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(da: “La Foce e la Sorgente“, Quaderni, VIII)
Il surrealismo, nel suo periodo di ascesa, aveva, crediamo, un assoluto bisogno di Max Ernst; dapprima per mettersi in luce per tutta la traiettoria della propria freccia, e poi per sciamare ed espandersi circolarmente. Max Ernst, scavalcando Hegel, gli comunica ciò che l’impressionabile e combattivo Breton aspettava da un “meraviglioso” – parola usata e rivoltata – “partito del nord”, venuto dall’est, meraviglioso di cui i quadri di Cranach e Grunewald contengono le primizie sotto il loro disegno non cortigiano e il loro approccio mercuriale. La Femme 100 têtes, una volta letta e riguardata (amata), si arrotola e si srotola interminabilmente nel grande paese dei nostri occhi chiusi. Così l’opera di Max Ernst non sembra fatta di una stranezza uninominale ma di materiali ipnotici e alchimie liberatorie. Si voglia ricordare bene il suo quadro La Rivoluzione la notte: illustra eccellentemente ciò che non pensava di illustrare, le Poesie, che tali non sono, di Isidore Ducasse, conte di Lautréamont. Grazie a Max Ernst e Giorgio De Chirico la morte surrealista, fra tutti i suicidi, non è la più vergognosa. Ha dischiuso le labbra di una giovinezza immortale invece che finire in fondo a una strada affumicata.
(René Char, Alliés substantiels, traduzione di Marco Ercolani)
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(da: Gates_____Cancelli)
L’oltre limitato dai cancelli mi ha sempre affascinata. Qui, lungo la Costa, ve ne sono a decine che di tanto in tanto interrompono i muretti a vivo, e tagliano lo sguardo verso il mare o verso il fitto del verde con intrighi di linee e ghirigori. Spesso sembrano aprirsi sul precipizio di un vuoto solitario e immobile oppure paiono stagliarsi sospesi sul segreto di un universo a cui non è dato l’accesso.
La resistenza che essi oppongono all’indefinito confine fra il dentro e il fuori è tanto impalpabile quanto è concreto e resistente, e non è dissimile dalle parole e dal silenzio che si nasconde dentro il loro suono: credi di averli scardinati quei cancelli solo per il fatto che puoi guardarci attraverso, ma con le mani stai solo annaspando dentro l’aria. (…)
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Edmond Jabès
I due libri, seguito da
Aquila e civetta
I due libri
I
… pensare che l’ultima ora non è necessariamente l’ultima ma, forse, quella dell’ultima parola.
Il rigetto della lingua – oh deserto. Il rifiuto di parlare, di scrivere – oh fallimento del libro.
Strappare la pagina bianca per non essere più preda del suo biancore.
Continua a leggere Edmond Jabès – I due libriLeggo “Le belle bandiere”, seduto davanti al bar, sotto i portici. Il volto del poeta in copertina: capelli arruffati, guance scavate, una bellezza antica. La ragazza del bar mi informa, con un sorriso: “Il suo amico è venuto poco fa”. Un po’ le dispiace che non ci siamo incontrati, un po’ è felice di averlo nominato; terzo, ritiene una sorta di incantamento l’amicizia tra un vecchio signore, barba folta, bianca, con un ragazzo. La sua curiosità è gentile. Continuo a leggere. Un movimento brusco, e il libro si richiude. Ritorna lo sguardo del poeta, che mi trafigge e mi consola. Nei suoi occhi, la passione di guardare il mondo. Sta girando il “Decamerone”. Uno sguardo fiero della propria felicità. Nel film, è un pittore del Trecento in viaggio, che approda a Napoli. Nel libro, le sue risposte ai lettori di “Rinascita”. anni ’60. Lettere di operai, studenti, pensionati. In queste pagine, l’epopea di una lingua amorosa, che rinnova il proprio mistero, entrando negli affanni, le ragioni, i dubbi, i pudori, le speranze senza tempo, la devozione, mai ruffiana, del lettore nei confronti del poeta. Che parli di politica, di cinema o d’altro, c’è qualcosa di lancinante nel rispetto che egli nutre per l’interlocutore, per sé stesso e per il volto invisibile che guarda, scrivendo. Ancora il suo ritratto: la bocca chiusa, non serrata, è il terzo occhio, ribelle e magnanimo. Sarebbe stato bello morire in quei giorni, il terzo giorno la fine delle riprese di un film sulla gioia. Il ragazzo degli appuntamenti al bar non è venuto. Le parole del poeta, la sua faccia, così lontani dalla sua morte, che mi viene da piangere. [Rocco Brindisi]
Marco Ercolani
Premessa
Talvolta succede che un sogno sia il principale strumento capace di avvicinarci alla verità di un autore. Ieri, 7 febbraio 2022, rileggevo i Diari di Kafka e sentivo che ogni commento critico, per quelle pagine nitide e tragiche, sarebbe stato superfluo. Quella stessa notte sognai di essere un filosofo praghese, contemporaneo di Kafka, che iniziava, nel settembre del 1938, a pochi mesi dalla rivolta della Cacoslovacchia antinazista, a leggere e a commentare la versione autografa dattiloscritta dei Diari, con tanto di correzioni e disegni dell’autore. Non appena sveglio, fu naturale tradurre quel sogno in un piccolo libro, in questo libro. Quando lo ultimai, tre mesi dopo, non ricordavo esattamente chi ero stato durante la stesura delle singole pagine (mi tornava alla memoria un nome, Felix Weltsch, il filosofo amico di Brod e di Kafka, che criticava la politica antisemita di Hitler e che con lo stesso Brod lasciò Praga nel 1939). Fantasticavo che il mio commento sarebbe stato conservato nell’archivio di Národní Knihovna, la Biblioteca Nazionale di Praga nel quartiere di Staré Mestò, proprio accanto ai Diari di Kafka, e rileggevo le mie parole con un certo stupore perché non erano soltanto le mie parole.
Marco Ercolani
L’età della ferita.
Intorno ai “Diari” di Kafka
Milano, Edizioni Medusa, 2022
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«Voyez, allez, apprenez, c’est le chemin de la vie que vous devez mener, bâtir, terrasser, inventer. Moi, je broute ma vie autour de mon rocher. Mais c’est ma vie-empreinte que je veux vous donner, recevez ces pierres aussi vides que les étoiles, recevez».