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Proue/Prua

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Esperienze

(da: Scritti su Michel Foucault)

So che non conviene raccontare una fotografia. Se lo si fa, è senz’altro il segno del fatto che si è poco abili a parlarne, poiché delle due l’una: o la foto non racconta nulla, e in tal caso il racconto la altera; oppure, se racconta, non ha alcun bisogno di noi. Tuttavia le foto di Duane Michals suscitano in me l’indiscreto desiderio di farne il racconto, così come si ha voglia di narrare, maldestramente, ciò che non può essere narrato: un piacere, un incontro rimasto senza seguito, un’angoscia irragionevole in una strada che ci è familiare, la sensazione di una presenza strana a cui nessuno crede granché, meno ancora quelli a cui lo si racconta.

Sono incapace di parlare delle foto di Michals, dei loro procedimenti, dei loro effetti plastici, ma esse mi attirano in quanto esperienze. Esperienze che sono state fatte solo da lui, e che tuttavia, non so bene come, scivolano verso di me – e, credo, verso chiunque guardi quelle foto –, suscitando piaceri, inquietudini, modi di vedere, sensazioni che ho già avuto o che presagisco di dover provare un giorno o l’altro, e di cui mi chiedo sempre se siano sue o mie, pur sapendo bene che le devo a Duane Michals. «Io sono il mio regalo per voi», dice. (…)

(Michel Foucault, traduzione di Giuseppe Zuccarino)

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Tutto il riposo, o notte, che mi devi

Maurice Scève

Tout le repos, ô nuict, que tu me doibs,
Avec le temps mon penser le devore :
Et l’Horologe est compter sur mes doigtz
Depuis le soir jusqu’a la blanche Aurore.
Et sans du jour m’appercevoir encore,
Je me pers tout en si doulce pensée,
Que du veiller l’Ame non offensée,
Ne souffre au Corps sentir celle douleur
De vain espoir tousjours recompensée
Tant que ce Monde aura forme, & couleur.

Tutto il riposo, o notte, che mi devi,
Col tempo il mio pensare lo divora:
E il mio Orologio è contare sulle dita
Dalla sera fino alla bianca Aurora.
E senza ancora accorgermi del giorno
Tutto mi sperdo in sì dolce pensiero
Che l’anima non stanca di vegliare
Rifiuta al corpo di patir dolore:
Speranza vana sempre ripagata
Fino a che il Mondo avrà forma e colore.

Traduzione di Lucetta Frisa.
Da “Quaderni di Traduzioni“,
vol. LXXXIV, aprile 2023.

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Il nome Osip

(30 aprile 1937)

Io mi porto questo verde alle labbra
questo vischioso giurare di foglie –
questa terra che è spergiura: madre
di bucaneve, aceri, quercioli.

Mi piego alle umili radici, e guarda
come divento insieme cieco e forte;
non fa dono, il risonante parco
di una sontuosità eccessiva agli occhi?

E – palline di mercurio – le rane
con le voci s’agglomerano a palla;
i nudi stecchi si mutano in rami
e in lattea finzione il vapore dell’aria.

(Traduzione di Remo Faccani)

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Voci / Voces

“Ho cominciato la mia commedia essendo io il suo unico attore
e la finisco essendo io il suo unico spettatore.”

Antonio Porchia, Voci (Voces, 1943),
con una lettera di Alejandra Pizarnik,
cura e traduzione di Andrea Franzoni,
Argo Libri, 2023.

Borges lo paragonò a Novalis e Rochefoucauld, Deleuze in Logica del senso lo definì un “umorista dolente”, Breton ne parlò come uno dei pensatori più geniali e illuminanti in lingua spagnola, fu apprezzato da numerosi poeti e scrittori, tra cui A. Pizarnik, R. Queneau e Henri Miller, che inserirono il suo “Voci” tra i cento libri di una loro biblioteca ideale. Nato a Conflenti (Catanzaro) nel 1885 emigra con i genitori in Argentina, a Boca, uno dei quartieri più poveri di Buenos Aires, dove vivrà il resto della sua vita. Fu carpentiere, intrecciatore di ceste, puntatore nel porto, fu silenzioso e raccolto, anarchico e socialista, giardiniere eremita, “mistico indipendente”. Un’opera unica composta di circa 600 aforismi raccolti, e molti altri sparsi e persi. Egli stesso li definì “quasi” come “una biografia, che è quasi di tutti”. Sottile, pungente e delicato al pari di Cioran, Porchia pubblicò “Voces” nel 1943 a proprie spese, ma non riuscendo a farlo circolare, donò le copie alla Cooperativa delle biblioteche popolari. Fu da qui che lentamente cominciò a circolare tra le persone, fino a giungere a Roger Caillois, che lo tradusse e lo fece circolare nella Parigi degli anni 50, dove sin da subito divenne un testo di culto. Morì nel 1968, a seguito di una caduta, potando un ramo nel suo giardino.

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Il morto è solo

(da: Un’altra Praga)

Šel pohřeb, mrtvý byl tak sám.
(Avanza il funerale, il morto è solo.)

Avanza il funerale e il morto è solo.
E Vienna? Balla, sempre e senza fine.
Per la fretta, esequie poche e meschine.
Ancora oggi ignoriamo in quale suolo…

E il ballo spumeggia, e pigliano il volo
a quel suono e le dame e le scarpine.
Avanza il funerale e il morto è solo.
E Vienna? Balla, sempre e senza fine.

Il lutto si giacque come un lenzuolo
sopra questi tetti dalla voce affine.
Con un suono solo io qui mi consolo:
tu conosci campane più divine?

Avanza il funerale, il morto è solo.

(Jaroslav Seifert 1951, trad. di Sergio Corduas, 2009)

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La tempesta

(da: Il plastico)

In questo tempo di crudeltà
dove la montagna ci viene sottratta,
dove l’orizzonte ci viene sottratto
l’architetto, tagliando in scala
cinquecentesimale, sovrapponendo,
incollando a strati cartone ondulato
ha costruito un’alta collina rocciosa
che domina una baia
di cartone ondulato.

Poi me ne ha inviato la foto via mail.
«Consoliamoci, mi ha scritto.
Domani aggiungerò gli edifici».

Modello di fantasia, per giunta fotografico,
piccola promessa di un grande futuro:
sì, potrebbe essere il prologo di una storia
che procede come tante altre, rigenerando
chi la narra e chi la ascolta.

Ma siamo sballottati tra racconti diversi.
Veramente pochi quelli attivi.
Tra di essi molte cavità, spazi
venefici, mai vuoti: la violenza inudibile,
la cupa tempesta, vi battono alla rinfusa,
un oceano furioso…
Noi siamo qui. Inquieti, vigilanti,
leggeri abbastanza (di sicuro preoccupati)
per non affondare.

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