Non più di un’ombra

Elisabetta Brizio

Marino Moretti e il crepuscolarismo storico

Décadence è disgregazione, tramonto, separatezza come stato elitario e insieme di condanna («Ses ailes de géant l’empêchent de marcher», L’Albatros), evocazione dell’irrazionale, dell’arcano cosmico, perché reale è l’altrove, la «fôret de symboles». A giudicare dall’influsso che ha esercitato su tante correnti successive e dai tanti fermenti, dagli autori capitali che ad essa si sono ispirati, la décadence configura una condizione perenne, più o meno nella stessa ottica in cui Orazio, nell’Ars poetica, poteva dire che le parole, come le foglie, sfiorivano per poi rinascere e tornare a brillare della loro verde luce, e Baudelaire, nel Tramonto del sole romantico, evocare i bagliori di un crepuscolo al quale, aggiungerà Borgese istituendo la definizione di «poesia crepuscolare», non sarebbe seguita la notte.

Difficile tuttavia, per i lirici crepuscolari, gestire l’eredità del decadentismo. Oppressi dalla mitologia del poeta vate ed estranei alla visione simbolista del mondo come «universelle analogie», che tutto fonde in un indistinto, schellinghiano assoluto, essi esibiscono un’apparente nudità di concetti e di stile, e con una sorta di retorica diminutio o recusatio disconoscono i grandi temi decadenti e proclamano la loro incapacità di sostituirli. Dire, con Natale Tedesco, che con la poesia crepuscolare «si negano non certi valori, ma la possibilità che ve ne siano»1 – assimilando la crisi (décadence) e la critica (decadentismo) dei valori – implica confrontarsi con una tensione negativa di secondo grado, con un rifiuto delle ideologie non ideologicamente connotato e diffidente verso nuovi significati che rilevino quelli perfettivi insieme a quelli ancora in auge. Così, la radicalità della negazione crepuscolare non profila la propaggine dei valori del decadentismo, ma ne indice l’uscita, anche riconoscendo, appunto, con sottilissima e melanconica ironia, di non esserne all’altezza. Esigente e difficile spoglia della décadence2, l’urto ideologico dei crepuscolari – giacché anche l’astensione o l’annichilazione si consumano in una configurazione storica e ideologicasi sfrangia nell’afasia della poesia, nella poetica delle parvenze del silenzio e del niente da dire di fronte all’«alchimie du verbe», nell’incompetenza dell’assoluto. La Weltanschauung collettiva dei crepuscolari sembra rivivere nel verso eliotiano «This is the way the world ends / not with a bang but a wimper» (The hollow men, 1925). Di cui Sanesi diceva: l’uomo vuoto non è nessuna  cosa, non è dannato, si confonde, si nasconde, non osserva né vuole essere osservato. Tuttavia, forse senza averne coscienza, della poesia i crepuscolari disegnano sia il declino sia la condizione aurorale, aspetti coimplicati nell’ambivalenza sottesa alla metafora del crepuscolo, che con singolare preveggenza, ma limitandosi a Moretti, Martini e Chiaves, Borgese inaugurava nel 19103 – quando l’esperienza poetica crepuscolare era sul punto di concludersi, se consideriamo che Corazzini moriva nel 1907 e che I colloqui sarebbero usciti nel 1911 (e che gli sciolti delle Farfalle furono composti tra il 1908 e il 1912).

     Come un fenomeno di dissolvenza, fase terminale del decadentismo e ouverture a un’innovazione lirica, la nuova poesia viene metaforizzata nell’ora labile precorritrice della notte, l’ora dell’impallidire dei contorni delle cose. Il crepuscolo dà l’esatta misura della discorde temperie degli anni giolittiani, i cui ideali vacillavano sulla irriconoscibilità dei presupposti in vista dei quali erano maturati. Ma l’allegoria temporale del crepuscolo – bordo meteorologico, incrocio-incontro di fine e di principio – suppone anche il riemergere del fenomeno luminoso, quando il crepuscolo mattutino, l’alba, culmina nell’aurora. Crepuscolarismo, soprattutto in Corazzini e in Gozzano, è «perplessità crepuscolare», tempo crisalideo, contaminazione di ciò che è stato e l’aurorale, dilazionarsi nel continuum di dissoluzione e di volo. E in uno dei suoi saggi su Gozzano Sanguineti4 periodizzava la poesia italiana di un Novecento ormai concluso, di cui la stagione crepuscolare costituisce, storicamente, l’inizio, e, in una prospettiva categoriale, il momento chiave. Una «linea crepuscolare» – secondo una visione metastorica e allargata del crepuscolarismo – linea critica, eversiva, demitizzante, attraversa quel tratto del Novecento che va da Gozzano a Montale, e particolarmente dai Colloqui alle Occasioni, senza includere esperienze di incrollabile fede e consapevolezza poetica5, per ripiegare nelle forme epigoniche delle reviviscenze tardive. L’iterazione dell’avverbio di negazione «non», fino alla duplice negazione nell’epifonema che chiude il montaliano Non chiederci la parola, altro non designa che la suprema, tragica, legittimazione del già crepuscolare rigetto dell’identità tradizionalmente ascritta al poeta e della caduta della funzione vaticinante e universalizzante dei nomi della poesia, non in grado di dare una spiegazione armonica del divenire storico: «gli uomini non dimandano più nulla / dai poeti», diceva Palazzeschi nella mutevole, e all’apparenza fortuita, combinazione dei fonemi di E lasciatemi divertire! (L’incendiario, 1910). Nella predizione di Borgese, si tratta della grandezza poetica venuta poi alla luce, del nome negativo che dirà l’imprigionamento nel cosmo, l’ateleologia del mondo, la cui preistoria è ravvisabile, appunto, nei «sommessi balbettii» dei crepuscolari, nel crepuscolare, litotico, «io non sono un poeta»6, che doveva attendere all’incirca vent’anni affinché il rilievo della negazione conseguisse consapevolezza critica e plausibilità ontologica, e, in questa successione spirituale, la negatività il suo portato positivo. (…)


Note

1 N. Tedesco, La condizione crepuscolare, La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 76.

2 Termine tedesco, «Verfall», dove i decadenti, e in seguito i crepuscolari, sperimentano la duplice discendenza di «décadent» e di «inizio», sanno l’una e l’altra cosa, diceva Nietzsche, con altro pathos, in Ecce homo. Questa doppia origine «chiarisce quella neutralità, quella libertà di fronte al problema generale della vita che forse mi distingue». F. Nietzsche, Ecce homo (1888), a cura di S. Romagnoli, Torino, Einaudi 1955, p. 13.E il disinteresse verso la realtà attiva e storica in favore di un’eccessiva insistenza sull’universo della soggettività rescissa da ogni forma di prassi è ciò che distingue i decadenti, e ancor più i crepuscolari: castalii senza pretese di conoscenze intellettuali, singolarità slegate dal mondo sociale a cui negano ogni partecipazione. Figure che vivono al di fuori delle contraddizioni dell’esistenza e della storia, malgrado restituissero l’impressione di soggiacervi, declinandole in versi. E in versilabili spargendo forme perché sopravvivano.

3 «Che cosa sia la poesia italiana dopo la gloriosa fioritura di Pascoli e di D’Annunzio non è facile capire a chi non s’occupi di letteratura per professione. A interrogare i critici, che distribuiscono ogni anno eque razioni di lodi fra cinquanta o sessanta volumi di versi, si direbbe che Apollo musagete tenga fermo il suo carro di fuoco sullo zenith del nostro cielo. A interrogare il gran pubblico, si direbbe invece che dopo le Laudi e i Poemetti la poesia italiana si sia spenta. Si spegne infatti, ma in un mite e lunghissimo crepuscolo, cui forse non seguirà la notte. Presso un popolo ricco di energie creatrici come il nostro la lirica esaurita sonnecchia stanca, ma non dorme e non muore. In una morbida ignavia soffusa di vaga inquietudine si confondono gli ultimi sospiri di una grandezza che fu coi primi sommessi balbettii di una grandezza che verrà un giorno alla luce, e il chiarore del tramonto si protrae fino a disperdersi nei primi raggi dell’alba. […]. Ecco tre giovani poeti crepuscolari – Marino Moretti, Fausto Maria Martini, Carlo Chiaves – che sono indubbiamente tra i migliori rappresentanti di una scuola poetica ogni giorno più numerosa: quella dei lirici che s’annoiano e non hanno che un’emozione da cantare: la torpida e limacciosa malinconia di non aver nulla da dire e da fare». G.A. Borgese, Poesia crepuscolare, «La Stampa», 1910; poi in La vita e il libro, Zanichelli, Bologna 1928, pp. 120-128.

4 E. Sanguineti, «Da Gozzano a Montale» (1954), in Tra Liberty e crepuscolarismo, Mursia, Milano 1977, pp. 17-39.

5 Tale è, in fondo, la visione di Ungaretti del poeta che adempie alla «missione», diceva in un’intervista, di mettere in relazione l’effimero con l’eterno: al balenare del mistero e delle vere ragioni del vivere «vi arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti / e li disperde»; «Sono un poeta / un grido unanime / sono un grumo di sogni», Il porto sepolto (1916).

6 L’archetipo della poetica della negazione è in Emilio Praga: «Tanta vergogna mi mordeva il cuore / D’esser poeta», Rivolta (1864), in Poesie, Treves, Milano 1922, p. 225.


Il saggio di Elisabetta Brizio sarà pubblicato in
“Quaderni delle Officine”, CXXIII, marzo 2023.

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