Poesia e consapevolezza. Sui libri di Fabrizio Miliucci e Antonio Francesco Perozzi

di Lorenzo Mari

Pochi giorni fa riflettevo con un amico poeta sull’aura di “consapevolezza” che viene spesso ricercata, tanto da chi scrive quanto da chi legge, nelle scritture poetiche degli “esordi”, o comunque in quelle di chi è nei propri venti, e ormai anche trent’anni – nella cosiddetta “poesia giovane”, per capirci. “Consapevolezza” è, ovviamente, un termine ingenuo e attinente più che altro al senso comune, ma non manca di avere precisi addentellati culturali e formali nella produzione poetica in oggetto, che non di rado si trova a oscillare, senz’alcuna soluzione di continuità, tra l’immediatezza apparentemente più viscerale e la sofisticazione più chiaramente sovrastrutturale. D’altronde, quest’ultimo dato – in mancanza di motivi non soltanto di innovazione, ma anche di complessità, nella poesia contemporanea più in generale – si offre come un’inevitabile chiave d’accesso a un certo capitale simbolico. (Un capitale che consente, peraltro, di scrollarsi progressivamente di dosso l’aggettivo “giovane”, che non è poco…).

Ora, di ben altra consapevolezza, utilmente e preziosamente distinta da questa alternanza continua di ingenuità e mistificazione, si può parlare nel caso di due pubblicazioni recenti (che, peraltro, esordi non sono, in senso stretto): Saggio sulla paura (Pietre Vive, 2022) di Fabrizio Miliucci e Lo spettro visibile (Arcipelago Itaca, 2022) di Antonio Francesco Perozzi. In queste opere, infatti, si rintraccia già una certa attitudine “a smontare il giochino” della Poesia, giochino che va dalla sociologia letteraria spicciola già abbozzata alla nota distinzione tra scritture “calde” e “fredde” che talvolta ne è il riflesso, sempre piuttosto superficiale, nel gergo critico.

Partendo dal Saggio sulla paura di Miliucci, il testo si presenta fin da subito, fin dal titolo, come accortamente posizionato sulla soglia tra diversi generi, o meglio, tra i vari generi letterari possibili e quello che fatica sempre a lasciarsi classificare come “genere” in senso stretto, ossia la scrittura poetica. In particolare, il Saggio sulla paura di Miliucci sembra discendere direttamente dagli Essais di Montaigne, per «il loro carattere aperto e onnivoro», come ha rilevato, in una recensione, lo stesso Antonio Francesco Perozzi; al tempo stesso, però, la sua scrittura sembra torcersi anche verso esiti più contemporanei e radicali, come ha sottolineato invece Massimiliano Cappello, avanzando l’ipotesi che «questi testi possano benissimo essere letti come d’avanguardia o di ricerca».

Ciò deriva, in primo luogo, dal fatto che l’oggetto dichiarato della poesia-saggio è la paura, ossia qualcosa che, scrive Miliucci, «non mi dice più niente» (p. 5). Un “dire del non poter dire” che, dunque, si fa a tratti fluviale (negando, però, ogni possibilità barocca), a tratti non-assertivo (in un’accezione del termine forse ancora non del tutto esplorata, nel dibattito correlato); in ogni caso, al di là delle dichiarazioni di poetica, e come segnala prontamente la deissi del verso citato, si tratta di una questione esistenziale, psicologica, biografica… e forse anche generazionale. Aggettivo, quest’ultimo, ormai bistrattato, ma che tende sempre a rientrare nel discorso come residuale possibilità euristica, occasionalmente confermata da versi nitidi (e nitidamente assertivi) come ad esempio questi: «interrogarsi sul male / essere scomparsi a trent’anni» (p. 54). In questa testimonianza in gemma di un determinato paesaggio sociale, non c’è, da parte di chi scrive – o meglio, da parte di “chi dice io”, nella poesia – alcuna volontà e velleità, per contro, di apparire. Miliucci rifugge esplicitamente tale volontà e velleità evocando direttamente Narciso nel Narcisso dell’omonimo testo (p. 57) – testo che però, a onor del vero, appare come una delle rare disomogeneità formali del libro, e proprio per una ricerca di mimesi delle marche popolari («Tempo, scusa, fermati / fammi ‘sto piacere», etc.) che non dà compiutamente conto di quel processo di autocoscienza intellettuale che altrove risulta condotto in modo molto più lucido.

Più in generale, però, questo interrogativo sul male – riversato esclusivamente sul piano tematico-ideologico, in un libro in cui, come ha notato Fabrizio Bajec, «non ci sono quasi mai punti interrogativi […] è il bello della tragicommedia» – si propone come un’altra e preziosa chiave di lettura del saggismo di Miliucci. È un saggismo che non ha nulla a che fare con la letterarietà del gesto, perché, rispetto alla paura, “dice del non poter dire”, come ad esempio sulla paura, e altrove resta interrogante, senza risposta, come ad esempio sul male. Allo stesso tempo, è un saggismo che non sembra rinviare direttamente nemmeno alla litteralité di Gleize – come sostenuto, invece da Perozzi – perché, di nuovo, l’interrogazione sul male ha una lunghissima tradizione filosofica e letteraria alle spalle, e della tradizione, senza patemi, si sostenta. Questo saggismo è, invece, il tratto prevalente di un percorso di autocoscienza intellettuale, come ci ricorda uno dei versi maggiormente memorabili non soltanto sulla misura del libro di Miliucci, ma anche su quella di una buona fetta, almeno, di poesia recente: «nella realtà non esistono i libri» (p. 20).

Di questo verso e della sua icasticità pare utile sottolineare anche come si profili – acquisendo poi sempre maggior prepotenza, nel testo – il presupposto di un “fuori” rispetto al testo, continuamente ribadito fino alla dichiarazione più netta, poche pagine prima della conclusione: «Un bene da poco deve pure condurre là fuori» (p. 67). In ultima istanza, e tornando a quella discussione della consapevolezza che rappresenta il centro sfuggente di questo intervento, si tratta anche di un “fuori” rispetto alla lirica (posizione forse ancora più precisa che non il sospetto di “sperimentalismo” più sopra accennato) che si qualifica per il superamento della deissi che le sarebbe propria, come già accade in molta altra poesia – «Diciamo pure che questo tu è sempre e solo un io. Dovrei dire che ci sei in ogni tua forma? Non ci sei mica. Quindi tu e io siamo la stessa persona» (p. 12) – e che però non finisce nelle secche di certa post-lirica contemporanea. Si veda a titolo di esempio il passaggio di una prosa, nella quale viene sì recuperata un’altra interpretazione, ormai assai convenzionale, della lirica (come originata da una “ferita”, o “frattura”), ma ciò accade all’interno di un linguaggio peculiarmente stratificato: «Ma non è il trauma, non si tratta di questo, questo non basta. // La cicatrice dovrebbe essere assenza e invece è un puntello. Si finisce per credere che la frattura sia fertile, salda, per gradi sovverta l’ordine della natura. Il primo e l’ultimo sfregio si uniscono e formano un cerchio; le ginocchia martoriate dell’infanzia, il naso spezzato sulle macchine a scontro, la testata con cui anni dopo – incredibile a dirsi, ma senza volerlo – colpii Andrea proprio al centro del volto» (p. 43)

Se in questo fauvismo si può rintracciare, come suggerisce Fabrizio Bajec, la voce di Simone Cattaneo –per altri versi, come si legge anche in uno dei testi in calce, il libro è anche una conversazione con Carlo Bordini, analogamente a quanto accade in un libro assai diverso come Il mare a Pietralata (Tic, 2021) di Claudio Orlandi – nello Spettro visibile di Antonio Francesco Perozzi uno degli “ipertesti”, come ha segnalato Roberto Corsi, è invece la “morte per acqua” eliotiana, citata nel libro (p. 78) e usata dall’autore anche come titolo per questo sito di sua creazione. Si tratta, dunque, di un rinvio al caposaldo della poesia modernista che, però, non ha un mero valore indicale – rischio che corre, appunto, tanta poesia “iper-consapevole” – quanto di introiezione e contaminazione.

Del resto, come suggerisce la puntuale introduzione di Pasquale Pietro del Giudice, lo “spettro” dello Spettro visibile è tanto imprendibile e fantasmatico quanto policromo e polisenso. Ed è uno spettro, dunque, tanto razionale quanto irrazionale, presentandosi come perfetta condensazione di uno degli aspetti fondamentali del libro, che è il dialogo tra linguaggio poetico e quello scientifico, in un attraversamento eracliteo – come suggerisce qui Elena Santagata – dei tre regni (animale, vegetale, minerale) che parte e ritorna verso una dimensione dell’universo che è, insieme, universale.

Inevitabilmente, allora, la matrice e (parzialmente) gli esiti sono lucreziani, ma come annota sempre Del Giudice nell’introduzione, si possono rintracciare anche «informazioni genetiche della poesia didascalica e della filosofia del Novecento; [la poesia di Perozzi] è imparentata con la poesia di Francis Ponge, Marianne Moore, Gertrude Stein e in Italia Pier Luigi Bacchini» (p. 6). In realtà, in relazione a quello che viene chiamato, con una certa pruderie, “l’estremo contemporaneo”, Perozzi è un autore attivo e ricettivo anche molto oltre l’inizio del Novecento, ad esempio nel campo dell’asemic writing, ma questo tipo di indagine e pratica artistica – purtroppo, verrebbe da dire – non sembra rientrare esplicitamente negli intenti del presente volume.

Tornando al dialogo tra linguaggi e saperi inscenato nel volume, tale conversazione procede presupponendo e poi decostruendo continuamente l’eventuale differenza tra i due “campi”. Si veda, com’è ricordato qui da Claudia Mirrione, l’Inconfutabilità del tarassaco, un testo che si divide in tre micro-sezioni apparentemente “scientifiche” – “Ipotesi”, “Tesi” e “Dimostrazione” – ma che già a partire dal titolo del testo e, ad esempio, con la successiva menzione della «logica-terrore» (p. 58), rifugge il piano della più stringente razionalità e/o verificabilità, per i popperiani falsificabilità. (A questo proposito, Corsi sottolinea, e lo fa molto opportunamente, l’affinità della scrittura di Perozzi con la vena “surrealista” dei “sillogismi” di Carlo Bellinvia in Omissis, pubblicato sempre per Arcipelago Itaca nel 2022).

Naturalmente, siamo ormai da tempo oltre ogni intendimento razionalista o positivista della scienza, e anzi, nel caso di Perozzi, i riferimenti sono puntualmente aggiornati: come non pensare all’Ordine nascosto. La vita segreta dei funghi (Marsilio, 2020) di Merlin Sheldrake quando, nel testo immediatamente precedente a quello appena citato, si legge: «È l’abitudine delle costole / a impedire una piena comprensione / dei funghi.» (p. 57)?

Come peraltro molta ecologia oscura e, in generale, molti fra i più recenti approcci teorici di stampo materialista, si tratta di una prospettiva non solo post-razionalista (dove «chema o Dio», p. 33, mescolano senz’alcuna soluzione di continuità chimica, alchimia e religione) ma anche a-dialettica, incapace di tradurre e sintetizzare l’enciclopedismo con il quale ha costantemente a che fare.

E allora, «Che recita fare, quale / ecosistema sabotare?» (p. 59), scrive Perozzi: differentemente da quella di Miliucci, la sua scrittura resta, più che a-semica, a-dialettica, pervenendo, infine, a indicare una possibile prassi con lo spasmo della convulsione, anziché tentare di ricorrere di nuovo al novecentesco nesso evoluzione/rivoluzione, probabilmente già riconosciuto in partenza come fallimentare.

E non si intenda quest’ultimo come un giudizio di valore, o un giudizio politico di qualche tipo, perché si tratta, innanzitutto, di ritrovare nelle parole dello Spettro visibile una tangibile – e nuda, disarmante – constatazione di certe impasse politiche e culturali con le quali conviviamo ormai da tempo. Non è, ancora una volta, una questione di mera consapevolezza, o di “iper-consapevolezza” intellettuale: nel libro di Perozzi, lo spasmo convulsivo ha correlati formali molto specifici, presentandosi come l’altra faccia delle “strategie stilistiche sospensive” già ravvisate da Mirrione (alla cui analisi si rimanda) nei testi del libro, a partire dalla loro tematizzazione come «sospensione del / contemporaneo a se / stesso» (p. 75).

Non si può fare a meno di notare, però, il rincorrersi di un’eco, volontaria o involontaria che sia, che risuona smaccatamente leninista, tanto nella precedente citazione – «Che recita fare» – quanto in un altro passaggio: «Ci chiediamo che fare. Una risposta / – diciamo un quesito – nasce in chi obbedisce / al disordine, guarda di traverso e ricorda. / Prima o poi si marcisce al sole e fuori / da questo accadere non importa» (p. 33, corsivi aggiunti).

Infine, c’è anche qui un “fuori”, ma, a differenza del più dialettico Miliucci, “non importa”, anche perché non c’è modo di ristabilire alcun nesso tra la teoria (tra l’ipertrofica produzione teorica contemporanea) e la prassi (la sua in-visibilità), tra saperi enciclopedici e disperazioni nichiliste. E questo è un tipo di consapevolezza, risolta più o meno positivamente a seconda del libro che si prenda in mano, di Miliucci o Perozzi, che – al di là delle questioni del “piccolo mondo antico”, non di rado paternalista, della poesia contemporanea – può risultare preziosa anche per chi legge.

(da F. Miliucci, Saggio sulla paura)

Tutto quello che scrivo non va bene, è sbagliato, non ha 
alcun rapporto con il reale. Io stesso non ne ho.

Trascorro le notti rigando la fiancata alle macchine
sradico specchietti dagli sportelli, cammino fino all’alba infilandomi
nei canneti del lungofiume.

Vorrei essere diversamente. Tipo essere un altro, essere altrove
non così fuori di testa o così scombinato.

*

Un bene da poco deve pure condurre là fuori.

Non so quanti me ci siano nel mondo
convergono di tanto in tanto, e questo mi sembra ancora qualcosa.

Sopravvivere alla parte peggiore di sé
elevata al numero di diffrazioni e infine darsene una ragione.

C’è un congresso perenne fra le varie persone che sono
come le teste del tuo romanzo, Carlo.

Penso sempre più spesso che avevi ragione
e le parole rovesciano il loro significato, diventano corpi contundenti
puntati contro il mio io.





(da A. F. Perozzi, Lo spettro visibile)


Epochè

Sono concretamente le cellule che muoiono
le parentesi.
Fidati – se puoi – e seguimi
lo sforzo di riconoscere i contro-pesi
che succhiano da dietro la zona dove
un gatto si sottrae e il giovane che vertebra
per vertebra sei stato non sei.
Ho appreso dalla cecità del mattino
la tecnica per votarli alla catena
dei fenomeni; so che si trova
sulla piega del pelo l’indizio
di ogni sua mancanza.
Adesso
posso lasciare sbrinarsi
la misura opaca, e sbrigliarsi
la monta estiva delle asine: tutta
massa, tutta raglio, tutta spinta, il lutto
dei vuoti cosmici sospeso.

Deambulazione

la spina dorsale e gli arti fanno l’embolia,
la vertigine per prima vuole altezza,
la fame per prima sbanda. ormai s’è alzato
e non puoi farci niente se vaga scalzo,
lo chiami e morde e muore se perde
la mascella. la veglia è la condizione
della sete, se ha sete deve bere, deve
deambulare: che situazione il corpo in piedi,
un cervello da reggere e che sa la mossa,
il motore del cuore attivo. ora la caccia
vedi che porta lontano da casa, addensa
la febbre della vista del cane che vede
e tiene appena largo il fiato, il petto,
lo spazio tra il deserto e il suo fiato:

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