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Continua a leggere Quello che ci resta di questo film è tutto il film (di Rocco Brindisi)
Amo la castità del ballatoio. La ragazza di ieri era un’altra. L’ho vista di sfuggita: bruna, prosperosa, assente. Era lì che spazzava. Non l’ho invitata per il caffè: avrei dovuto rifarlo. Né mi commuove non avere desideri. E quando mi ha guardato, un istante, ho sperato non venisse [sfiorata dalla mia infelicità, che non è tenue, al mattino.
Ogni volta che Rocco mi manda un suo testo provo la gioia e l’orgoglio di poter pubblicare uno degli autori che più stimo e amo; questa volta mi permetto anche di aggiungere questa breve premessa perché condivido in pieno i contenuti del testo che andrete a leggere e perché, “se vince la Destra”, questi anni (già bui) diventeranno ancora più bui, ma, certamente, il nostro sentimento antifascista non cederà di un passo e continuerà ad avere nel 25 aprile il suo faro. [A. D.] Continua a leggere Se vince la Destra (di Rocco Brindisi)
Leggo “Le belle bandiere”, seduto davanti al bar, sotto i portici. Il volto del poeta in copertina: capelli arruffati, guance scavate, una bellezza antica. La ragazza del bar mi informa, con un sorriso: “Il suo amico è venuto poco fa”. Un po’ le dispiace che non ci siamo incontrati, un po’ è felice di averlo nominato; terzo, ritiene una sorta di incantamento l’amicizia tra un vecchio signore, barba folta, bianca, con un ragazzo. La sua curiosità è gentile. Continuo a leggere. Un movimento brusco, e il libro si richiude. Ritorna lo sguardo del poeta, che mi trafigge e mi consola. Nei suoi occhi, la passione di guardare il mondo. Sta girando il “Decamerone”. Uno sguardo fiero della propria felicità. Nel film, è un pittore del Trecento in viaggio, che approda a Napoli. Nel libro, le sue risposte ai lettori di “Rinascita”. anni ’60. Lettere di operai, studenti, pensionati. In queste pagine, l’epopea di una lingua amorosa, che rinnova il proprio mistero, entrando negli affanni, le ragioni, i dubbi, i pudori, le speranze senza tempo, la devozione, mai ruffiana, del lettore nei confronti del poeta. Che parli di politica, di cinema o d’altro, c’è qualcosa di lancinante nel rispetto che egli nutre per l’interlocutore, per sé stesso e per il volto invisibile che guarda, scrivendo. Ancora il suo ritratto: la bocca chiusa, non serrata, è il terzo occhio, ribelle e magnanimo. Sarebbe stato bello morire in quei giorni, il terzo giorno la fine delle riprese di un film sulla gioia. Il ragazzo degli appuntamenti al bar non è venuto. Le parole del poeta, la sua faccia, così lontani dalla sua morte, che mi viene da piangere. [Rocco Brindisi]
Ho ricordato a Werner Herzog, dopo la proiezione del suo ultimo film: “La regina del deserto”, il viaggio che fece, a piedi, da Monaco di Baviera a Parigi, per vedere un’amica che stava morendo. Si era messo in cammino nella speranza, che per lui diventava sempre più una certezza, che, finché durava quel viaggio, l’amica non sarebbe morta. Sapevo di raccontargli quello che già sapeva; e lui, che stava a qualche metro da me, mi fissava con una espressione di sorpresa e di gratitudine. Non aveva dimenticato quell’avventura, ma certo, ascoltandomi, la stava rivivendo. Non pensava che un vecchio signore del sud potesse conoscere quella storia. Mi ha risposto, con il suo tedesco, e la voce della traduttrice che gli stava accanto, di trovare la mia memoria di quel fatto una cosa “gentile”. Ho aggiunto, poi, che avevo fatto vedere alcune sequenze del suo “Nel paese del silenzio e dell’oscurità”, ai miei scolari di dieci anni, quando insegnavo. Herzog continuava a fissarmi e, quando ha preso di nuovo la parola, mi ha confessato, come gli si fosse illuminato il cuore in quel momento, che il film che gli avevo nominato era quello che amava di più, il più “profondo”. Mentre esce dal cinema, lo avvicino e, un po’ confusamente, gli chiedo se gli sia mai capitato di rivedere, in tutti quegli anni, la signora Fini, la donna sordocieca (meravigliosa protagonista del suo film). Mi risponde in inglese, sommerso da una decina di ragazzi; in quello che dice capisco soltanto che è felice, spiazzato dal mistero che uno sconosciuto gli ricordasse quel nome. Prima di sparire, aggiunge: ”Grazie” [Rocco Brindisi]
Prima di sparare alla nuca, i soldati legano le mani della madre con nastri di fortuna, vedono il terrore di quelle mani: lo porteranno in dono ai loro figli? Prima di premere il grilletto, stringono con fascette improvvisate le mani della ragazza che l’altro giorno, l’altra, lenta eternità, aveva riso facendo le scale di casa al tramonto. Prima di ammazzare il padre, gli fanno segno di portarsi le mani dietro la schiena; soddisfatti che abbia capito, le intrecciano, si fanno passare una striscia bianca di plastica, due nodi, gli esplodono un colpo in testa, soldati delle lune di marzo, del sole di aprile, scavano una fossa e vi gettano la Morte, ricoprono capelli, gambe, respiri pietrificati, che furono amanti. Più tardi, nelle case-cadavere, telefonano alle mogli e chiedono: “Ti piacerebbe un rossetto blu, uno stereo, un registratore, un computer?”. Dall’altro capo del filo, la donna fa mente locale e risponde.
La donna e la sua faccia insanguinata, una misera benda di traverso, gli occhi, l’orrore che, se diventa poesia, la Poesia è morta. Non ho pietà del cadavere della poesia, nessuna madre lo riveste ed è bene che langua, nessuno lo canti né gli sussurri, all’orecchio, i passi felici della ragazza che passava da una stanza all’altra, sfinita e radiosa del suo amore per un libro, che perdeva e ritrovava, nella casa, ora esangue, dove ogni cosa è dilaniata. La neve non si vergogna di essere la stessa dell’infanzia, non si uccide, la neve, non sa costruirsi un cappio, non ricorda più come si fa un nodo. La bambina si piscia addosso, nel treno delle lontananze. Su quelle acque riposa un veliero.
Continua a leggere Non ho pietà del cadavere della poesia (di Rocco Brindisi)
I bambini di Terezin, il campo nazista nei dintorni di Praga, scrivevano e sognavano la “luce del Marocco”, disegnavano soli che non si impiccano. I servi balbuzienti del Pavone hanno un volto. L’oceano dell’Orrore frana nell’ombelico dei bambini. La Primavera crepa prima ancora di nascere. La neve è purulenta. Il sonno non si torce le mani perché non ha più mani. L’Estate si avvelena, non si sa come. La luce del giorno è divorata. Le donne ucraine scavano la memoria gelata, cercano un racconto, un pugno di gelsi per addolcire la bocca dei figli, carezzano le loro tempie, nell’attesa di un viaggio che non può non essere triste. Così triste un viaggio triste! Troppo triste, l’attesa di un viaggio triste!