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“Mi piace scrivere a te” (di Rocco Brindisi)

 
Continuo a pubblicare, con gratitudine e piacere, i testi che Rocco Brindisi mi fa avere a intervalli irregolari e luminosi. Non smetterò mai di essergli grato perché, anni fa, il suo Silenzio della neve spalancò davanti al mio sguardo di lettore una scrittura di prodigiosa libertà capace di rivelare la magia imprigionata nelle cose quotidiane: cercai e comperai gli altri suoi libri, compagni ora inseparabili dei miei itinerari attraverso la scrittura. [A. D.]

 

*

Mi piace scrivere a te, prima che a Dio. Lui mi risponde, ogni volta e, alla fine, implora sempre la stessa cosa: la propria Assenza. Sa che mi impietosisco, conosce anche le mie bestemmie, che lo chiamano in causa.
Le città, stordite come cani che non annusano più la neve e neanche la nebbia. Chiedo a questa città di inventare tramonti con una luce dolce per il mio amico, ma lei se ne fotte dei miei desideri. Una volta mi dicesti che non era vero che questa città avesse perso la memoria del vento. Per convincermi, avresti fatto una magia, il tuo sorriso era quello di un mago: avresti tirato la cosa che chiamiamo vento dalle sagome allungate dei dormienti, quelli che si stendono sotto i portici, avvolti in coperte della desolazione, e non sai mai se dormano davvero, guardi quella forma triste, ti chiedi cosa stiano pensando nel firmamento scuro della veglia, in quello del sonno, nella speranza che non sia gelida quella sospensione del cuore. Spero vengano assaliti da un languore infantile, che li protegga. Il tuo amico si perde in questi un po’ folli pensieri. Ho aperto la finestra perché ho fumato, e dopo qualche istante sento i ginocchi freddi. Chiudo la finestra, sbatto un plaid per mandare via le invisibili tracce di fumo. Bevo una camomilla, dove inzuppo una fetta di panettone. Vedo i capelli arruffati del mio amico, mentre scrive dell’anarchico delle montagne e già questo mi riscalda il cuore. Torno a letto, il divano che ho aperto, di sotto; da qualche settimana ho lasciato a Angela il lettone, facendo una cosa buona, da padre, in modo che non sentirà le mie puzze, si potrà allargare come vuole. [Rocco Brindisi]
 

Lettera d’amore a Totò (di Rocco Brindisi)

Io amo Totò”. Si perde allegramente il pudore, pensando a Totò. Le mie figlie sono innamorate di Totò; Mariam e Sara, le mie nipoti, sono pazze di Totò; un amore, mai sbandierato, che si irradia e che nello stesso tempo è segreto. La nostra vecchia casa riecheggia delle nostre risate, quelle di loro due bambine, le risate a crepapelle di Maria, davanti a “Totò e le donne”: Maria concedeva raramente lo schiattamento amoroso della sua pancia; al suo Gesù, invece, sorrideva, sognando appuntamenti più casti della luna. In un vecchio cinema, a Roma, una folla di ragazzi scoppia a ridere, come facessero l’amore per la prima volta, quando Totò Cerca Moglie fa visita alla famiglia Bellavista (tutti cecati): per toglierli dall’imbarazzo, ha inforcato un paio di lenti che non gli lascia vedere niente.
In quegli anni vidi “Sussurri e grida” di Bergman, dove la governante col petto che debordava dall’anima girava nelle stanze dolorose con una lampada che aveva la sua stessa, rossa carnalità pietosa. Un filo misterioso teneva assieme questi due film: chi amava Totò, non poteva non amare “Sussurri e grida”. 
Nell’episodio“La patente” , Totò è conosciuto, temuto come portatore di iella: i suoi paesani lo scansano, e quando si imbattono in lui inventano mille scongiuri. Totò esige, per questa nomea, la patente di uno che procura disastri. Vestito di nero, a tutto punto, persino elegante, lenti nere, un sorriso di nera soddisfazione, quando vede, attorno a sé, spandersi il panico. Nel suo sguardo invisibile, l’incomparabile maestà di cataclismi in agguato. E quando elenca, e detta, alla figlia mortificata, con lucido orgoglio, i futuri clienti, i negozianti che faranno la fila per averlo dalla loro parte, restiamo incantati, così come quando, in “Miseria e nobiltà”, il principe di Casador, trastullandosi nell’abbraccio con Sophia Loren, dice agli astanti: “Io, questa nipote, me la vorrei interrogare”. Vorremmo trascinare le ore del tempo ai suoi piedi, per scongiurare qualsiasi eternità. Poiché l’immortalità sciupa, prima o poi, la memoria della vita, la felicità dei giorni, i dolori, presi a ballare da ragazze, principesse del Caos. Il terrore che la sfinitezza senza fine delle ore renda pallidi gli amori, tutti gli amori.  [Rocco Brindisi]
 

Per versi polimorfi / Il Belzebù bambino di Davide Cortese

 

di Lorenzo Mari

Una poesia che procede per versi polimorfi accenna, per la verità fugacemente, alla mimesi della celebre definizione freudiana di una specifica fase dell’infanzia nello sviluppo psicosociale dell’individuo, per poi darne una rappresentazione che oscilla tra la burla e il grottesco; in questo modo, inoltre, si evita di ricadere nella più banale reiterazione – sempre più destituita, ormai, delle sue motivazioni originali – del fanciullino di pascoliana memoria. L’infanzia (che viene in questo modo, e per paradosso, ad esser considerata assai seriamente) si rivela così essere un repertorio altro, non di rado straniante, al quale sembra avere attinto Davide Cortese per il suo libro più recente, Zebù bambino (Terra d’Ulivi, 2021). Continua a leggere Per versi polimorfi / Il Belzebù bambino di Davide Cortese

Conversazione a Roca Vecchia (da “Iuncturae”)

È un buon luogo, questo, per ritrovarsi a conversare: il mare invernale, lasciato finalmente solo, si dà in tutta la sua austera significanza ed è parca, commovente la sua bellezza priva dei facili trionfi dell’estate.

«Ho sempre amato questi luoghi del passaggio, questi approdi momentanei da cui ripartire».

Accosta il pollice, l’indice e il medio (tra i quali è accesa una sigaretta) alla tempia destra e con l’anulare dell’altra mano percorre più volte l’orlo del bicchiere.

«Sì, capisco e qui il passaggio tra una sponda e l’altra è stretto, i nomi si richiamano tra una riva e l’altra e pure gli dèi (e i demoni) non sono stranieri gli uni agli altri».

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Opus tessellatum / 2 (da “Iuncturae”)

LA REGINA DI SABA (Parla il  Re Salomone che, nel mosaico otrantino, le siede di fronte, ma in un altro medaglione)

«Signora del viaggio, mente che avida contempla la mia città, ti sono grato del dono che porgi a me pur non-sapiente – ma sapienza (sappilo) è cercare sapienza. Il tuo viaggio t’ha edotta, tu già sul sentiero per la sapienza nel momento in cui decidesti e apparecchiasti la partenza.

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La lavanderia (di Rocco Brindisi)

Scendo in lavanderia con un bustone di panni. Mi porto le “Lettere di Don Milani” per ingannare l’attesa e perché questo libro è una delle letture più avvincenti di questi ultimi mesi: la bellezza dolorosa della lingua, l’ostinazione, fraterna, a ragionare sulle parole, sui fatti. Don Milani è malato, costretto a letto, è lì che scrive, credo usi un quaderno, immagino grande, e una biro. Il suo amore, testardo, per i poveri, per i dannati della terra.
 
La lavanderia è aperta, come ogni giorno, fino alle 10 di sera. Prima ancora di entrare, noto due persone, moglie marito, alle prese con un paio di macchine: lavaggio e asciugatura. La donna, cinquantenne, su una sedia a rotelle. Bionda, una benda sull’occhio sinistro. Una bella faccia. Si dà da fare con una catasta di panni, nessuna malinconia nelle mani, gesti decisi e un alone di allegria che viene da lontano. Il frastuono delle vasche. L’uomo le sta accanto, fa la sua parte; un signore piccolo, una faccia rotonda, lo sguardo buono, che trasforma questo rito in una sorta di gioco amoroso. Che ci sia un testimone fa risplendere il loro pudore. Penso che la benda sia qualcosa di temporaneo. Voglio sperarlo. Esco a fumare sulla soglia, l’uomo è vicino a me e, improvvisamente ride, parla da solo e ride. Sta imitando un attore che conosco, la sua voce. Gli dico che è bravo e ne sembra felice. La moglie, intanto, tira fuori un lenzuolo dall’asciugatrice, lo piega; nel piegarlo cade dalla sedia e sbatte con la testa su una delle macchine. Non si lamenta; io e il marito corriamo a soccorrerla, la rimettiamo seduta. Di solito, in una situazione come questa, il primo gesto di una donna è quello, misterioso, di riavviarsi i capelli. Lei non lo fa, né sembra mortificata dall’incidente. Forse lo é, teneramente. Riprende altri panni. Io e il marito torniamo sulla porta. E lui, tranquillo, mi racconta di altre imitazioni, mi fa sentire altre voci, sorride, dice di aver fatto cabaret, un cabaret amatoriale per un decina di anni.  [Rocco Brindisi]
 

Poesia e consapevolezza. Sui libri di Fabrizio Miliucci e Antonio Francesco Perozzi

di Lorenzo Mari

Pochi giorni fa riflettevo con un amico poeta sull’aura di “consapevolezza” che viene spesso ricercata, tanto da chi scrive quanto da chi legge, nelle scritture poetiche degli “esordi”, o comunque in quelle di chi è nei propri venti, e ormai anche trent’anni – nella cosiddetta “poesia giovane”, per capirci. “Consapevolezza” è, ovviamente, un termine ingenuo e attinente più che altro al senso comune, ma non manca di avere precisi addentellati culturali e formali nella produzione poetica in oggetto, che non di rado si trova a oscillare, senz’alcuna soluzione di continuità, tra l’immediatezza apparentemente più viscerale e la sofisticazione più chiaramente sovrastrutturale. D’altronde, quest’ultimo dato – in mancanza di motivi non soltanto di innovazione, ma anche di complessità, nella poesia contemporanea più in generale – si offre come un’inevitabile chiave d’accesso a un certo capitale simbolico. (Un capitale che consente, peraltro, di scrollarsi progressivamente di dosso l’aggettivo “giovane”, che non è poco…). Continua a leggere Poesia e consapevolezza. Sui libri di Fabrizio Miliucci e Antonio Francesco Perozzi

Opus tessellatum / 1 (da “Iuncturae”)

(parla la creatura che regge sulla testa la scacchiera)

«Chi adesso scrivendo mi dà la parola lo ricordo bambino entrare in questo grande spazio figurato, camminare su questo tappeto di mosaico e, nella fascinazione del suo non capire, immergersi negli enigmi che mai gli si sarebbero dissolti, ma proprio per questo ancora restano luminosi e fascinanti.

Nell’animalità delle mie quattro zampe, nell’umanità del mio volto, nel sapiente trifoglio che, trino e germogliante, è figura della parola, reggo quest’enorme scacchiera e mostro così la geometria del vivere e del morire, dell’andare e del restare, squaderno la corrispondenza perfetta tra le speculazioni della mente e l’universo indagato e interrogato.

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Ancora notte (di Rocco Brindisi)

È ancora notte. 

Ho letto l’articolo di una donna. Parla, come nessuno mai, del “cinismo di noi cattolici”, di fronte alle violenze subite da bambini, ragazzi, da parte di preti e laici della Chiesa. Tra i preti, anche se la donna dell’articolo non lo nomina, il cinismo del Papa, il suo cinismo “buono”. Ma non esiste un cinismo che si possa coniugare con la bontà. Sarebbe una contraddizione, diabolica. È la prima volta che, qualcuno, in questo caso una donna, affronta l’ipocrisia, cattolica, come una sorta di maledizione della Chiesa. Si riferisce, nel caso specifico, al documento dei vescovi, incapaci di guardare in faccia l’atrocità del gesto che procura lo smarrimento, il dolore dell’infanzia sedotta, in nome di Dio (i sacerdoti che scorticano la fiducia di un bambino, di una bambina, fanno sempre il nome di Dio quando divorano il loro corpo). 
Le preoccupazioni dei cattolici, di coloro che dovrebbero svelare la verità, sono notarili. Essi: preti, psicologi di un Dio umiliante, tutori della gloria, delle speranze, dei soli indicibili dell’infanzia, dell’adolescenza, riportano le cause dell’orrore all’immaturità, alla mancanza di “formazione”; vorrebbero combattere la mostruosità con “percorsi educativi”; meno di niente, pur di conservare il potere. Poiché di questo si tratta: ribadire il vangelo del Potere. Osannato da cani e porci, il Papa non sa nulla della disperazione di un bambino straziato dai piaceri di un prete, dall’istinto famelico di chi fa scempio della sua inermità, dell’abbandono di un innocente ai sospiri, all’affanno di chi lo sta mangiando vivo. Se fosse cosciente di questo, il Papa si spoglierebbe in piazza gridando: “Il Vangelo non è un immondezzaio”. Quando viene a conoscenza di un dossier che raccoglie 301 mila casi di violenze da parte della Chiesa Francese, e di laici a essa legati, pensa, anche lui, che, comunque, la Chiesa rimanga il Corpo di Cristo. [Rocco Brindisi]

 

 

Nel martello del cervello: su “Ludwig” di Andrea Leone

         Anche questa volta si pensa al Manfred incarnato da Carmelo Bene, agli spasmodici recitativi del Tristan und Isolde di Wagner, alle affermazioni vertiginose di assoluto del Prinz von Homburg di Kleist mentre si leggono le sequenze di Ludwig di Andrea Leone (Fallone Editore, Taranto 2022) che ripete le altezze e le sontuosità del dire già raggiunte in Hohenstaufen e in Kleist – e si ha l’impressione di essere davanti a una “trilogia tedesca” nella quale si compie il miracolo di poter leggere in italiano sequenze di testi che, se fossero scritti in tedesco, avrebbero la stessa forza espressiva e concettuale, il medesimo ritmo antiretorico eppure sapientemente condotto secondo l’arte del dire e dell’argomentare.  [continua a leggere su Via Lepsius]

Naufragi nella selva oscura: su “Ostrakon” di Alessandro Ghignoli

         Prenderei avvio dall’endiadi zanzottiana “oltranza oltraggio” per riflettere sul libro di Alessandro Ghignoli Ostrakon (Anterem Edizioni / Cierre Grafica, Verona 2022) e questa volta, diversamente dalla mia prassi di lettura abituale, non “attraverserò” Ostrakon perché esso, semplicemente, resiste a un tale tentativo e lo vanifica, ma, appunto, dispiegherò una serie di riflessioni e di ipotesi.

          Sia chiaro da subito che, a mio giudizio, siamo davanti a un’opera di straordinaria e rara forza espressiva, concettuale e artistica e mi permetto di aggiungere che ho l’impressione di trovarmi non davanti a un volume a stampa, ma innanzi a un oggetto-spazio, a una scatola colma di enigmi e di sfide e di insidie, a un libro che rinnega sé stesso pur avendo, tra le mani che lo aprono per la prima volta, la tradizionale, rassicurante apparenza del libro.      Continua a leggere su Via Lepsius

Per Cristina Campo (sul “Primo Amore”)

L’elegante volumetto dedicato a Cristina Campo (che già al tempo della sua prima apparizione Domenico Brancale ebbe a definire “una stella cometa sul suo cammino”) invita ad approfondire una figura che, assai legittimamente, sta conquistandosi sempre più interesse e, spero, lettori.  [da qui]

Domenico Brancale, “Dovunque acqua sia voce” (Edizioni degli animali, 2022)

di Antonio Di Gennaro

In uno degli appunti tratti dai Cahiers del pensatore romeno Emil Cioran leggiamo: “Il pensiero spezzato, frammentario, ha tutta l’incongruenza della vita; mentre l’altro, quello coerente, rispetta soltanto le proprie leggi, non acconsentirebbe mai a riflettere la vita, e ancor meno a scendere a patti con lei”. E ancora, se ci riferiamo ad un altro autorevole autore del Novecento, l’egiziano Edmond Jabès, ne Le Parcours, ci imbattiamo in questa breve, ma significativa annotazione: “La vita è discordanza. Incompatibilità dell’istante con l’istante. E la scrittura, espressione dilaniata dell’irriducibile opposizione di limite a limite”.  Continua a leggere Domenico Brancale, “Dovunque acqua sia voce” (Edizioni degli animali, 2022)

Elegia per Caron dimonio occhi di T-rex / Sui libri di Mariasole Ariot e Paola Silvia Dolci

di Lorenzo Mari

In poesia, che si tratti di complesso di Orfeo o meno, i morti parlano molto – forse troppo – con i vivi. L’eccesso, tuttavia, non è ravvisabile, se l’approccio è materico, con esiti talvolta tragici, oppure se, al contrario, è aereo, con calviniana leggerezza – in fondo, l’eccesso nel commercio con i “morti” riguarda soltanto la più ridicola, e mediocre, delle medietas, la retorica delle morte: non è questo il caso. Di appiglio più materico, infatti, appare la forma dell’Elegia, per Mariasole Ariot; levitano, invece, i Dinosauri psicopompi di Paola Silvia Dolci Continua a leggere Elegia per Caron dimonio occhi di T-rex / Sui libri di Mariasole Ariot e Paola Silvia Dolci

Scrittura d’acqua (sul “Primo Amore”)

Dovunque acqua sia voce raccoglie (meglio: accoglie) e riscrive molti testi più o meno recenti, molti percorsi di scrittura e di pensiero sempre caratterizzati da quella tensione intellettuale e psichica mai pacificata, sempre sull’orlo del precipizio, sempre interrogante che vivifica tutti i libri di Domenico Brancale dal momento che l’acqua richiama direttamente l’interrogazione intorno all’origine, agli stati della pre-nascita per inoltrarsi nello stare-nel-mondo sempre condizionato (talvolta dolorante) a causa di questa separazione originaria.

[da qui]

Leggo “Le Belle Bandiere” (di Rocco Brindisi)

Leggo “Le belle bandiere”, seduto davanti al bar, sotto i portici. Il volto del poeta in copertina: capelli arruffati, guance scavate, una bellezza antica. La ragazza del bar mi informa, con un sorriso: “Il suo amico è venuto poco fa”. Un po’ le dispiace che non ci siamo incontrati, un po’ è felice di averlo nominato; terzo, ritiene una sorta di incantamento l’amicizia tra un vecchio signore, barba folta, bianca, con un ragazzo. La sua curiosità è gentile. Continuo a leggere. Un movimento brusco, e il libro si richiude. Ritorna lo sguardo del poeta, che mi trafigge e mi consola. Nei suoi occhi, la passione di guardare il mondo. Sta girando il “Decamerone”. Uno sguardo fiero della propria felicità. Nel film, è un pittore del Trecento in viaggio, che approda a Napoli. Nel libro, le sue risposte ai lettori di “Rinascita”. anni ’60. Lettere di operai, studenti, pensionati. In queste pagine, l’epopea di una lingua amorosa, che rinnova il proprio mistero, entrando negli affanni, le ragioni, i dubbi, i pudori, le speranze senza tempo, la devozione, mai ruffiana, del lettore nei confronti del poeta. Che parli di politica, di cinema o d’altro, c’è qualcosa di lancinante nel rispetto che egli nutre per l’interlocutore, per sé stesso e per il volto invisibile che guarda, scrivendo. Ancora il suo ritratto: la bocca chiusa, non serrata, è il terzo occhio, ribelle e magnanimo. Sarebbe stato bello morire in quei giorni, il terzo giorno la fine delle riprese di un film sulla gioia. Il ragazzo degli appuntamenti al bar non è venuto. Le parole del poeta, la sua faccia, così lontani dalla sua morte, che mi viene da piangere. [Rocco Brindisi]