L’undicesimo giorno

Alfonso Lentini
Francesca Ruth Brandes

Questo libro, che ha la scansione del viaggio (come del resto anche gli altri di Francesca Ruth Brandes), viaggia esso stesso, rispetto ai precedenti, in direzione di una progressiva complessità di impianto, ma senza perdere in sottigliezza e rarefazione. In questo senso si muove verso una forma di compiutezza frastagliata e scorre tra parentesi mai aperte e mai chiuse. Ondula su più versanti e cuce insieme, sullo sfondo di Venezia, non solo buddismo ed ebraismo, che sono i poli spirituali entro i quali si dirama il mondo interiore dell’autrice, ma anche altre e disparate prospettive di indagine (persino neoromantiche, o montaliane e, oserei dire, “filosofiche”, almeno nell’accezione leopardiana del termine…).
Un libro disparato, dunque, dove parole secche, scalpellate ad una ad una, invitano ad esplorare le terre di confine, là dove ancora non c’è, ma dove sta per giungere il termine del viaggio. Se la poesia asseconda una percezione musicale della realtà, la musica che Francesca Brandes evoca nei suoi versi è quella dell’incompiuto che cerca il suo compimento: l’undicesimo giorno, che dà titolo (e corpo) alla raccolta, è infatti emblema della sospensione ai bordi di una meta prima di raggiungerla: «Se viaggi per undici giorni e ti fermi quando te ne manca uno solo, come puoi ammirare la luna sopra la capitale?» (così recita Nichiren Daishonin, maestro buddista del tredicesimo secolo, nella citazione posta in epigrafe del libro). L’undicesimo giorno è dunque la vigilia dell’arrivo, uno stato di tensione, «la fatica del migrare e del giungere», «l’ora dello sforzo massimo», che «richiede soprattutto coraggio». Se non che, quando – dopo un lungo e doloroso cammino – ci sembra che stiamo per raggiungere il limite, questo si sposta progressivamente in avanti. Allora l’undicesimo giorno è simile all’utopia di cui parla Eduardo Galeano, che ha lo scopo di indurci ad avanzare. O è come la poesia, che è abitante del limite e tensione verso qualcosa, ma che ha sede “prima” di qualcosa.
Sullo sfondo di questo orizzonte indefinito e irrisolto, si stagliano però figure e vicende concrete che i versi, per quanto di gracile e filiforme apparenza, tratteggiano con forza sorprendente. Sono scaglie di vita (quotidiana o universale), memorie (personali o collettive), quasi scatti fotografici tagliati alla perfezione.
Così in Sighet, Elie, il personaggio evocato solo col nome, è Elie Wiesel, scrittore sopravvissuto alla Shoah ed esperto di kabbalah, al quale Francesca Brandes è stata legata da un affetto speciale. Wiesel (come Julius, il nonno dell’autrice) viene dalla rumena Sighet e in quella località è rappresentato mentre («ai margini della foresta») aspetta, «anche se non crede / al ritorno»; e intanto il Libro dello Splendore, opera chiave della tradizione cabalistica, fa irruzione nei versi come una luce consolatoria, insieme a qualche passo di danza chassidica. E «si diviene bosco».
Così in Togliere incontriamo Jean, ingegnere polacco che conosce quindici lingue, divenuto barbone a Venezia: «Col suo tocco / da sciamano», «quando si sugge / il veleno / con le labbra // troppo scuro dentro». Uno scatto fotografico che lascia il segno.
Così in Ciò che resta i versi inquadrano il rosso (ormai «sbiadito») di una bandiera nell’ex sezione PCI di Cannaregio e prende forma «un esile suono di lotta / di sangue»: un altro scatto fotografico «fino a Marghera», proiettato verso una malinconica rievocazione di anni in cui le speranze di riscatto collettivo avevano un diverso spessore.
Sono solo alcuni esempi di un procedimento quasi narrativo che però risponde a una più complessa curvatura progettuale. Il libro è infatti attraversato anche da aperture verso sognanti prospettive utopistiche («Voglio cavalcare delfini / a sud di Haifa / e non incrociare flottiglie / in assetto di guerra») e da frammenti autobiografici (come quelli che si intravedono in La scelta o in Avviene) dove incontriamo storie di naufragi (veri?), di «pirati» (persino) e di (veri) salvataggi affettivi. Pezzi di avventure umane, ritratti, situazioni che, però, una volta evocati trapassano, per effetto dei continui spostamenti di significato, dalla sfera sensibile del vissuto a quella più propriamente spirituale e diventano tracciati di un travagliato percorso interiore, di un cammino plurale che conduce “appena in vista della luna”. E si scopre che il libro altro non è che il racconto di questo cammino. (Alfonso Lentini)

 

Francesca Ruth Brandes
L’undicesimo giorno
Faloppio (CO), LietoColle Libri, 2012

 

Testi

 

La scelta

Poiché risplende
d’inarrivabile luce
risplende
ogni fibra di corpo

nel senso intimo
un respiro
lunghissimo
risplende

viste le condizioni
i ricordi animati
e la contraddittoria
smemoratezza
o il desiderio
che sia davvero passato
l’assalto
dei cani alla gola
l’agguato
delle buone ragioni
per non vedere
semplicemente
quanto risplende

di ciò che è stato
mi allento

(nell’ordine:
scaricare il peso
e gettare
ogni sasso nell’acqua)

non dimentico
no
non dimentico.

Comunque

in questa forma

con la voglia
di carta nuova

inevitabilmente

risplendo di te.

 

Funi (*)

Nello specchiare
indefinito e
necessario

nello specchiare
del mio cuore
nell’acqua
e dell’acqua
nelle tue parole

nel passo del gatto
Arturo
sul petto del mondo
e nella mano
che accarezza il fulvo

vedo la stessa lucciola
di senso
la stessa storia
ascolto
della risacca e
dell’onda dell’alga

verde

che ti lega i piedi

nell’inceppo del respiro
odo
la stessa libertà
dell’urlo del pugno.

[(*) Due, ma non due. In giapponese Esho funi, ossia inseparabilità di vita e ambiente.]

 

Della libertà

La contraddizione
essenziale al pensiero

quasi l’ombra
che attende il riscatto
del mio erratico dibbuk
di vita in vita

induce
a non circoscrivere
fare inventari e cataloghi
scambiando
il fine con il mezzo.

Posso andare nei mondi
e mutare con l’aria
trattenere l’orlo che mi scappa

Franz K.

strappare la nostalgia
a mani nude.

E non ci sono confini
né scelta.

[Dibbuk, anima che non trova pace. Figura della tradizione ebraica legata alla trasmigrazione delle anime.]

 

Kudoku (*)

Vorrei togliere il male
dagli occhi
dal ventre il brivido
della paura

trasformare il dolore
dei treni passati
il ricordo
della notte vicina

sfiorare ogni fronte
di luce
vorrei
tutto ciò che è destinato
a sfiorire
nascondere in me.

Porre il bene vorrei
nel deserto.

L’inesorabile causa
non sempre accetto

schiarisco la voce
e spero.

[(*) Kudoku, “beneficio”, dal giapponese ku “estinguere il male” e doku “far emergere il bene”.]

 

Fenomeni

Il vero aspetto
sta nell’osso
della Legge

quella somiglianza
intima
di vita pensata
e del deciso capitato
indotto

quel gonfiare le guance
d’aria

consumare l’aria

produrre suoni
(così prossimi al frullìo
d’ali nel passero)

vero aspetto
di ogni transizione
spostamento di massa

vero aspetto
e logica conclusione
di ogni abbraccio

 

Luna sulla capitale

Perché anche il perdere
di ieri
faccia spalle
al mio carico

perché invincibile
è chi ha perso
se non molla la presa

proseguo

manca ancor sempre
un giorno
per essere arrivati.

È qui che stiamo
qui cerchiamo rifugio.

E il viaggio per il viaggio
ci tiene
nell’undicesimo giorno
appena in vista della luna
affaticati
di fuochi e malìe
gonfi di desiderio
e tremanti
di gioia e paura e vento
da non pretendere di più

 

°°°

 

Invece
per obbligo di amore

per la meraviglia
del nostro essere sparùto

la meraviglia
del fiore

del nostro essere
fiore
e roccia e vena
e luce e sete

per convinzione armonica
nella dissonanza
delle voci
per il comune sanguinare
delle vite
i sassi nelle scarpe
le deviazioni di rotta
e gli accidenti

per il canto folle
il dignitoso resistere
per convinzione o malaria

con la passione
che ci consuma le vesti

decidiamo sempre di restare

fino alla fine restare
magari controvento
un’invettiva un gesto
di saluto
una carezza tardiva

qui è il tempo, il luogo, il sogno.

Qui attendiamo
l’alba del dodicesimo.

 

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Francesca Ruth Brandes vive ed opera tra Verona e Venezia. Saggista, curatrice e critica d’arte, ha scritto e condotto per RadioRai programmi di attualità culturale. Si è spesso occupata di tematiche ebraiche. Ha pubblicato, fra gli altri, per i tipi di Marsilio Itinerari ebraici del Veneto, oltre a testi per il teatro e cataloghi monografici.
È collaboratrice del Centro Internazionale della Grafica di Venezia, dell’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia, del Gruppo di ricerca visuale Verifica 8+1 di Venezia-Mestre. Tra le pubblicazioni si possono ricordare: L’altra storia, Eidos, 1995; La casa dei viventi. L’antico Beth Chaim di San Nicolò del Lido, Venezia, Atiesse, 1997; L’ultima farfalla a Terezin, testo teatrale, 1998; Pacovska. Magica Kveta, Padova, 1999; Albedo. L’acqua della luna, Roma-Spello, 2002; Tobia Ravà. Memoria del futuro, Verona, 2003; Nagual o del non-visto, Castelfranco Veneto, 2004; La parte per il tutto in Pensare e insegnare Auschwitz, Milano, Franco Angeli, 2004; Canto a più grida (poesie), Venezia, 2005; Piccole benedizioni (poesie), Padova, 2006; Tikkun, Milano, 2008; Virgiliana, Mantova, 2008; Non appena avrò taciuto, Bassano, 2009; Trasporto (poesie), Faloppio (Co), LietoColle, 2009; Slanci urbani, Verona, 2009; Etimologie, Venezia, 2010.
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Alfonso Lentini, nato a Favara (AG) nel 1951, vive e lavora a Belluno. Insegna, scrive e si occupa di arti visive. Nelle sue numerose mostre e installazioni in Italia e all’estero propone opere basate sulla valorizzazione della parola nella sua dimensione materiale e gestuale. Fra i suoi libri: L’arrivo dello spirito (racconti, con Carola Susani, Perap, Palermo 1991); il romanzo-saggio La chiave dell’incanto (Pungitopo, 1997); il testo poetico Mio minimo oceano di croci (Anterem, 2000); Piccolo inventario degli specchi (Stampa Alternativa, 2003) e il romanzo Un bellunese di Patagonia (Stampa Alternativa, 2004). Una sua nuova opera narrativa, Cento madri, vincitrice del “Premio letterario nazionale Città di Forlì”, è stata pubblicata presso Foschi Editore nel 2009. L’ultimo lavoro poetico, Il morso delle cose, è stato pubblicato in E-book, con prefazione di Giorgio Bonacini, da La Recherche nel 2012.
Scrive su varie riviste, fra cui “L’indice”, “Stilos” e “L’immaginazione”.
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