Tutti gli articoli di Antonio Devicienti

“Mi piace scrivere a te” (di Rocco Brindisi)

 
Continuo a pubblicare, con gratitudine e piacere, i testi che Rocco Brindisi mi fa avere a intervalli irregolari e luminosi. Non smetterò mai di essergli grato perché, anni fa, il suo Silenzio della neve spalancò davanti al mio sguardo di lettore una scrittura di prodigiosa libertà capace di rivelare la magia imprigionata nelle cose quotidiane: cercai e comperai gli altri suoi libri, compagni ora inseparabili dei miei itinerari attraverso la scrittura. [A. D.]

 

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Mi piace scrivere a te, prima che a Dio. Lui mi risponde, ogni volta e, alla fine, implora sempre la stessa cosa: la propria Assenza. Sa che mi impietosisco, conosce anche le mie bestemmie, che lo chiamano in causa.
Le città, stordite come cani che non annusano più la neve e neanche la nebbia. Chiedo a questa città di inventare tramonti con una luce dolce per il mio amico, ma lei se ne fotte dei miei desideri. Una volta mi dicesti che non era vero che questa città avesse perso la memoria del vento. Per convincermi, avresti fatto una magia, il tuo sorriso era quello di un mago: avresti tirato la cosa che chiamiamo vento dalle sagome allungate dei dormienti, quelli che si stendono sotto i portici, avvolti in coperte della desolazione, e non sai mai se dormano davvero, guardi quella forma triste, ti chiedi cosa stiano pensando nel firmamento scuro della veglia, in quello del sonno, nella speranza che non sia gelida quella sospensione del cuore. Spero vengano assaliti da un languore infantile, che li protegga. Il tuo amico si perde in questi un po’ folli pensieri. Ho aperto la finestra perché ho fumato, e dopo qualche istante sento i ginocchi freddi. Chiudo la finestra, sbatto un plaid per mandare via le invisibili tracce di fumo. Bevo una camomilla, dove inzuppo una fetta di panettone. Vedo i capelli arruffati del mio amico, mentre scrive dell’anarchico delle montagne e già questo mi riscalda il cuore. Torno a letto, il divano che ho aperto, di sotto; da qualche settimana ho lasciato a Angela il lettone, facendo una cosa buona, da padre, in modo che non sentirà le mie puzze, si potrà allargare come vuole. [Rocco Brindisi]
 

Lettera d’amore a Totò (di Rocco Brindisi)

Io amo Totò”. Si perde allegramente il pudore, pensando a Totò. Le mie figlie sono innamorate di Totò; Mariam e Sara, le mie nipoti, sono pazze di Totò; un amore, mai sbandierato, che si irradia e che nello stesso tempo è segreto. La nostra vecchia casa riecheggia delle nostre risate, quelle di loro due bambine, le risate a crepapelle di Maria, davanti a “Totò e le donne”: Maria concedeva raramente lo schiattamento amoroso della sua pancia; al suo Gesù, invece, sorrideva, sognando appuntamenti più casti della luna. In un vecchio cinema, a Roma, una folla di ragazzi scoppia a ridere, come facessero l’amore per la prima volta, quando Totò Cerca Moglie fa visita alla famiglia Bellavista (tutti cecati): per toglierli dall’imbarazzo, ha inforcato un paio di lenti che non gli lascia vedere niente.
In quegli anni vidi “Sussurri e grida” di Bergman, dove la governante col petto che debordava dall’anima girava nelle stanze dolorose con una lampada che aveva la sua stessa, rossa carnalità pietosa. Un filo misterioso teneva assieme questi due film: chi amava Totò, non poteva non amare “Sussurri e grida”. 
Nell’episodio“La patente” , Totò è conosciuto, temuto come portatore di iella: i suoi paesani lo scansano, e quando si imbattono in lui inventano mille scongiuri. Totò esige, per questa nomea, la patente di uno che procura disastri. Vestito di nero, a tutto punto, persino elegante, lenti nere, un sorriso di nera soddisfazione, quando vede, attorno a sé, spandersi il panico. Nel suo sguardo invisibile, l’incomparabile maestà di cataclismi in agguato. E quando elenca, e detta, alla figlia mortificata, con lucido orgoglio, i futuri clienti, i negozianti che faranno la fila per averlo dalla loro parte, restiamo incantati, così come quando, in “Miseria e nobiltà”, il principe di Casador, trastullandosi nell’abbraccio con Sophia Loren, dice agli astanti: “Io, questa nipote, me la vorrei interrogare”. Vorremmo trascinare le ore del tempo ai suoi piedi, per scongiurare qualsiasi eternità. Poiché l’immortalità sciupa, prima o poi, la memoria della vita, la felicità dei giorni, i dolori, presi a ballare da ragazze, principesse del Caos. Il terrore che la sfinitezza senza fine delle ore renda pallidi gli amori, tutti gli amori.  [Rocco Brindisi]
 

Per versi polimorfi / Il Belzebù bambino di Davide Cortese

 

di Lorenzo Mari

Una poesia che procede per versi polimorfi accenna, per la verità fugacemente, alla mimesi della celebre definizione freudiana di una specifica fase dell’infanzia nello sviluppo psicosociale dell’individuo, per poi darne una rappresentazione che oscilla tra la burla e il grottesco; in questo modo, inoltre, si evita di ricadere nella più banale reiterazione – sempre più destituita, ormai, delle sue motivazioni originali – del fanciullino di pascoliana memoria. L’infanzia (che viene in questo modo, e per paradosso, ad esser considerata assai seriamente) si rivela così essere un repertorio altro, non di rado straniante, al quale sembra avere attinto Davide Cortese per il suo libro più recente, Zebù bambino (Terra d’Ulivi, 2021). Continua a leggere Per versi polimorfi / Il Belzebù bambino di Davide Cortese

Conversazione a Roca Vecchia (da “Iuncturae”)

È un buon luogo, questo, per ritrovarsi a conversare: il mare invernale, lasciato finalmente solo, si dà in tutta la sua austera significanza ed è parca, commovente la sua bellezza priva dei facili trionfi dell’estate.

«Ho sempre amato questi luoghi del passaggio, questi approdi momentanei da cui ripartire».

Accosta il pollice, l’indice e il medio (tra i quali è accesa una sigaretta) alla tempia destra e con l’anulare dell’altra mano percorre più volte l’orlo del bicchiere.

«Sì, capisco e qui il passaggio tra una sponda e l’altra è stretto, i nomi si richiamano tra una riva e l’altra e pure gli dèi (e i demoni) non sono stranieri gli uni agli altri».

[continua a leggere su Iuncturae]

Derrida legge Baudelaire

Ho l’onore e il piacere di proporre un nuovo saggio di Giuseppe Zuccarino. Lo studioso indaga i sempre stimolanti e originali contributi di Jacques Derrida questa volta relativi a Charles Baudelaire; Zuccarino continua così le proprie ricerche intorno alla luminosa e feconda presenza del pensiero francese del XX Secolo. [A. D.]

I paradossi del dono e della confessione in Baudelaire.

     All’origine del primo volume di Donner le temps di Jacques Derrida, c’è un seminario tenuto all’École normale supérieure di Parigi nel 1977-78. In seguito, una parte delle sedute del seminario è stata trasformata in una serie di conferenze esposte all’Università di Chicago nel 1991: sono queste a costituire la base del libro. Alla problematica del dono il filosofo aveva già accennato in vari volumi anteriori, ma in questo caso essa assume un ruolo centrale.     

Che l’idea di dono sia sempre inscindibile da una qualche forma di paradosso viene suggerito da Derrida fin dall’inizio. Egli infatti esordisce commentando una frase di Madame de Maintenon, sposa morganatica di Luigi XIV, che in una lettera a un’amica scriveva: «Il re prende tutto il mio tempo; io dono il resto a Saint-Cyr, a cui vorrei donarlo tutto». Ricordiamo per inciso che il verbo donner, oltre che con «donare», si può rendere in italiano in altri modi, come ad esempio «dare» o «concedere». Quanto a SaintCyr, è il nome di un’istituzione voluta dalla stessa Madame de Maintenon e destinata all’«educazione delle fanciulle povere e di buona famiglia. La sua fondatrice vi si ritirò e poté senza dubbio dedicarle tutto il suo tempo, secondo l’auspicio da lei dichiarato, alla morte del re, nel 1715». Benché la frase epistolare sia facilmente comprensibile, resta però bizzarra, e in apparenza illogica nel modo in cui è formulata: infatti, se tutto il tempo della dama di corte viene preso e occupato dal re, come può lei riservarsene un resto per donarlo a Saint-Cyr? Inoltre, a rigore, non il tempo in quanto tale può appartenere a qualcuno, ma soltanto ed eventualmente la scelta sul modo di impiegarlo. […]

Leggi il saggio completo di Giuseppe Zuccarino in
“Quaderni delle Officine”, CXXII, dicembre 2022.

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Opus tessellatum / 2 (da “Iuncturae”)

LA REGINA DI SABA (Parla il  Re Salomone che, nel mosaico otrantino, le siede di fronte, ma in un altro medaglione)

«Signora del viaggio, mente che avida contempla la mia città, ti sono grato del dono che porgi a me pur non-sapiente – ma sapienza (sappilo) è cercare sapienza. Il tuo viaggio t’ha edotta, tu già sul sentiero per la sapienza nel momento in cui decidesti e apparecchiasti la partenza.

[continua a leggere su Iuncturae]

“Questo spazio dove non sei” di Domenico Brancale

QUESTO SPAZIO DOVE NON SEI

memoria video di Celia Notarbili

montaggio di Jacopo Gandolfi

ambiente sonoro di Federico Pipia

Il video è stato realizzato all’interno dell’installazione site specific “Mariuccia” di Giuseppe Di Liberto, in occasione della mostra Colostro (19 artisti presso la Torre) a cura di Giulia Mariachiara Galiano e Riccardo Vailati, Torre Massimiliana di Sant’Erasmo (Venezia 2022).

Per una lettura di “Perdite”

Chiara Catapano legge Perdite (Puntoacapo Editrice) di Bartolomeo Bellanova.

 

Quale incendio indomabile si prepara nei fondali!” (Dispaccio da Vieste

Ho voluto iniziare da questa profezia, quell’indomabile incendio che illumina e purifica, di cui Bellanova percepisce il propagarsi nei fondali: un incendio che si innesca dalle profondità oscure, da luoghi impensabili, per ossimoro. In fin dei conti, mi sono detta, questo è un libro di profezie che si stanno avverando mentre si scrivono. E’ come l’incontro tra due mari, tra due sostanze identiche ma provenienti da diversi luoghi; è il momento in cui il futuro annunciato e il passato veggente si salutano, generando immagini. Continua a leggere Per una lettura di “Perdite”

Friedrich Hölderlin, La veduta (dalle “Nature indivisibili”)

LA VEDUTA

Quando la vita abitante degli umani si avvia nella lontananza,
là dove s’illumina lontanando il tempo delle vigne,
le è contemporaneo anche il campo vuoto dell’estate,
il bosco si profila con la sua oscura figura;
che la natura completa l’immagine dei tempi,
ch’essa dura, quelli scivolano via veloci,
è cosa che accade per perfezione, l’altezza del cielo sfolgora
allora sull’essere umano, come la fioritura incorona gli alberi.

Con umiltà
Scardanelli
24 maggio 1748

[continua a leggere sulle Nature indivisibili]

Da un libro a venire di Nino Iacovella

Nino Iacovella acconsente alla pubblicazione di un’anticipazione di un libro che ho avuto il privilegio di leggere in anteprima: La parte arida della pianura.

Una scrittura controllatissima e rigorosa, un’idea di poesia aliena da ogni narcisismo e lirismo, una rara lucidità di pensiero e di giudizio innerva pagine destinate a segnare la scrittura in poesia del tempo che stiamo così angosciosamente attraversando.

La scrittura di Nino è istanza di libertà e intransigente scelta etica, politica, resistenziale.

Continua a leggere Da un libro a venire di Nino Iacovella

La lavanderia (di Rocco Brindisi)

Scendo in lavanderia con un bustone di panni. Mi porto le “Lettere di Don Milani” per ingannare l’attesa e perché questo libro è una delle letture più avvincenti di questi ultimi mesi: la bellezza dolorosa della lingua, l’ostinazione, fraterna, a ragionare sulle parole, sui fatti. Don Milani è malato, costretto a letto, è lì che scrive, credo usi un quaderno, immagino grande, e una biro. Il suo amore, testardo, per i poveri, per i dannati della terra.
 
La lavanderia è aperta, come ogni giorno, fino alle 10 di sera. Prima ancora di entrare, noto due persone, moglie marito, alle prese con un paio di macchine: lavaggio e asciugatura. La donna, cinquantenne, su una sedia a rotelle. Bionda, una benda sull’occhio sinistro. Una bella faccia. Si dà da fare con una catasta di panni, nessuna malinconia nelle mani, gesti decisi e un alone di allegria che viene da lontano. Il frastuono delle vasche. L’uomo le sta accanto, fa la sua parte; un signore piccolo, una faccia rotonda, lo sguardo buono, che trasforma questo rito in una sorta di gioco amoroso. Che ci sia un testimone fa risplendere il loro pudore. Penso che la benda sia qualcosa di temporaneo. Voglio sperarlo. Esco a fumare sulla soglia, l’uomo è vicino a me e, improvvisamente ride, parla da solo e ride. Sta imitando un attore che conosco, la sua voce. Gli dico che è bravo e ne sembra felice. La moglie, intanto, tira fuori un lenzuolo dall’asciugatrice, lo piega; nel piegarlo cade dalla sedia e sbatte con la testa su una delle macchine. Non si lamenta; io e il marito corriamo a soccorrerla, la rimettiamo seduta. Di solito, in una situazione come questa, il primo gesto di una donna è quello, misterioso, di riavviarsi i capelli. Lei non lo fa, né sembra mortificata dall’incidente. Forse lo é, teneramente. Riprende altri panni. Io e il marito torniamo sulla porta. E lui, tranquillo, mi racconta di altre imitazioni, mi fa sentire altre voci, sorride, dice di aver fatto cabaret, un cabaret amatoriale per un decina di anni.  [Rocco Brindisi]
 

Poesia e consapevolezza. Sui libri di Fabrizio Miliucci e Antonio Francesco Perozzi

di Lorenzo Mari

Pochi giorni fa riflettevo con un amico poeta sull’aura di “consapevolezza” che viene spesso ricercata, tanto da chi scrive quanto da chi legge, nelle scritture poetiche degli “esordi”, o comunque in quelle di chi è nei propri venti, e ormai anche trent’anni – nella cosiddetta “poesia giovane”, per capirci. “Consapevolezza” è, ovviamente, un termine ingenuo e attinente più che altro al senso comune, ma non manca di avere precisi addentellati culturali e formali nella produzione poetica in oggetto, che non di rado si trova a oscillare, senz’alcuna soluzione di continuità, tra l’immediatezza apparentemente più viscerale e la sofisticazione più chiaramente sovrastrutturale. D’altronde, quest’ultimo dato – in mancanza di motivi non soltanto di innovazione, ma anche di complessità, nella poesia contemporanea più in generale – si offre come un’inevitabile chiave d’accesso a un certo capitale simbolico. (Un capitale che consente, peraltro, di scrollarsi progressivamente di dosso l’aggettivo “giovane”, che non è poco…). Continua a leggere Poesia e consapevolezza. Sui libri di Fabrizio Miliucci e Antonio Francesco Perozzi

Opus tessellatum / 1 (da “Iuncturae”)

(parla la creatura che regge sulla testa la scacchiera)

«Chi adesso scrivendo mi dà la parola lo ricordo bambino entrare in questo grande spazio figurato, camminare su questo tappeto di mosaico e, nella fascinazione del suo non capire, immergersi negli enigmi che mai gli si sarebbero dissolti, ma proprio per questo ancora restano luminosi e fascinanti.

Nell’animalità delle mie quattro zampe, nell’umanità del mio volto, nel sapiente trifoglio che, trino e germogliante, è figura della parola, reggo quest’enorme scacchiera e mostro così la geometria del vivere e del morire, dell’andare e del restare, squaderno la corrispondenza perfetta tra le speculazioni della mente e l’universo indagato e interrogato.

[continua a leggere su Iuncturae]

L’eternità a Lourmarin (dalle “Nature indivisibili”)

Non esiste più né linea diretta né strada illuminata che mi leghino a colui che mi ha appena lasciato. Contro che cosa va a stordirsi il mio affetto? Cerchio dopo cerchio, s’egli s’avvicina è per subito allontanarsi. Talvolta il suo viso viene ad appoggiarsi al mio: e suscita soltanto un gelido lampo. Non esiste più da nessuna parte la giornata che prolungava la felicità tra lui e me. Ogni parcella – quasi in eccesso – della sua presenza si è all’improvviso dispersa. Abitudine della mia vigilanza… Tuttavia quest’essere venuto meno perdura in un qualcosa di rigido, di deserto, d’essenziale in me, dove i millenni vissuti insieme formano soltanto lo spessore d’una palpebra chiusa.
Ho smesso di parlare con colui che amo – eppure non è il silenzio. Che cos’è allora? Lo so, o credo di saperlo. Ma soltanto quando il passato, che ha un significato, s’apre per lasciarlo passare. Eccolo alla mia altezza, poi lontano, davanti.
Nell’ora nuovamente raccoltasi – allorché interrogo tutto il peso dell’enigma – all’improvviso comincia il dolore, quello del compagno per il compagno, che l’arciere, stavolta, non sa trapassare.

[continua a leggere sulle Nature indivisibili]

Ancora notte (di Rocco Brindisi)

È ancora notte. 

Ho letto l’articolo di una donna. Parla, come nessuno mai, del “cinismo di noi cattolici”, di fronte alle violenze subite da bambini, ragazzi, da parte di preti e laici della Chiesa. Tra i preti, anche se la donna dell’articolo non lo nomina, il cinismo del Papa, il suo cinismo “buono”. Ma non esiste un cinismo che si possa coniugare con la bontà. Sarebbe una contraddizione, diabolica. È la prima volta che, qualcuno, in questo caso una donna, affronta l’ipocrisia, cattolica, come una sorta di maledizione della Chiesa. Si riferisce, nel caso specifico, al documento dei vescovi, incapaci di guardare in faccia l’atrocità del gesto che procura lo smarrimento, il dolore dell’infanzia sedotta, in nome di Dio (i sacerdoti che scorticano la fiducia di un bambino, di una bambina, fanno sempre il nome di Dio quando divorano il loro corpo). 
Le preoccupazioni dei cattolici, di coloro che dovrebbero svelare la verità, sono notarili. Essi: preti, psicologi di un Dio umiliante, tutori della gloria, delle speranze, dei soli indicibili dell’infanzia, dell’adolescenza, riportano le cause dell’orrore all’immaturità, alla mancanza di “formazione”; vorrebbero combattere la mostruosità con “percorsi educativi”; meno di niente, pur di conservare il potere. Poiché di questo si tratta: ribadire il vangelo del Potere. Osannato da cani e porci, il Papa non sa nulla della disperazione di un bambino straziato dai piaceri di un prete, dall’istinto famelico di chi fa scempio della sua inermità, dell’abbandono di un innocente ai sospiri, all’affanno di chi lo sta mangiando vivo. Se fosse cosciente di questo, il Papa si spoglierebbe in piazza gridando: “Il Vangelo non è un immondezzaio”. Quando viene a conoscenza di un dossier che raccoglie 301 mila casi di violenze da parte della Chiesa Francese, e di laici a essa legati, pensa, anche lui, che, comunque, la Chiesa rimanga il Corpo di Cristo. [Rocco Brindisi]

 

 

Nel martello del cervello: su “Ludwig” di Andrea Leone

         Anche questa volta si pensa al Manfred incarnato da Carmelo Bene, agli spasmodici recitativi del Tristan und Isolde di Wagner, alle affermazioni vertiginose di assoluto del Prinz von Homburg di Kleist mentre si leggono le sequenze di Ludwig di Andrea Leone (Fallone Editore, Taranto 2022) che ripete le altezze e le sontuosità del dire già raggiunte in Hohenstaufen e in Kleist – e si ha l’impressione di essere davanti a una “trilogia tedesca” nella quale si compie il miracolo di poter leggere in italiano sequenze di testi che, se fossero scritti in tedesco, avrebbero la stessa forza espressiva e concettuale, il medesimo ritmo antiretorico eppure sapientemente condotto secondo l’arte del dire e dell’argomentare.  [continua a leggere su Via Lepsius]