Archivi categoria: prosa

L’altro dentro di noi

Marco Ercolani

La tua domanda mi tormenta fin dall’inizio del nostro colloquio. Essere schiavi è l’inizio di tutto il dolore umano. Quando si è asserviti a teorie o a persone, si comincia a impazzire, proprio per combattere quelle prigioni. Da qui l’istinto di fuggire, l’ossessione del nomadismo. Ascoltare sì, ma non assentire al mondo come se ne fossimo solo gli specchi. Vivere da monaci in esilio, fuori dal mondo non per troppo tempo, solo per il tempo che siano noi a decidere. Mi chiedi se si può guarire dalla follia: non hai trovato medici competenti per risponderti? Ne deduco che ti fidi di me come psichiatra. Non so se fai bene, ma ho letto Freud e Binswanger, e ho capito che sono malinconico. La malinconia non è un’entità clinica ma il necessario riposo da tutte le malattie psichiche. L’uomo è una scia non richiusa. Torni in quella scia quando entri in una casa abbandonata e non trovi nulla: sono tutti corridoi, lunghi corridoi immersi dentro una nebbia; apri le porte, una per una, e se non trovi niente, pazienza; dietro quelle porte ci sono altri piani da salire, e se sopra non vedrai nulla, slànciati per altre scale, canta, sorridi. Finché non smetti di salire non smettono di esserci i gradini sotto i tuoi piedi. Niente chiude il viaggio. Ma bisogna fare attenzione alla fine della luce, ai muri freddi e improvvisi. Lì vedrai il limite, lì si spegnerà l’istinto nomade: e ti spaventerà la morte. (pp. 19-20)

Marco Ercolani, L’altro dentro di noi,
Verona, Anterem Edizioni / CierreGrafica,
“Piccola Biblioteca Anterem”, 2024.

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L’impossibile

Giuseppe Zuccarino

Essere Dianus, essere Oreste

1. Non di rado i libri di Georges Bataille presentano un carattere composito, mescolando vari stili e generi di scrittura, ma ciò accade in maniera particolarmente accentuata in un volume apparso nel 1962, L’impossible1. Esso infatti comprende parti narrative, poetiche e riflessive. Non si tratta di un’opera nuova, dato che la sua prima edizione era apparsa nel 1947, col titolo La haine de la poésie2. Allora, però, la disposizione dei testi era diversa da quella definitiva, in quanto la sezione L’Orestie precedeva Histoire de rats e Dianus, mentre nell’edizione del 1962 viene posta al termine. Può essere interessante ricordare che nel 1947 Bataille attribuiva a se stesso soltanto L’Orestie, mentre fingeva di essere l’editore e non l’autore delle altre due parti. Scriveva infatti nell’avvertenza iniziale: «Sulla pubblicazione, in uno stesso libro, di poesie e di una contestazione della poesia, del diario di un morto e degli appunti di un mio amico prelato, avrei difficoltà a fornire spiegazioni. Questo genere di capricci non è tuttavia senza esempio, e vorrei dire qui che, se devo giudicare in base alla mia esperienza, essi possono anche esprimere l’inevitabile»3.

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Spartito per Clizia

Silvano Martini

Nello stratificato e complesso testo di Silvano Martini non si può che penetrare per gradi, attraversando una soglia paratestuale che è anche una bussola particolarmente densa di riferimenti e indicazioni di metodo e contenuto. La Clizia del titolo, come già rilevava Frediano Sessi in una “Nota critica” inclusa nella prima edizione Anterem del testo (1986), convoca immediatamente dalla tradizione letteraria, ab origine, la ninfa di Ovidio e il suo tragico amore per il dio del sole e, a seguire, l’omonima commedia di Machiavelli. (…) E mentre vado alla ricerca di una definizione che sia calzante per le opere di Martini e il loro portato così profondamente innovativo (“non-romanzo”?, “romanzo assente”?, “romanzo liquido”?…), mi sovviene che “definire” è fermare, fissare, circo-scrivere, ovvero l’esatto contrario di quel vagare e aprirsi rizomatico tanto auspicato dal nostro autore. Chiara Serani

Al poeta, potrebbe dire Martini, spetta il compito estremo di dare voce al farsi evento della lingua-inconscio, in cui appunto io e mondo vengono ad esistere nel profondo del vissuto tramite il linguaggio, quest’ultimo colto nel suo elemento sorgivo, desiderante, ante-rem, ossia prima che si irrigidisca in significato condivisibile. Per Martini dunque, e per la schiera di poeti che abbracciano questi presupposti, non si tratta di pronunciare la verità del vissuto secondo le gerarchie della comunicazione, filosoficamente riassumibili nelle categorie kantiane dell’intelletto (unità, molteplicità, totalità; realtà, negazione, limitazione; inerenza e sussistenza, causa ed effetto, reciprocità; possibilità-impossibilità, esistenza-inesistenza, necessità-contingenza), bensì di metterla in essere nella catena di significanti che la lingua-inconscio decide di portare nell’aperto della parola, in un’oscurità spiazzante per chi legge ma anche per chi scrive. Stefano Guglielmin

Silvano Martini, Spartito per Clizia,
Verona, Anterem Edizioni, 2023 (prima ed. 1986)

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Nottario

Marco Ercolani

Nottario vuole attirare il lettore in un laboratorio poetico dove abiti un’idea inconciliata ed estrema di scrittura, una scrittura poetica che “ricerchi il compossibile” senza perdere “la fortuna dell’insonnia”. Cito Nanni Cagnone perché da sempre il poeta di Armi senza insegne scava, all’interno della tradizione poetica contemporanea, un abisso di libertà irriducibile. «La più profonda esperienza della poesia è quella di una lontananza costitutiva». Dentro questa lontananza può esistere un libro come Nottario, discorde al suo e a qualsiasi tempo, e che, pur essendo stato scritto nel corso degli anni, si scrive sempre “adesso” perché i suoi frammenti si assemblano nell’unicum che conferma il mio pensiero eretico e girovago, riluttante alla semplificazione.” (dalla Prefazione)

Marco Ercolani, Nottario,
I Quaderni del Bardo Edizioni, 2023.

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(Leggi anche Nottario I – Per la mano sinistra)

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Mistica

Joë Bousquet

C’è un’altezza della coscienza in cui il verbo è il linguaggio della vita, non dell’uomo: come se la mente, elevandosi fino a quel punto, tendesse a scoprire l’unico senso delle affermazioni che le esigenze vitali hanno diversificato. Atto poetico per eccellenza, e che porta necessariamente le tracce di un’operazione collettiva, come se, da una stessa operazione mentale, risultasse che le cose sono come sono, ed essere è essere molti.

Si arriverebbe a mostrare, credo, che un uomo è lui solo se ha uno scopo fuori dal mondo; e poiché ogni analisi del linguaggio ci dà una vista diretta di questi problemi, troveremmo nei proverbi una specie di testimonianza sacra: formulati in una visione spirituale, non hanno per nulla un’esperienza quotidiana del destino umano.

Tratto da:
Joë Bousquet, Mistica,
trad. di Massimo Sannelli,
Lavis, La Finestra, 2013.

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Passaggio di Max Ernst

(da: “La Foce e la Sorgente“, Quaderni, VIII)

Il surrealismo, nel suo periodo di ascesa, aveva, crediamo, un assoluto bisogno di Max Ernst; dapprima per mettersi in luce per tutta la traiettoria della propria freccia, e poi per sciamare ed espandersi circolarmente. Max Ernst, scavalcando Hegel, gli comunica ciò che l’impressionabile e combattivo Breton aspettava da un “meraviglioso” – parola usata e rivoltata – “partito del nord”, venuto dall’est, meraviglioso di cui i quadri di Cranach e Grunewald contengono le primizie sotto il loro disegno non cortigiano e il loro approccio mercuriale. La Femme 100 têtes, una volta letta e riguardata (amata), si arrotola e si srotola interminabilmente nel grande paese dei nostri occhi chiusi. Così l’opera di Max Ernst non sembra fatta di una stranezza uninominale ma di materiali ipnotici e alchimie liberatorie. Si voglia ricordare bene il suo quadro La Rivoluzione la notte: illustra eccellentemente ciò che non pensava di illustrare, le Poesie, che tali non sono, di Isidore Ducasse, conte di Lautréamont. Grazie a Max Ernst e Giorgio De Chirico la morte surrealista, fra tutti i suicidi, non è la più vergognosa. Ha dischiuso le labbra di una giovinezza immortale invece che finire in fondo a una strada affumicata.

(René Char, Alliés substantiels, traduzione di Marco Ercolani)

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Cancelli

(da: Gates_____Cancelli)

L’oltre limitato dai cancelli mi ha sempre affascinata. Qui, lungo la Costa, ve ne sono a decine che di tanto in tanto interrompono i muretti a vivo, e tagliano lo sguardo verso il mare o  verso il fitto del verde con intrighi di linee e ghirigori. Spesso sembrano aprirsi sul precipizio di un vuoto solitario e immobile oppure paiono  stagliarsi sospesi  sul segreto  di un universo a cui non è dato l’accesso.

La resistenza che essi oppongono all’indefinito confine fra il dentro e il fuori è tanto impalpabile quanto è concreto e resistente, e non è dissimile dalle parole e dal silenzio che si nasconde dentro il loro suono: credi di averli scardinati quei cancelli solo per il fatto che puoi guardarci attraverso, ma con le mani stai solo annaspando dentro l’aria. (…)

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Edmond Jabès – I due libri

Edmond Jabès

I due libri, seguito da
Aquila e civetta

I due libri

I

… pensare che l’ultima ora non è necessariamente l’ultima ma, forse, quella dell’ultima parola.

Il rigetto della lingua – oh deserto. Il rifiuto di parlare, di scrivere – oh fallimento del libro.

Strappare la pagina bianca per non essere più preda del suo biancore.

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Leggo “Le Belle Bandiere” (di Rocco Brindisi)

Leggo “Le belle bandiere”, seduto davanti al bar, sotto i portici. Il volto del poeta in copertina: capelli arruffati, guance scavate, una bellezza antica. La ragazza del bar mi informa, con un sorriso: “Il suo amico è venuto poco fa”. Un po’ le dispiace che non ci siamo incontrati, un po’ è felice di averlo nominato; terzo, ritiene una sorta di incantamento l’amicizia tra un vecchio signore, barba folta, bianca, con un ragazzo. La sua curiosità è gentile. Continuo a leggere. Un movimento brusco, e il libro si richiude. Ritorna lo sguardo del poeta, che mi trafigge e mi consola. Nei suoi occhi, la passione di guardare il mondo. Sta girando il “Decamerone”. Uno sguardo fiero della propria felicità. Nel film, è un pittore del Trecento in viaggio, che approda a Napoli. Nel libro, le sue risposte ai lettori di “Rinascita”. anni ’60. Lettere di operai, studenti, pensionati. In queste pagine, l’epopea di una lingua amorosa, che rinnova il proprio mistero, entrando negli affanni, le ragioni, i dubbi, i pudori, le speranze senza tempo, la devozione, mai ruffiana, del lettore nei confronti del poeta. Che parli di politica, di cinema o d’altro, c’è qualcosa di lancinante nel rispetto che egli nutre per l’interlocutore, per sé stesso e per il volto invisibile che guarda, scrivendo. Ancora il suo ritratto: la bocca chiusa, non serrata, è il terzo occhio, ribelle e magnanimo. Sarebbe stato bello morire in quei giorni, il terzo giorno la fine delle riprese di un film sulla gioia. Il ragazzo degli appuntamenti al bar non è venuto. Le parole del poeta, la sua faccia, così lontani dalla sua morte, che mi viene da piangere. [Rocco Brindisi]