Archivi categoria: critica

Scritti su Walter Benjamin

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SCRITTI SU WALTER BENJAMIN

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L’alchimista e il chimico

(da: Scritti su Walter Benjamin)

«Se si vuol concepire, con una metafora, l’opera in sviluppo nella storia come un rogo, il commentatore gli sta davanti come il chimico, il critico come l’alchimista. Se per il primo legno e cenere sono i soli oggetti della sua analisi, per l’altro solo la fiamma custodisce un segreto, quello della vita. Così il critico cerca la verità la cui fiamma vivente continua ad ardere sui ceppi pesanti del passato e sulla cenere lieve del vissuto». In queste parole di Benjamin si accentua e precisa il divario tra il conoscere del critico e quello del commentatore: l’uno appare impegnato a cogliere la verità vivente, la fiamma, mentre l’altro non coglie che la verità spenta, raggelata, il legno e la cenere. L’importanza di questa immagine non sta solo nel fatto che essa suggerisce nuovamente un certo privilegio del sapere esoterico del critico nei riguardi di quello, meno profondo, del commentatore, ma in un ulteriore spostamento che si viene a determinare rispetto alle premesse benjaminiane. Se i due metodi di lettura venivano presentati inizialmente come complementari, e anzi tali da poter essere applicati successivamente dal medesimo interprete, non si può dire che ciò trovi conferma nel passo in esame. Al contrario, chiamando in causa le due figure dell’alchimista e del chimico, il cui operare appare fondato su modelli epistemologici differenti, la metafora sembra implicare piuttosto che anche quelli del critico e del commentatore possono rivelarsi come due atteggiamenti tendenzialmente alternativi, e comunque non agevolmente conciliabili. (…)

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Esperienze

(da: Scritti su Michel Foucault)

So che non conviene raccontare una fotografia. Se lo si fa, è senz’altro il segno del fatto che si è poco abili a parlarne, poiché delle due l’una: o la foto non racconta nulla, e in tal caso il racconto la altera; oppure, se racconta, non ha alcun bisogno di noi. Tuttavia le foto di Duane Michals suscitano in me l’indiscreto desiderio di farne il racconto, così come si ha voglia di narrare, maldestramente, ciò che non può essere narrato: un piacere, un incontro rimasto senza seguito, un’angoscia irragionevole in una strada che ci è familiare, la sensazione di una presenza strana a cui nessuno crede granché, meno ancora quelli a cui lo si racconta.

Sono incapace di parlare delle foto di Michals, dei loro procedimenti, dei loro effetti plastici, ma esse mi attirano in quanto esperienze. Esperienze che sono state fatte solo da lui, e che tuttavia, non so bene come, scivolano verso di me – e, credo, verso chiunque guardi quelle foto –, suscitando piaceri, inquietudini, modi di vedere, sensazioni che ho già avuto o che presagisco di dover provare un giorno o l’altro, e di cui mi chiedo sempre se siano sue o mie, pur sapendo bene che le devo a Duane Michals. «Io sono il mio regalo per voi», dice. (…)

(Michel Foucault, traduzione di Giuseppe Zuccarino)

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Bene e Klossowski

(da: Scritti su Pierre Klossowski)

A prima vista un avvicinamento – sfociato poi in amicizia e collaborazione – fra lo scrittore, saggista e disegnatore Pierre Klossowski e l’attore, regista e scrittore Carmelo Bene poteva dirsi confinato nell’ambito dell’improbabile. Erano in causa infatti due personaggi provenienti da mondi del tutto diversi: non è certo un’inezia, per limitarci all’emblematico dato iniziale, la differenza che intercorre fra l’essere nati a Parigi nel 1905 e a Campi Salentina nel 1937. Quando però, vari decenni dopo, i rispettivi percorsi artistici e intellettuali giungono di fatto ad incrociarsi, la distanza si è ormai ridotta in misura considerevole: il più giovane conosce bene le opere del più anziano, e a quest’ultimo non mancano certo le doti necessarie a comprendere di trovarsi di fronte ad un artista di livello tutt’altro che comune. Il primo incontro è probabilmente quello, propiziato da Jean-Paul Manganaro e descritto più volte da Bene, che ha luogo nel 1977 a Parigi, in un caffè situato di fronte all’entrata degli artisti dell’Opéra-Comique, teatro in cui Carmelo sta per rappresentare il suo S.A.D.E. I due, oltre a brindare con cocktail a base di vodka e kir, familiarizzano subito, discutendo in francese di Nietzsche e di teologia. Dopo vari altri contatti, Klossowski rende pubblica la sua ammirazione per l’amico scrivendo alcuni testi di rilievo. (…)

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M. de Sainte Colombe

(da: Scritti su Pascal Quignard)

Visto il suo amore per la musica barocca, Quignard doveva necessariamente trarre profitto da un’importante scoperta, che pochi decenni fa ha aggiunto un tassello di rilievo alle conoscenze disponibili su quest’ambito. Nel 1966, infatti, è stato ritrovato a Ginevra il manoscritto dei sessantacinque Concerts à deux violes esgales di un compositore seicentesco francese, Monsieur de Sainte Colombe, del quale poi altre due partiture sono state rinvenute a Edimburgo. Si è in tal modo concretizzata una figura fino ad allora leggendaria, visto che già i contemporanei di Sainte Colombe lo avevano celebrato non solo come compositore, ma anche come straordinario esecutore di musica per viola da gamba, strumento assai apprezzato nelle corti dell’epoca. Egli aveva anzi perfezionato la viola, aggiungendole una settima corda, di tonalità grave. Le poche e lacunose notizie giunteci su di lui (non conosciamo con certezza neppure il nome di battesimo) ci dicono che aveva insegnato a suonare alle sue due figlie, con le quali a volte si esibiva in concerti destinati a una ristretta cerchia di ascoltatori. Fra i suoi allievi, il più famoso è quel Marin Marais che, a differenza del maestro, ha scelto di condurre una vita brillante ed agiata, ottenendo l’incarico ufficiale di violista presso la corte di Luigi XIV. (…)

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Per tutti l’inverno ha uno sguardo

Elisabetta Brizio

«L’estate fugge nelle province ctonie. / Il verde non è quello di una volta. // Tace il mare (sì, che ci accontenteremmo / di false fughe, falsi fondali, gioventù da dilapidare)». Sono i versi riportati in quarta (e in forma autografa in copertina) nella riedizione di Atelier d’inverno di Remo Pagnanelli – versi che attestano quanto il modularsi sul dispositivo etico-estetico dell’inconsistenza ontologica dell’umano abbia inciso sulla versificazione italiana di fine Novecento. La nuova edizione di Atelier d’inverno, con varianti d’autore, sorge sulla revisione di Pagnanelli risalente al gennaio 1987. Tre sezioni compongono l’opera: «Glaciazioni», «Pratiche dissolutive», «Musica da viaggio». Queste le impressioni del poeta, non del tutto soddisfatto dell’effetto complessivo della prima stesura di Atelier, a due anni dalla pubblicazione: «Leggendo più volte a voce alta l’edizione di Atelier d’inverno […], mi sono reso conto che, a parte il fastidio procurato al lettore da una eccessiva e farraginosa messa a punto (?) tipografica, il precipitato del testo era oltremodo ingolfato da una prosodia eccessivamente disforica, che, se rendeva mimeticamente il messaggio semantico, lo intorbidiva in qualche modo… così questa rilettura dovrebbe servire a rendere più agevole la lettura sia a voce alta che con gli occhi solamente. Credo che la natura del testo non sia spostata, se non in direzione di una maggiore chiarezza del disordine che lo compone. Vi ho aggiunto alcune poesie tratte dalla plaquette Musica da viaggio (Antonio Olmi, Macerata 1984), per completare quello che mi sembra tuttora un ciclo e dare l’idea dell’inizio di un altro. L’interminabilità del lavoro testuale, insomma. A parte la prosodia, è stata aggiunta una più precisa punteggiatura e rari cambi lessicali». (…)

Tratto da: Elisabetta Brizio,
Per tutti l’inverno ha uno sguardo
(Atelier d’inverno di Remo Pagnanelli),
“Quaderni delle Officine”, aprile 2023.

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Dal deserto al libro

(da: Scritti su Edmond Jabès)

Una delle più belle opere di Edmond Jabès non aspira ad avere un carattere creativo bensì esplicativo: si tratta infatti di un volume di interviste. Il suo titolo, Du désert au livre, focalizza bene due vocaboli-chiave dell’intera produzione dello scrittore, ma nel contempo rischia di risultare un po’ ingannevole, in quanto sembra suggerire l’idea di un movimento a senso unico, che conduce da una prima fase dell’esistenza di Jabès, quella a cui fa da sfondo il paesaggio egiziano, ad una seconda, quella parigina, caratterizzata dalla stesura e pubblicazione delle opere letterarie. È vero che lo scrittore, nato al Cairo nel 1912, pur facendo apparire le prime plaquettes di poesie già negli anni Trenta e animando assieme ad altri riviste e collane, ha pubblicato il suo primo libro di rilievo solo nel 1959, ossia due anni dopo essere stato costretto, per evitare persecuzioni politiche in quanto ebreo, a trasferirsi in Francia. Tuttavia, nonostante questo brusco e forzato esodo dalla sua terra d’origine, egli ha conservato di essa un ricordo molto intenso e particolare. A chi, constatando la profonda originalità dell’opera da cui ha preso avvio il percorso letterario più maturo di Jabès, Le Livre des Questions, gli chiedeva quale fosse stato l’impulso iniziale che aveva permesso una tale svolta rispetto ai testi precedenti, egli rispondeva infatti: “Forse l’esperienza del deserto. In Egitto avevo fatto la straordinaria esperienza del deserto. Che cos’è l’esperienza del deserto? Non lo so. È, per esempio, l’esperienza dell’infinito, oppure del silenzio. Nel deserto, un uomo diventa silenzio, e tutto ciò che sta intorno diventa parlante, diventa altro…”. (…)

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Lascaux

(da: Scritti su Georges Bataille)

Mi sono sempre interessato alla storia dell’arte. Forse persino è, o è stato, il primo oggetto del mio interesse. In particolare la preistoria. Questa mi aveva molto colpito per via dell’insieme di domande che pone e che, d’altronde, riguardano da vicino la filosofia. Ho voluto occuparmene di nuovo a partire dal momento in cui è stata scoperta la straordinaria grotta di Lascaux, che rinnovava tutta la questione, […] e che comunque, da certi punti di vista, conferiva all’insieme della pittura preistorica un aspetto quanto mai commovente, che fino a quel momento non aveva potuto avere a causa dello stato relativamente meno buono delle pitture che erano state scoperte prima del 1940. A quella data dei bambini, passeggiando nei boschi, hanno finito con l’infilarsi in un buco che era stato lasciato da un albero sradicato; un giorno si sono introdotti lì e hanno fatto una piccola spedizione per esplorare la cavità. Si erano persino muniti di una lampada e, dopo qualche tempo, con loro grande stupore, hanno visto apparire ogni sorta di figure straordinarie. Ad essi sono bastati pochi minuti, alla luce di una lampada piuttosto misera, per accorgersi che avevano davvero trovato qualcosa di così eccezionale che rimaneva solo una cosa da fare: danzare, come ha detto uno di loro, una vera danza guerriera, alla maniera degli Indiani quando sono sul sentiero di guerra. (…)

(Georges Bataille, traduzione di Giuseppe Zuccarino)

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Non più di un’ombra

Elisabetta Brizio

Marino Moretti e il crepuscolarismo storico

Décadence è disgregazione, tramonto, separatezza come stato elitario e insieme di condanna («Ses ailes de géant l’empêchent de marcher», L’Albatros), evocazione dell’irrazionale, dell’arcano cosmico, perché reale è l’altrove, la «fôret de symboles». A giudicare dall’influsso che ha esercitato su tante correnti successive e dai tanti fermenti, dagli autori capitali che ad essa si sono ispirati, la décadence configura una condizione perenne, più o meno nella stessa ottica in cui Orazio, nell’Ars poetica, poteva dire che le parole, come le foglie, sfiorivano per poi rinascere e tornare a brillare della loro verde luce, e Baudelaire, nel Tramonto del sole romantico, evocare i bagliori di un crepuscolo al quale, aggiungerà Borgese istituendo la definizione di «poesia crepuscolare», non sarebbe seguita la notte.

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