quando si affaccendava in cucina. Lo pretendeva mio fratello Totore. Mia sorella schiaccerebbe questa malinconia come un pidocchio tra i capelli. Sulla scrivania, una decina di segnalibri colorati, dipinti  dai miei scolari. Ce n’è uno, grande, di cartone, dove l’autore ha scritto “Rocco sei troppo buffo”. Li ho amati senza ombre, e, non ho dubbi, li ho portati per mano nella loro gioia. Mi sarà perdonato molto, per questo. Raccontami qualcosa, come facevi una volta. [Rocco Brindisi]

La ragazza che ama Dostoewskij (di Rocco Brindisi)

F. M. Dostoevskij

Una ragazza conversa con Muratov, amico di Anna Politkovskaia, fatta ammazzare da Putin, il Pavone del Kremlino.
Sulle pareti, le foto dei giornalisti fatti ammazzare per ordine o semplice desiderio del Pavone.
La ragazza ha lo sguardo di Grushenka, Sonia, la Signora col cagnolino di Cechov.
Le unghie delle sue dita potrebbero essere smaltate di blu, come quelle della donna che amava tenersi bella, dal suo cadavere rattrappito, vengono fuori tre dita pittate, che sono la trinità del Tempo, della Corsa Paralizzata della Giovinezza, dello Sguardo in Amore, al mattino.
Dall’altro lato del tavolo, la ragazza che ama Dostoewskij, le Anime morte, il divano di Oblomov, la Donna di Picche di Puskin, cerca di capire, è in ascolto, più inquieta della storia di Dio, ma anche razionale, ironica, calma.
La conversazione è quasi senza aggettivi.
Muratov, anche lui cerca di capire, parlando. La Russia che si respira nella stanza è la tenebra di Stalker, il film di Tarkowski, ma è anche la luce disperata delle parole mai asservite, mai morte.
La ragazza e Muratov si ascoltano. Nessuna vanità, neanche quella dello sgomento.
Chi pronuncia la parola “guerra” rischia fino a dodici anni di carcere. La Russia Necrofora s’imbelletta di Verità come una Troia.
Giudici, poliziotti, cartomanti del Pavone, si lavano i denti ogni mattina.

Fosse comuni (di Rocco Brindisi)

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Prima di sparare alla nuca, i soldati legano le mani 
                                      della madre con nastri di fortuna,
vedono il terrore di quelle mani:
lo porteranno in dono ai loro figli?
Prima di premere il grilletto, stringono con fascette 
                                     improvvisate le mani della ragazza 
                                     che l’altro giorno, l’altra, lenta eternità, 
                                     aveva riso facendo le scale di casa al tramonto.
Prima di ammazzare il padre, gli fanno segno di portarsi 
                                     le mani dietro la schiena;
soddisfatti che abbia capito,
le intrecciano,
si fanno passare una striscia bianca di plastica,
due nodi,
gli esplodono un colpo in testa,
soldati delle lune di marzo, del sole di aprile,
scavano una fossa e vi gettano la Morte,
ricoprono  capelli, gambe, respiri pietrificati, che furono amanti.
Più tardi, nelle case-cadavere, telefonano 
                                    alle mogli e chiedono: “Ti piacerebbe 
                                    un rossetto blu, uno stereo, un registratore, 
                                    un computer?”.
Dall’altro capo del filo, la donna fa mente locale e risponde.


Non ho pietà del cadavere della poesia (di Rocco Brindisi)

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La donna e la sua faccia insanguinata,
una misera benda di traverso,
gli occhi, l’orrore che,
se diventa poesia, la Poesia è morta.

Non ho pietà del cadavere della poesia,
nessuna madre lo riveste ed è bene che langua,
nessuno lo canti né gli sussurri, all’orecchio,
i passi felici della ragazza
che passava da una stanza all’altra,
sfinita e radiosa del suo amore per un libro, 
                                             che perdeva e ritrovava,
nella casa, ora esangue, dove ogni cosa è dilaniata.

La neve non si vergogna di essere la stessa dell’infanzia,
non si uccide, la neve,
non sa costruirsi un cappio,
non ricorda più come si fa un nodo.

La bambina si piscia addosso, nel treno delle lontananze.

Su quelle acque riposa un veliero.

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I bambini, le donne ucraine, il pavone, i suoi servi (di Rocco Brindisi)

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I bambini di Terezin, il campo nazista nei dintorni di Praga, 
                            scrivevano e sognavano la “luce del Marocco”, 
                            disegnavano soli che non si impiccano.

I servi balbuzienti del Pavone hanno un volto.

L’oceano dell’Orrore frana nell’ombelico dei bambini.

La Primavera crepa prima ancora di nascere.

La neve è purulenta.

Il sonno non si torce le mani perché non ha più mani.

L’Estate si avvelena, non si sa come.

La luce del giorno è divorata.

Le donne ucraine scavano la memoria gelata,
cercano un racconto,
un pugno di gelsi per addolcire la bocca dei figli,
carezzano le loro tempie,
nell’attesa di un viaggio che non può non essere triste.
Così triste un viaggio triste!

Troppo triste, l’attesa di un viaggio triste!