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Oro pro vobis

“nessuno a cui poter dire / che non abbiamo niente da dire / e che il niente che ci diciamo / continuamente / ce lo diciamo / come se non ci dicessimo niente”

Oggi in questa mia prestigiosa rubrica, che io ho creato e che io curo personalmente cercando di lasciare la parola esclusivamente agli ospiti e ai loro scritti, io ho l’onore grandissimo di presentarvi Archibald McGrath Waller, a ragione considerato dalla critica internazionale, quindi da me in primo luogo, che oltretutto lo conosco benissimo essendo stat* su* ospite varie volte a casa sua, il più grande poeta mannese di tutti i tempi. A quei pochi sventurati che ancora ne ignorano l’esistenza e il valore, basterà leggere il ritratto che io ne traccerò qui in queste poche righe per precipitarsi nelle librerie dove fa bella mostra la sua opera omnia che io ho tradotto, un lavoro che mi è valso l’encomio solenne di grandi accademici, non solo italiani, e soprattutto i complimenti di lettori comuni, tutti incantati dalla mia finezza e dal mio rigore che, come tutti sanno, sono da sempre le direttrici inderogabili che io seguo non solo quando io devo rapportarmi con i testi altrui, ma anche e soprattutto nel mio personale percorso di scrittura. Ecco, credo e spero di aver soddisfatto la vostra curiosità su questo poeta che io amo davvero tanto e che, stando a quanto mi ha riferito l’ultima volta che ci siamo visti, lavora da tempo alla traduzione dei miei testi nella sua lingua. Arrivederci alla prossima puntata di questa mia rubrica, una vetrina di autentici talenti, con un nuovo importantissimo ospite.

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L’alchimista e il chimico

(da: Scritti su Walter Benjamin)

«Se si vuol concepire, con una metafora, l’opera in sviluppo nella storia come un rogo, il commentatore gli sta davanti come il chimico, il critico come l’alchimista. Se per il primo legno e cenere sono i soli oggetti della sua analisi, per l’altro solo la fiamma custodisce un segreto, quello della vita. Così il critico cerca la verità la cui fiamma vivente continua ad ardere sui ceppi pesanti del passato e sulla cenere lieve del vissuto». In queste parole di Benjamin si accentua e precisa il divario tra il conoscere del critico e quello del commentatore: l’uno appare impegnato a cogliere la verità vivente, la fiamma, mentre l’altro non coglie che la verità spenta, raggelata, il legno e la cenere. L’importanza di questa immagine non sta solo nel fatto che essa suggerisce nuovamente un certo privilegio del sapere esoterico del critico nei riguardi di quello, meno profondo, del commentatore, ma in un ulteriore spostamento che si viene a determinare rispetto alle premesse benjaminiane. Se i due metodi di lettura venivano presentati inizialmente come complementari, e anzi tali da poter essere applicati successivamente dal medesimo interprete, non si può dire che ciò trovi conferma nel passo in esame. Al contrario, chiamando in causa le due figure dell’alchimista e del chimico, il cui operare appare fondato su modelli epistemologici differenti, la metafora sembra implicare piuttosto che anche quelli del critico e del commentatore possono rivelarsi come due atteggiamenti tendenzialmente alternativi, e comunque non agevolmente conciliabili. (…)

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Glas

Per te che migri agitando parole di salnitro
alle tue spalle – tu nel respiro incerto
che si prescrive isole tra i flutti
e cumula petali di luce per l’inverno

quanto profonda, veggente, cieca morte
lievita ai templi sconosciuti dell’approdo

inchiostra il passo
per tenere la conta degli abissi

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Esperienze

(da: Scritti su Michel Foucault)

So che non conviene raccontare una fotografia. Se lo si fa, è senz’altro il segno del fatto che si è poco abili a parlarne, poiché delle due l’una: o la foto non racconta nulla, e in tal caso il racconto la altera; oppure, se racconta, non ha alcun bisogno di noi. Tuttavia le foto di Duane Michals suscitano in me l’indiscreto desiderio di farne il racconto, così come si ha voglia di narrare, maldestramente, ciò che non può essere narrato: un piacere, un incontro rimasto senza seguito, un’angoscia irragionevole in una strada che ci è familiare, la sensazione di una presenza strana a cui nessuno crede granché, meno ancora quelli a cui lo si racconta.

Sono incapace di parlare delle foto di Michals, dei loro procedimenti, dei loro effetti plastici, ma esse mi attirano in quanto esperienze. Esperienze che sono state fatte solo da lui, e che tuttavia, non so bene come, scivolano verso di me – e, credo, verso chiunque guardi quelle foto –, suscitando piaceri, inquietudini, modi di vedere, sensazioni che ho già avuto o che presagisco di dover provare un giorno o l’altro, e di cui mi chiedo sempre se siano sue o mie, pur sapendo bene che le devo a Duane Michals. «Io sono il mio regalo per voi», dice. (…)

(Michel Foucault, traduzione di Giuseppe Zuccarino)

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Fragmenta

(da: Grafemi)

Ciò a cui tende il frammento è a fissare ogni volta qualcosa di fuggevole, che si mostra solo quando è sul punto di svanire: questo tipo di scrittura, dunque, è strettamente legata ad una apparizione momentanea, ovvero ad una sparizione imminente (Caproni univa i due concetti in un solo vocabolo, quando parlava di «asparizioni»).

Capita a volte al critico di ammirare dall’esterno l’opera di un autore, al modo in cui apprezzerebbe un edificio bello ma privo di porte. Poi, però, continuando l’esplorazione, delle aperture si rivelano di colpo nei muri, per lo stupore di chi era già passato una prima volta di fronte ad esse senza notarle. La sorpresa e il piacere aumentano quando ci si accorge che le porte non immettono in un unico ambiente, ma che ognuna dà accesso ad una stanza diversa. Solo allora il visitatore comprende quanto poco avrebbe potuto conoscere dell’effettiva bellezza dell’edificio se si fosse limitato a osservarne, come pure gli era parso di dover fare, l’aspetto esteriore.

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Glas

s’agita il giorno ingolfato in bende
e febbri contratte per suture d’equilibrio
fruscia nel rigido pallore delle ombre –

consolati dunque del filo che si arma
in bianche trame, del lampo
che s’apprende alle pareti della mano
e macchia d’artiglio il tuo cielo
immobile di stagno, l’acqua sovrastante

il corpo è nebbia esposto alla visione
cicatrice caotica di brace
che segue il sole e lacera s’arrende
davanti alla tua bocca, nel tuo sangue

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Una lettera

Massimo Rizzante

in maggio la selvaggina crepitava sul fuoco
poi gli inni alla gioia dei berliner
si sono confusi ai pianti sugli imperi dissolti
ti scrivevo, qui in questa palude di principi ranocchi
non si è salvato né l’odio per i libretti rossi
né il marasma degli innamorati:
l’estinzione della Storia infiamma le folle
come ai primi fiocchi di manna nel deserto del Sinai
le carni gonfie di birra immortalate dai cameramen
urlano heimat! heimat! al macello degli sguardi

(da: Lettere d’amore e altre rovine)

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Una navicella cromata

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MODI

Qui giace il grande MODI, scrittore di successo, di premi prestigiosi, interviste, cerimonie, viaggi e cotillons… In realtà, un misero ladro di esistenze, di dolori e tragedie di diseredati senza nome che seppe trasformare in patinate pagine di fumo buone per le accademie e il coro di paludati critici plaudenti. La fama gli regalò una splendente navicella cromata da cui guardava il mondo, sempre sorvolandolo, senza immischiarsi, senza mai sporcarsi con le sue miserie. La sua biografia più autentica è tutta concentrata nel numero in rosso che campeggia in alto sul suo loculo. Che l’oblio lo accolga. E così sia.

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