Anime leggère – di Antonio Scavone

dreyfus28-05-09-6
(René Magritte, La Page Blanche, 1967)

Anime Leggère

              – E alla fine la sposasti, quella Laura?
             – Prego?
              – Ma sì, Laura: quella ragazza così carina, bruna, con gli occhi verdi. Ci teneva per te, no?
              – Scusi, temo di non…
              – Non mi hai riconosciuto? Mariani, Marco Mariani, diritto penale, tecnica dei servizi amministrativi e forse qualche altro complementare, vent’anni fa o giù di lì.
              – Vent’anni fa… cosa? Chi?
              – Tu sei rimasto uguale, identico, neanche un capello bianco. Complimenti!
     È inutile negarlo: ho provato un sussulto di lieto stupore, forse di gioia, quando quest’uomo che mi sta davanti, seduto a un tavolino del bar di 1a classe, ha cominciato, e continua tuttora, a rammentarmi i tempi dell’università. Si è sempre pronti, magari per vanità, a ritrovare un po’ di se stessi nelle memorie perdute e occasionalmente ricreate, è naturale, è confortante; girare lo sguardo come si dice sul proprio passato e riconoscerlo più o meno intatto o condiviso, degno ancora di essere speso o ripreso, fa bene, credo, alle risorse dell’amor proprio, ma devo ammettere, tuttavia, che non riesco a ricordarmi né di quella Laura che avrei dovuto sposare, né degli esami sostenuti né, tampoco, di questo Marco Mariani che si dilunga in particolari e dettagli di una precisione impeccabile quanto arbitraria, con un’asciuttezza di racconto che è davvero disarmante. Ma chi è questo Marco Mariani?
             – Io, poi, abbandonai l’università: non era per me. Sono sempre stato un tipo dinamico, ricordi?
    D’istinto, mi viene di contestare questa dinamicità, avendo intuìto i termini del raffronto: i tipi dinamici che abbandonano gli studi per godersi tutte le opportunità che la vita offre, mentre quelli pigri, e io dovrei essere uno di loro perché presi la laurea con imperdonabile ritardo, quelli come me, dicevo, sono destinati a lavori senza ambizioni, occupazioni senza rispetto, come per scontare i lunghi anni persi sui libri. La mia debole ripicca, accademica come tutti i risentimenti dell’orgoglio, viene subito sedata e sviata dai suoi modi sicuri e sbrigativi.
              – Non che tu fossi uno studente-modello! Ricordo benissimo le tue bravate da Casanova, ma io proprio non ci resistevo all’università: appena due anni, cinque esami e nient’altro. Tutto finito.
     Ecco, non ero pigro e pedissequo come temevo e non ero neppure uno studente modello: ero un dongiovanni. Da dove sarà saltato fuori questo mio improbabile compagno di viaggio? Non mi rispondo perché sono attirato dai suoi ricordi minuziosi, ossessivi, implacabili. Mi parla delle mie virtù di allora: passavo per sciupafemmine ma anche per intellettuale impegnato e attivista politico; aggregavo gli insicuri, scatenavo i timidi, fustigavo gli arroganti e, all’occorrenza, riuscivo a darle e non a prenderle: persino atletico, ma pure salottiero: cantavo, accompagnandomi con la chitarra!… La vanità è ammaliatrice, si sa, ma confesso che non ricordo e non mi conferisco nessuno di quei meriti, nessuna di quelle capacità.
              – Ma tu guarda! Ritrovarci dopo vent’anni su una nave per la Sardegna!
              – Già…
              – Sbarchi ad Arbatax o a Cagliari?
              – Ad Arbatax. Vado a trovare degli amici.
              – Quindi hai vissuto in Sardegna?
              – Senta, io…
              – Ma dammi del tu. Siamo amici o no?
     Certo, saremmo stati amici, vent’anni fa o giù di lì, e lo saremmo ancora se io ci tenessi a conservare il peso e il valore di un rapporto d’amicizia ma, in questo caso, con questo Marco Mariani, dove sarebbero la continuità e la profondità di un legame così antico se col tempo, nel tempo, non hanno lasciato tracce sufficienti e sincere per sopravvivere, almeno per me? Mariani mi guarda come si guarda uno studente impreparato che almanacchi stolidamente una risposta qualsiasi.
              – Scusa, ho lasciato le sigarette in cabina.
              – Prèndine una delle mie.
              – No, grazie. Torno subito.
     Ma non torno subito, anche perché non vado in cabina, non ho sigarette da prendere, le ho con me e sono della stessa marca di quelle che voleva offrirmi Mariani. Lascio dunque il mio inesauribile compagno di viaggio al tavolino del bar di 1a classe e giro un po’ a zonzo per la nave, inoltrandomi nei corridoi stretti, tra il viavai dei passeggeri che si attardano sulle soglie delle cabine come sugli usci di casa ad osservare altri viaggiatori che vagano indecisi se ritirarsi a dormire, oppure già allertati e assuefatti all’idea di passare una notte insonne per il mare, preannunciato di Forza 5.
     Per conto mio, non sono né indeciso né allertato o, per meglio dire, credo di essere deciso e mi illudo di essere smanioso. Allo stupore di riascoltare un po’ della mia vita passata, della mia gloriosa vita passata, è subentrato un turbamento, un sintomo di noia, di inadeguatezza. Ero davvero un intellettuale? Un anarchico? Un artista?
     È come se, sull’onda dei ricordi suscitati più o meno confusamente da Mariani, mi stessi confrontando con un altro me stesso, della cui grandezza stando ai resoconti di Mariani non mi risultano né sospetti né speranze. È come se, dopo aver perduto la memoria di questo Mariani, avessi perduto la memoria anche di quell’altro me stesso, di quello che ero. Ci sono delle cose che non riemergono più mi dico – e altre, invece, che stanno sempre lì in superficie, affiorano di continuo, dondolandosi come sugheri, restando più o meno allo stesso posto, ma enigmatiche, inafferrabili.
     Mariani ha fatto lievitare avvenimenti e suggestioni che avevo, non dico sepolto, ma tralasciato, fino al punto di scordarmene con tranquillità, forse anche con giudizio. I ricordi che questo Mariani mi ripropone si presentano molesti e invitanti, illuminanti e ombrosi. Non mi ci ritrovo nelle memorie di Mariani, è chiaro, ma pure non riesco a negare una loro insinuante e persistente veridicità. Insomma, qualcosa di vero c’è avevo un paio di ragazze, ho partecipato a qualche riunione politica, suonavo più che cantare ma è come se fosse vero adesso, ora, come se producesse effetti di vita solo in questo momento, perché è stato evocato, e non invece per come doveva essere, o fu, vent’anni fa.
     Non a caso, mi sono fermato a compitare queste considerazioni, sul dove ero e dove sono, proprio sotto il cartello che illustra lo spaccato della nave con quella scritta di aiuto per gli smarriti del “TU SEI QUI”. Mi dico che sto esagerando, che ne sto facendo una questione astratta, irreale: non si smarriscono le proprie coordinate solo perché qualcuno, con la sgradevolezza tipica degli intrusi, ha messo a soqquadro i tuoi riferimenti di vita, di ricordi, di sentimenti. No, non si smarriscono così a buon mercato le coordinate dell’esistenza ma neppure si acquistano: non basta, non può bastare una riesumazione accidentale, ancorché suadente, di quello che si è stati per cominciare a essere qualcun altro; a esserlo poi, come si suol dire, di punto in bianco, senza una necessità apparente, senza esperienza o senza motivi. Tutto ciò mi sembra letterario e romanzesco.
     Esco sul ponte-passeggiata e stendo le mani sulla ringhiera della balaustra, come per abbracciare il manto bluastro del mare che caracolla docilmente nella sua immensità: alle nostre spalle la costa laziale si assottiglia in una sagoma nera bassa e radente e le luci di Civitavecchia non tremano più, restano fisse e minute, come dipinte su tela, tracce fatue di una terraferma anch’essa perduta. Da quest’altra parte, verso prua, incombe il nero del mare aperto che non è così minaccioso come lascerebbero ritenere quegli sparuti lampi all’orizzonte: sono bagliori tenui come le insegne fioche e sbilenche di certe trattorie di campagna, annebbiati e fumosi quanto basta per scorgerne a distanza e senza apprensione la sequenza vorrei dire plastica della folgore e del frastuono che, laggiù, sicuramente provocano. Mi sento rassicurato da questi spettacoli notturni che non sono certo benevoli per una traversata, eppure ne traggo, forse con distacco, forse perché sto riflettendo intorno al nulla, ne traggo auspìci incoraggianti, come segnali di sfida.  Chissà, forse è vero che viviamo la vita, e crediamo di viverla, in un solo senso, ma poi qualcuno ci fa notare che i sensi, i significati, i valori erano o potevano essere anche d’altro tipo, quelli a noi nascosti o quelli che noi stessi abbiamo nascosto, ma che ai Mariani di turno, puntualmente, non sfuggivano e non sono sfuggiti.
     Mi affaccio alla ringhiera e guardo i merletti di spuma stemperati dalla risacca della nave e vorrei poterli toccare, vorrei volteggiare anch’io in quella giostra di acque che si increspano candide e vorticose su altre acque scure e profonde. Un tramestìo e un colpo di tosse, mi giro: è Mariani: reca due bicchieri di liquore, uno è per me.
     Brindiamo in silenzio, con un cenno d’intesa che per Mariani deve sembrare allusivo, mentre per me è solo di cortesia. Non so bene cosa stiamo celebrando o festeggiando: ho idea che sia tutta una mascherata, di una plateale e tronfia insincerità, ma sono soltanto io a rimuginare di falsità e ridicolaggini. Mariani, come al solito, è dinamico, pratico, essenziale.
              – Scusa, non avevo capito.
              – Che cosa?
              – Se non ne vuoi parlare…
              – Di che?
              – Be’, è chiaro: ti sei separato.
              – Da chi?
              – Come ‘Da chi’?! Da Laura! L’ho visto subito che eri giù di corda.
     Stavolta Mariani mi delude: m’aspettavo che la sua dinamicità e la sua praticità fossero sì puntuali e accurate, bizzarre e persino geniali, ma non che decadessero così miseramente nel luogo comune dell’uomo separato e prossimo al divorzio, vittima inconsolabile di una “depressione sentimentale”. Molto banale, questa sortita, Mariani: non ho mai sposato “quella” Laura e non potevo, per questo, separarmi da lei, per accontentare infine le tue deduzioni convenzionali e approssimative: mi avrai preso per un altro, stai scantonando… E invece, non so perché, dico di sì, che mi sono separato da Laura.
     “Sono cose che capitano”, è la sua risposta: franca, cordiale, fraterna: come se volesse mitigare i residui, gli avanzi del mio indelebile dolore, reso ancora più bruciante dalla sua petulante invadenza. “Sì, sono cose che capitano”, è il mio commento falso e fiacco come si conviene a un improvvisato istrione.
              – Ti va di parlarne?
     Certo che mi va! Che cosa ci perderei a parlare di qualcosa che non è la mia vita? Ci sarà senz’altro qualcuno che, al mio posto, ora, sarebbe giustamente patetico e convincente nel racconto e nel bilancio delle sue disgrazie sentimentali, qualcuno che rimpiangerebbe “quella” Laura, prima amata e poi lasciata, ma al mio posto, ora, ci sono io e chi meglio di me potrebbe dire la verità su persone o avvenimenti mai realmente vissuti? Se ti attribuiscono un passato e una storia che non sono stati tuoi, vuol dire che potevano esserlo: sarà capitato anche a me lo stesso destino: avrò rinnegato scelte, comportamenti, legami, evitando accuratamente di riesaminarli a distanza di tempo, di farli miei con gli anni, di prenderne finalmente coscienza e possesso.
     Senza volerlo, Mariani potrebbe essere il latore casuale di un messaggio cifrato, il segno e lo spunto di una rinnovata vitalità. E io potrei lasciarmi andare a un gioco, a una messinscena della quale soltanto io conosco l’infondatezza e la leggerezza del suo disegno. E comincio a raccontare, a inventare, a complicare fatti con fatti, persone con persone, epoche con avvenimenti, circostanze con significati. “Dopo la laurea, ci sposammo: un matrimonio sereno, felice, un sogno, una favola. Abitavamo sul mare…”
              – A Posillipo?
     Per forza!, mi dico e annuisco brevemente per non lasciarmi fuorviare da una precisazione ovvia e falsa, ma soprattutto per non bloccare me stesso, quel me stesso che sta sperimentando un’abilità finora sconosciuta, un modo di essere che giudicavo improprio e che, pertanto, non coltivavo. In pratica, sto mentendo a me stesso, mi uso come autore e fruitore di un inganno.
     La faccia di Mariani, dai tratti pesanti e dalle rughe nette, com’è dei tipi dinamici, si fa magicamente morbida, si trasfigura molliccia agli angoli della bocca, si stende intorno agli occhi come per mostrare apertamente, elasticamente, il suo stupore, stavolta, il suo interesse.
     Mariani segue, direi con ossequio, il mio racconto, non si perde le deboli tracce che vado disseminando tra fatti e fatti e approva, distingue, concorda. Mi accorgo di lasciare qualche passaggio sospeso, incompiuto, ma vi pongo rimedio senza fretta, con armonia, e comincio, non dico a divertirmi, ma ad assaporare la vastità del gioco, le possibilità infinite che questo repertorio di menzogne e di mezze verità domina e suscita.
              – Cominciai a lavorare in banca e per i primi anni fu davvero stimolante, non avevo problemi e non me ne creavo. Laura se ne stava a casa, doveva ancora terminare gli studi ma, in realtà, non avevamo pensato che dovesse trovarsi un lavoro, avevamo di che vivere e anche di più. Si era anche deciso di non avere subito dei figli, ma di attendere, di lasciar passare un po’ di tempo, per dedicarci soprattutto a noi stessi, agli svaghi, alle ambizioni.
              – Ma tutto questo non avvenne?
              – No. Quando scoprii che in banca non avrei fatto altro che un lavoro da passacarte, decisi di dimettermi e di intraprendere un’altra attività.
     Sto dicendo delle cose abbastanza sciocche, che hanno, però, il potere di colpirmi, di ferirmi, per un’insospettabile pesantezza che va oltre la finzione, oltre la recita. Mariani intuisce questo mio stato d’animo, lo asseconda con smorfie di consenso, come chi abbia avuto in sorte le medesime traversìe ma è attratto soprattutto dalla tecnica composita del mio racconto confessione, da uno stile scarno e pacato che presenta gli avvenimenti come se non avessero un significato e illustra i significati come se non avessero mai avuto origine da una storia.
     Perché avrei cambiato lavoro? Semplice: per tener fede al mio passato di attivista politico, di intellettuale impegnato. E perché accettai l’impiego in banca? Per vivere. Ma se la vita che facevo non mi piaceva, quale sarebbe stata la vita più vera che avrei dovuto cercare?… Non so rispondere per un motivo ancora più semplice: non avendo vissuto la vita e le avventure del “personaggio” che Mariani ricorda di me, sono costretto a delle invenzioni continue, a risibili espedienti, per i quali stento a giustificare i grandi cambiamenti della “mia” vita.
     Decido, ad ogni modo, di sopperire con silenzi allusivi, con opportune omissioni, ai punti oscuri e cadenti delle trame che vado intessendo e Mariani non si scompone, non si insospettisce, anzi: anticipa, integra e risolve con acume e finezza qualche passaggio farraginoso, qualche inevitabile contraddizione.
              – Si va a mangiare?
     È una proposta che accetto subito, un po’ per togliermi dall’imbarazzo di dover raccontare un’altra frottola, e un po’ perché comincio a ritrovarmi in quello che dico, nelle storie che mi hanno visto protagonista.
     Ci accodiamo alla fila del “Servizio Tavola Calda” e dobbiamo, un po’ tutti, reggerci ai sostegni, perché la nave si muove e slitta come strappata dalle acque. Eppure non avverto il dondolìo ritmico che disturba i passeggeri, non mi applico a quei tonfi sordi che rimbombano tra le pareti di ferro, non mi lascio spaventare dalle avvisaglie di un mare in burrasca: si muove e slitta già dentro di me un impercettibile scollamento tra quello che realmente sono stato e ciò che mi appresto e mi propongo di apparire, principalmente a me stesso.
              – Stanotte non ci farà dormire, questo mare.
     E non dormii neanche quando decisi di licenziarmi dalla banca, anche quella fu una notte agitata: Laura aveva intuìto le mie intenzioni ma taceva, aspettava che gliene parlassi senza reticenze e, soprattutto, con l’indicazione di una prospettiva per l’avvenire. Ma io, l’avvenire, non lo cercavo: càpita di ritrovarsi con una decisione che ha cambiato, o cambierà, la tua vita ma di non averne un’altra, la seconda, quella che conta di più, in grado di sostenere e proteggere quel cambiamento iniziale. Avrei avviato un’attività imprenditoriale: io che ero così brillante, così eclettico, così sicuro, che paura potevo avere? Dopo i trent’anni, mi sarei occupato di “attività d’arte”.
              – Questa pasta al forno si presenta bene, la prendiamo?
     Riproduzione di cartoline artistiche, di acquerelli formato tessera o, anche, di monumenti e siti panoramici in scala, magari dai colori accesi, alterati, contraffatti… Non mi costava iniziare quest’attività: affittai un ufficio dalle parti dell’università, lo arredai come lo studio di un pittore tele, quadri, cavalletti e assunsi come ritrattisti i miei compagni di corso, quelli più pigri di me, quelli come me impegnati nel partito, ma che avevano velleità artistiche da ceramisti e decoratori. Avevo realizzato una sorta di utopia, sia pure in formato cartolina. – La carne è riscaldata, bisogna accontentarsi.
     Laura non vedeva di buon occhio le mie iniziative, le giudicava estemporanee e improprie per un uomo destinato, dalle sue stesse qualità, a più esaltanti imprese ma, forse per amore, evitava di parlarne, di cominciare discussioni, di competere con la mia frenetica ostinazione. Laura riprese gli studi, si laureò, vinse un concorso… e il matrimonio sereno, felice, il sogno, la favola, diventò ben presto una spartizione tacita e concordata di interessi e di scelte. Non abbiamo avuto figli perché, di fatto, già non vivevamo insieme, sotto lo stesso tetto ma ognuno per conto suo. Perché?
              – Non lo mangi il formaggio?
     Già, perché ho fatto finire tutto così in fretta, senza sviluppo, senza ragioni, come se avessimo saputo sin dall’inizio che questo sarebbe stato l’esito del nostro legame? E che donna era Laura e come l’amavo? Che cosa voleva realmente da me e che cosa ho voluto io dalle persone che mi hanno circondato in questi ultimi venti anni? Perché non ne ho parlato, come sarebbe giusto che fosse e cioè a tempo e a luogo? Perché non l’ho ritrovato prima questo Mariani al quale avrei potuto confidare timori e incertezze e riceverne indicazioni e suggerimenti di grande equità e di spirito critico, come solo i tipi dinamici sanno dare?
              – Si va a prendere un amaro?
              – Sì, ma offro io.
     Mariani sorride, si stupisce: non devo avere la faccia di chi offre da bere e in verità non voglio bere, voglio uscire da questa sala dove ho mangiato per inerzia, senza gusto, e vorrei annusare l’odore del mare, ricompattarmi con qualcosa di naturale, di fisico.
              – Non mi hai detto perché vai in Sardegna. Mi hai parlato di amici ma forse non è vero.
              – Vado a raggiungere la mia nuova compagna.
              – L’avevo capito.
     La mia nuova compagna… tutta qui la mia acutezza di inventore? La mediocre originalità delle mie trovate si rivela molto più deprimente delle sortite di Mariani: lui, almeno, ha provato a interpretare, di slancio e secondo le leggi ordinarie del senso comune, i dubbi, le difficoltà, il malessere che il mio atteggiamento lasciava presumere. Io, invece, come un demiurgo evasivo e pasticcione, ho costruito e subito abbandonato le suggestioni e le storie che mi avevano pare debilitato: ancora un po’ e avrei fatto scomparire di scena qualcuno, Laura per esempio, assegnandole una morte ingiusta e precipitosa, ma risolutiva.
              – Tu capisci sempre tutto, Mariani. Anche tu sei rimasto uguale, come vent’anni fa.
              – No, scusa, volevo dire che…
              – Che era scontato, prevedibile?
              – Ma no: di scontato c’è solo la fine.
              – È vero, solo la fine.
              – E di che si occupa la tua…
              – Segretario comunale in un paesino dell’Ogliastra.
              – Io vado a trovare mia sorella: ha sposato un sardo, a Carbonia.
     Raggiungere la mia nuova compagna: sarà scontato, prevedibile, ma è come se fosse o potesse essere vero, per me.  Anche la storia del segretario comunale mi persuade, è calzante, attendibile e tuttavia mi appare come fredda e impersonale, come se avessi lasciato il terreno delle invenzioni gratuite e fossi approdato a quello delle realtà oggettive, quelle più sicure, quelle che non ti fanno mentire più
             – E tu che fai?
     “Nella vita?”, mi risponde Mariani con questa domanda allegra e spensierata, forse per sdrammatizzare il tono della conversazione, improvvisamente cupo e melenso, come mi sento in questo momento.
              – Ho un’agenzia di intermediazione d’affari. Si vive.
     C’era da aspettarselo da un tipo dinamico e quel “Si vive” che ha aggiunto con malcelato orgoglio è un attestato di autostima che mi procura un po’ d’invidia, una sorta di patente, di titolo conquistato sul campo, con sollecitudine, con passione.
     Gli dico che sarebbe il caso di andarsene a dormire, il mare si è calmato e c’è tempo prima di arrivare ad Arbatax.
              – Ma domani mattina ci salutiamo, no?
              – Certo. Dovrai svegliarti presto, arriveremo alle sei.
              – Forse anche prima, abbiamo evitato la burrasca.
     Ci salutiamo e raggiungo la mia cabina ma non riesco a prendere sonno: c’è qualcosa che limita e offende quella sensazione di benessere che ci inebria quando ci corichiamo, come se avvertissi un vuoto, come se avessi riempito un bicchiere vuoto da una bottiglia vuota. Il debole movimento della nave è conciliante ma non so cosa possa conciliare, al momento, dentro di me. Ancora una volta mi sforzo di ricordare i volti e gli avvenimenti riproposti da Mariani ma non trovo nulla, come quando si cerca un paio d’occhiali, una penna, un mazzo di chiavi, aprendo e chiudendo cassetti, ispezionando mensole, ripiani, e disperandosi della propria sbadataggine. Laura non ha volto né corpo né voce, non fa capolino nella fotografia di un gruppo, non si distingue e non si afferra per una parola, un sorriso, un atteggiamento: un po’ mi pento di convivere con una memoria così labile, che mi impedisce di ricostruire l’immagine di una donna che forse avrei dovuto amare.
     Al buio, mi tocco il viso, i capelli, il ventre come per dimostrare che almeno io ci sono, che non sono un’invenzione, ma nell’oscurità percepisco solo che, infossato nel letto, c’è il corpo di un uomo e basta. Il compagno di cabina, che occupa la cuccetta sopra la mia testa, dorme beato, russando, e i suoi sibili si fondono con quelli della nave placidamente: fuori, sulle fiancate, le onde scivolano dolcemente, gorgogliando piano, come aprendosi, svuotando e svelando un solco naturale alla nave.
     I marinai ci svegliano alle cinque e mezza ed io sono lesto ad alzarmi: anche il mio compagno di cabina sbarca ad Arbatax e mi saluta con un “Buongiorno” ancora assonnato, passandosi le mani nei capelli arruffati. Mi chiudo nel bagno, mi lavo, mi pettino, mi rivesto, poi ricompongo la valigia ed esco. Il bar di 1a classe è chiuso, è aperto quello di 2a classe: si sentono gli sbuffi della macchina per il caffè, gli sfregolii dei cornetti scartocciati, l’andirivieni di bambini già pronti a rincorrersi e a giocare.
     Non vedo Mariani e ne resto un po’ sorpreso: mi ero preparato a salutarlo con calore e, soprattutto, con sincerità: gli avrei detto che le mie erano state delle invenzioni, dettate da un eccentrico spirito di rivalsa sul tempo passato, sui ricordi perduti, e mi sarei anche giustificato: “T’ho voluto fare uno scherzo. Chissà quando ci rivedremo…”, così gli dirò.
              – Be’, si va via senza salutare?
              – Non sapevo che cabina avessi e quindi…
              – Quindi ci rivedremo tra altri vent’anni?
              – Non credo.
              – In fondo, siamo onesti, la vita non è stata tanto cattiva con noi: è stata, come posso dire?… leggera, ti pare?
              – Certo. Scambiamoci i numeri di telefono.
              – Infatti!
     E mi porge il suo biglietto da visita, poi prende un’agenda e comincia a scrivere.
              – Giulio Tavola, telefono… ?
     Gli assistenti di viaggio della nave ci instradano in due direzioni opposte: quelli che sbarcano con l’automobile al seguito e quelli che dovranno attendere l’attracco dello scalandrone per i passeggeri a piedi. C’è un po’ di ressa ma è serafica, ordinata: sbarcheremo tutti ad Arbatax, tutti quelli che sono presenti sulla piattaforma del ponte di 1a classe e tutti, poi, prenderemo l’autobus che ci porterà a Tortolì, dove ci divideremo per altri autobus, per gli altri centri dell’Ogliastra.
              – Giulio, il telefono…
              – Sei cinque zero, sei cinque uno.
              – Facile da ricordare. Sei cinque zero, sei cinque uno!
     Sì, Mariani, è facile da ricordare questo numero che t’ho dato: principalmente perché non esiste, è anch’esso inventato, e poi perché non sono Giulio Tavola.
              – Allora, buon viaggio e a presto! Fatti sentire. Auguri!
     La nave attracca silenziosamente e già sulla banchina ci sono gruppi di parenti che addìtano militari in licenza, pellegrini di ritorno da convegni di fede, malati e convalescenti che rincasano un po’ più rinfrancati. Io non ho nessuno che mi attenda: un segretario comunale, di nuova nomina, a quest’ora di mattina, non può pretendere un picchetto d’onore. Metto piede a terra con la stessa sensazione di vuoto che ho avvertito stanotte nel letto: i primi passi sono ancora incerti, mi fermo e sento di dovermi girare, di guardare lassù, al ponte passeggiata dove c’è Marco Mariani, compagno di università di Giulio Tavola.
     Mariani mi saluta agitando la mano, sicuro di sé, sicuro di aver ritrovato casualmente un pezzo dei suoi ricordi e della sua storia. Io, quel pezzo fortuito e posticcio, ricambio il saluto con una fievole contentezza, come si addice ad un occasionale compagno di viaggio. La nave è già pronta a salpare, il suo ventre si è svuotato delle automobili per Arbatax e il porticciolo ritorna ad essere calmo e deserto. Qualcuno ci avverte di dover attendere l’autobus per Tortolì, “Sarà qui a momenti”, mi dice un marinaio di servizio alla banchina e poi mi indica un bar dove poter consumare una colazione calda. Raggiungo il bar, ordino la colazione calda e mi siedo a un tavolino, all’aperto, giusto di fronte alla sagoma della nave che sta lasciando quest’altra parte di storia, quella che più mi riguarda. A spingere la nave al largo è un vento di terra che restituisce aria ai miei polmoni e fiato ai miei respiri. Non posso fare a meno di salutare il dinamico Marco Mariani, l’infelice Laura, i vent’anni che sono passati e “quel” Giulio Tavola che forse potevo essere.
     Il cameriere reca il vassoio della colazione e mi dice che forse si alzerà il maestrale: io rivedo le mie mani, le mie gambe e, riflesso in uno specchio del bar, ritrovo il mio volto e non mi dico chi sono, non sono nessuno. Quando mi giro per guardare la nave, oltre il porto, scorgo soltanto la catena dei monti azzurrini che si stagliano nitidi nel cielo dell’aurora, in uno scenario immobile da cartolina.

***

19 pensieri riguardo “Anime leggère – di Antonio Scavone”

  1. quello che saremmo potuti essere … a volte per strada osservo le persone, ne studio l’aspetto, la scelta nell’abbigliamento, i movimenti, la gestualità e mi chiedo se fossi quella data persona come mi muoverei, come la vestirei, come la trasformerei a mio gusto e cosa ne farei …
    c’entra poco o molto, non so, é un pensiero sbucato fuori da questo entrare ed uscire da se stessi per dare forma ai viziati ricordi di un estraneo.

    Molto belle le descrizioni paesaggistiche come specchio degli stati d’animo, una bellissima lettura che apre molti vasi di pandora al mio girovagare.

    ciao ciao, Antonio!

  2. Ecco un’altra superba prova della scrittura “alta” di Antonio Scavone.
    Una scrittura che scorre e si adagia davanti agli occhi del lettore e ne scuote ogni fibra perchè non si può rimanere uguali dopo aver letto e gustato un racconto di Scavone. C’è questo forte impatto comunicativo che è in grado di trasportare il lettore dentro la storia e fargliela vivere sia da spettatore silenzioso, sia da personaggio mobile, implicato fino allo spasimo, incollato alla/e vicende come il paguro alla conchiglia.

    Anime leggère apre il sipario su un incontro non voluto ma, alla fine, accolto come si accolgono le più intime istanze del nostro io che ci costringono, nostro malgrado, a fare il punto della situazione del momento.E può capitare che la voce narrante del nostro passato sia quella di un compagno di viaggio. Una voce ferma e decisa a fronte dei dubbi e perplessità che può provocare. E i dubbi sono tanti, così come tanti i ricordi che fa riaffiorare, un galleggiare leggèro su un mare Forza 5, un viaggio nel viaggio a titroso nel tempo ma sempre protèso al tempo che verrà.
    Una storia per ritrovarsi, caso mai ci si fosse smarriti, ( TU SEI QUI ).
    Tante storie vere o inventate perchè può accadere di inventarsi un passato possibile, uno specchio dentro al quale trovare un tassello mancante o uno in più che non c’è mai stato.

    E la verità si cela nella narrazione, una verità divisa in parti eque, quella di Mariani, quella di Tavola, quella di Scavone ( le sigarette della stessa marca ) protagonisti con pari dignità, diversi ma identici, conflittuali ma vicini. Una sola identità scandita dal rullìo della nave dentro un tempo-spazio che, dilatandosi, può anche apparire immobile.
    E le mille possibilità che ci siamo dati restano in noi sotto forma di vento, lo stesso vento di maestrale che accompagnerà il protagonista verso mete sempre diverse, perchè diversi nel tempo si profilano i sentieri dell’anima.

    “Perchè non l’ho ritrovato prima questo Mariani al quale avrei potuto confidare timori e incertezze e riceverne indicazioni e suggerimenti di grande equità e di spirito critico, come solo i tipi dinamici sanno dare? ”

    Grazie davvero Antonio per la splendida lettura.
    Grazie davvero Francesco per averlo invitato nella tua Dimora.
    Un Magritte da sogno!

    Abbracci di cuore
    jolanda

  3. Sì, Natàlia, il paesaggio è un altro personaggio di “Anime leggère”: ricolma con la sua vastità notturna e andante quella sensazione di vuoto che il protagonista del racconto prova, suo malgrado, davanti al fantasma possibile del suo passato o di un possibile passato. Non è forse vero che, quando ci si trova immobili con se stessi, abbiamo bisogno di guardare altrove, di guardare davanti a noi ciò che l’ambiente – familiare o no – ci riserva imperturbabilmente? Ed è forse per questo – per questo straniamento indotto dal dinamico co-protagonista – che il protagonista principale – un uomo senza nome, figùrati – sceglie di affrontare questo gioco pericoloso ma seducente di “vedersi” in un altro modo (forse anche in un altro mondo) e di governarsi con sorprendente e imprevedibile sagacia tra la realtà e la finzione oppure tra la rimozione e lo scatenamento di una passione. Il suo vaso di Pandora viene aperto e scatena una serie di avvenimenti che sarebbero stati tutti possibili e il protagonista li analizza, li dispone, li storicizza come se fossero stati tutti veri, come in fondo – per altri versi – continuiamo a fare con la nostra vita.

    Ti abbraccio, Natàlia.

    Antonio

  4. Come sempre, Jolanda, hai còlto acutamente il “piccolo” travaglio di questo viaggiatore senza nome e “senza bagaglio”. Tutto si svolge in questa traversata, su questo mare di notte tra Civitavecchia e Arbatax (già, piccolo dato autobiografico che tu conosci bene), su questo secondo viaggio a ritroso nel tempo, alla ricerca non di un tempo perduto ma di una storia che forse poteva essere. E dove si svolge questo viaggio? Sembra strano e invece è coessenziale al racconto: si svolge su una nave e cioè sull’acqua, come se il protagonista dovesse o volesse rinascere in questo nuovo liquido amniotico che è il mare, supporto non trascurabile dei suoi desideri irrealizati o mai contemplati. Viaggiare per ritrovarsi, quindi, come saggiamente hai rilevato tu: viaggiare dentro se stessi perché, forse, “qualcosa”, qualche piccola cosa poteva davvero essere cambiata, poteva davvero esserci un cambiamento di rotta, una deviazione, una scelta diversa. Quest’uomo senza nome e forse senza qualità (salvo quelle che recupera alla fine del suo viaggio) ha sicuramente da rimproverarsi velleità e incertezze e allora inventa, si aggrega a quel cumulo di aspettative trasognate che è inutile dirlo rendono sempre di più rispetto ai progetti oggettivamente intrapresi e come “ci resta male” quando scopre di non essere “quel Giulio Tavola che forse poteva essere”, come ci restiamo male quando sono gli altri a raccontare di noi non tanto quello che potevamo essere ma quello che non abbiamo voluto essere. Tutto ciò non è malinconico, è sempre il frutto di un desiderio, di un desiderio sentito e raggiunto ma anche di un desiderio bramato e inconcluso. Forse per questo il racconto ha questo titolo: le “anime leggère” si interrogano e approntano certezze: se le loro questioni non diventano storia e se loro certezze non dànno fiducia non vuol dire che siano sconfitti, si può essere leggeri anche affondando il colpo sulle proprie esperienze. Anche la letteratura è una di queste “leggerezze” pesanti.

    Ti ringrazio e ti abbraccio!

    Antonio

  5. Mi chiedi:

    *Non è forse vero che, quando ci si trova immobili con se stessi, abbiamo bisogno di guardare altrove, di guardare davanti a noi ciò che l’ambiente – familiare o no – ci riserva imperturbabilmente?*

    ti rispondo con una poesia di Charles Simic che amo molto e che mi pare rispecchi questa imperturbabilità delle cose che continuano sempre e nonostante noi

    *E si ammassavano le nuvole*

    Sembrava il tipo di vita che volevamo.
    Fragole di bosco e panna al mattino.
    La luce del sole in ogni stanza.
    E noi a camminare nudi sulla riva.

    Qualche sera, però, ci siamo trovati
    incerti sul domani.
    Come attori tragici d’un teatro in fiamme,
    con gli uccelli a ruotare in cerchio sulle nostre teste,
    ed i pini scuri inspiegabilmente ancora lì fermi,
    abbiamo calpestato ogni roccia insanguinata dal tramonto.

    E poi di nuovo sul nostro terrazzo a sorseggiare vino.
    Perché sempre questo senso di tragico finire?
    Nuvole dalle sembianze quasi umane si ammassavano
    all’orizzonte, mentre ogni cosa era piacevole
    nell’aria mite ed il mare sereno.

    Poi la notte ancora ci sorprese, una notte senza stelle.
    Mentre tu accendevi una candela, nuda la portavi
    in camera da letto ed in fretta la spegnevi,
    ancora lì, inspiegabilmente fermi nel buio, i pini e l’erba.

    ***

    grazie Antonio. n.

  6. Inutile dirti, Antonio, che stamperò anche i commenti così come ho fatto con altri post.

    “si può essere leggeri anche affondando il colpo sulle proprie esperienze.”
    Sono d’accordo.

    “…..ma quello che non abbiamo voluto essere…”

    Ecco una riflessione che un po’ m’inquieta. Quel ” voluto ” non potrebbe leggersi ” potuto “, visto che, spesso, la vita, proprio come una nave in tempesta, impone un cambio di rotta?
    In altri termini, quanto la nostra volontà può determinare i nostri destini ?

    ti riabbraccio
    jolanda

  7. Quel “voluto”, Jolanda, è parente prossmo dell’ignavia, dell’indecisione, dell’apatìa ma, anche e sottolineo anche, di una determinazione che viene trasferita ad altre mete e non già per fuggire la realtà, anzi per incontrarla nella sua pienezza impietosa e oggettiva. In questo senso, negarsi non significa passare la mano, favorire i soliti furbi e quindi rinunciare; significa piuttosto – in questo difficile èmpito di risolutezza – reggersi a se stessi, resistere con le proprie liberalità, per evitare che tutto diventi consueto o nostalgico. Il protagonista di “Anime leggère”, allora, è coraggioso ed equanime: non mistifica o non continua a stravolgere, non inventa o non continua a raffazzonare e non si illude per una sorta di prevedibile auto-compassione. Quel “voluto” è la misura di un’armonia irraggiungibile ma suadente, pacata come le luci dell’aurora: forse è l’epifania del suo incompleto ma tanto eccitante divenire. Talvolta, quando si arriva a questa forma di delicata auto-consapevolezza (che indubbiamente fa male ma non ferisce) ci si ferma e si resta a guardare…

    Antonio

  8. Grazie a te, Natàlia, della citazione di Simic: pertinente e consona. Le vie di riferimento di un racconto sono pressoché infinite e si intersecano con altre strade, di altre lingue, di altre storie: nella metafora, dovremmo essere tutti un po’ – e un po di più – “cantonieri” delle strade della letteratura.

    A presto

    Antonio

  9. Caro Antonio,
    come sempre leggerti è una scoperta e un piacevole momento in cui riflettere su sè stessi con l’aiuto proprio dei tuoi racconti.
    Anime leggere è un piccolo gioiello di introspezione, un lavoro di riappropriazione, che tutti, credo, anche inconsciamente nella vita ci apprestiamo a fare prima o poi.
    E’ un gioco dele parti, un rimandare ricordi veri o presunti tra un uomo e un suo alter ego fittizio che sembra forzarlo a indagare su ciò che avrebbe potuto essere la sua vita se avesse operato determinate scelte.
    L’invenzione del personaggio Mariani è determinante nel fare affiorare nella mente del protagonista dei flashback che poi risultano in effetti inventati : E’ come se Giulio stesse scrivendo una storia ma senza bisogno della penna, PC o scrivania su cui concentrarsi meglio; è uno snocciolare avvenimenti “escogitati” di sana pianta in modo estemporaneo, che l’amico non coglie, falsi ma che in effetti potrebbero esere reali, probabili, veritieri.
    In effetti questo è il mestiere dello scrittore, e cioè dar vita, corpo quasi fisico, se sà coinvolgere, ad una storia che porta il germe di eventi possibili e quindi relizzabili anche se si leggono e si toccano solo sulla carta.
    Ognuno di noi vive o ha vissuto un’esistenza in particolare oppure gli sono state imposte delle scelte e mille altre si sarebbero potute intraprendere ma per me c’è un destino segnato anche dal nostro carattere, dalla nostra forma mentis, per cui quella è la nostra strada e nessun altra appare possibile anche se prospettata come probabile (sarò fatalista?)…certo agisce su di noi anche il nostro dinamismo, ma questa è una qualità che non tutti possiedono per cui il detto che siamo gli artefici di noi stessi per me è vero solo in parte.
    Un abbraccio a te Antonio che ci fai sempre ragionare sui poteri evocativi della mente

  10. E’ come dici, Domenico. “i poteri evocativi della mente”: sono loro che ci lasciano intravedere possibilità non sperimentate e soluzioni per le quali non si è avuto abbastanza coraggio. E tuttavia stiamo parlando di vita, oltre che di vita “raccontata”: stiamo parlando di quella vita “ideale” ma così tenera e semplice che ci siamo lasciati sfuggire e di quel “racconto” che almeno ci conforta, ci dà la tempra necessaria per essere quello che siamo, per essere fino in fondo quello che siamo. L’ipotetico Giulio e il dinamico Mariani sono entrambi anime leggère: Mariani lo è di più perché nella realtà, nella sua vita, è andato incontro alle disavventure, al “si vive” come dice lui; l’ipotetico Giulio poteva, se fosse stato se avesse avuto…, compiere e adempiere il suo destino. Non è successo, forse non succede a molti di noi, però vedi come diventa possibile se trasferiamo tutto nell’ambito di un racconto, di una tacita accettazione di noi stessi? Allo scrittore spetta il compito, talora increscioso, di far emergere circostanze “strane” ma quando poi riscopriamo sulla pagina, al di là dello scrittore, la complessità molto “leggera” del nostro essere nel mondo e del nostro essere-in-se-stessi, tutto diventa allora parte integrante del nostro percorso.

    Ti abbraccio, Domenico.

    Antonio

  11. Non è la storia di un personaggio -due- , come potrebbe intenderlo Maupassant, un altro maestro del racconto.Antonio diventa quel personaggio e la sua storia. L’ eroe della ordinary life.
    Come liberandosi, con uno scrollone, in una sorta di libertà raccontata “fantasticamente”.
    Non cercando di imitare la vita ma di trovare un equivalente.
    Il personaggio al centro della scena e tutto il resto è tessuto intorno.
    E i piccoli avvenimenti diventano improvvisamenti grandi, quasi tragici e le scene che compongono la narrazione svelano l’ essenza di quel-i -personaggi che sono “il narratore”.
    La minuziosa capacità di dare tagli secchi al superfluo; gli accostamenti arditi di dettagli a prima vista incongrui; il non detto per dare più profondità alle parole scelte.
    La filigrana più che la trama e nell’ istante la rivelazione ” caracollando” come le caracolas marinas tra la spuma delle onde.
    Spettacoli notturni.. sono la cornice che diventano segnali di sfida .
    Ahi vida! Ahi vida… Bellissimo! Marlene

  12. Manuel Vázquez Montalbán ha scritto nel “Pamphlet dal pianeta delle scimmie” – a proposito del Nulla e della coscienza morale del domani – che “Non si può rinunciare a sognare in avanti. Mai. Nonostante si sappia che ogni futuro sarà sempre imperfetto.”. Il protagonista anonimo (biografico forse, ma non autobiografico, Marlene) sogna invece sul passato, sia pure proiettandosi su un futuro immaginario e quindi anch’esso legato ad un passato improbabile e ad un presente incerto. E’ certamente notevole la percezione dello stato d’animo che tu, Marlene, rilevi e che tu, Natàlia, approvi ma c’è anche dell’altro: sì, già tutto detto (il non-detto, i tagli secchi, la rinuncia al superfluo), ma c’è questa scansione infinita tra passato-presente-futuro, tra la vita-com’è e la vita come-sarebbe stata: mentre il protagonista”rievoca” una sua vita perduta o mai avuta, il racconto invece è evocativo. In questo passaggio, dal ricordo inventato alla memoria ricostruita oppure dal ricordo immaginario alla memoria riveduta e corretta, c’è la leggerezza del titolo, quella che rende possibile persino una trasognata epifania.
    E c’è la sfida, certo… E se fosse capitato a voi, come in un racconto?! Se volessimo che ci capitasse?!

    Un carissimo saluto a Marlene e a Natàlia

    Antonio

  13. ciao antonio
    perdona ma nn ho letto il tuo scritto quindi nn ti cercavo per complimentarmi come sarebbe ovvio facessi ma nonostante da tempo nn ci si senta conosci la stima e l’affetto che ci ha legati e potrebbe ancora legarci, ti potresti mettere in contatto con me a questa mail per favore, ho bisogno di chiederti una cosa
    carlo di maio
    p.s. saluti ed abbracci anche a tua moglie e naturalmente anche a te…

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