Breve saggio sugli orti botanici

Spesso questi “brevi saggi” nascono dalla fascinazione derivante da luoghi, oppure da letture o ancora da incontri ed esperienze personali. Questa volta si aggiunge l’idea che saggio e orto botanico possano essere la diversa manifestazione del medesimo concetto di base: un luogo conchiuso (ma non precluso) all’interno del quale si coltiva l’osservazione calma e commossa di un germogliare, di un dischiudersi al ciclo delle stagioni e di un percorso non necessariamente prestabilito, ma comunque ordinato e coerente e sempre foriero di scoperte o di sorprese.

L’orto botanico nasce (derivando dall’orto dei semplici dei monasteri medioevali) per motivi di studio, soprattutto in relazione alla pratica medica e terapeutica, per poi entrare a pieno titolo, spesso, quale elemento essenziale della Facoltà di Botanica delle Università. Esso segna il punto d’approdo a uno studio sistematico delle piante le quali, quindi, vengono isolate, classificate e studiate, ma senza dimenticare, in taluni casi, né il godimento estetico né eventuali simbologie – si pensi soltanto all’Orto botanico patavino, il più antico d’Europa, voluto dal governo della Serenissima e poi recintato per impedire i frequenti furti notturni: il risultato fu un muro di recinzione circolare, i cui quattro accessi vennero adornati con grandi vasi e il cui colmo con una balaustrata bianca; la pianta originaria (ancora conservata nella disposizione attuale) era quella di un quadrato suddiviso in quattro parti e inscritto in una circonferenza a simboleggiare e visualizzare un paradisiaco hortus conclusus (e παράδεισος è voce greca d’origine persiana che significa “luogo recintato”). Di fatto l’orto botanico è un luogo di studio e di bellezza, di contemplazione e di rigore scientifico, rispecchiando una civiltà che seppe non scindere le esigenze di carattere pratico da quelle di carattere estetico e simbolico – certo, l’ordine stesso (necessario) che innerva un orto botanico è già di per sé bellezza, ma nel caso di Padova si è aggiunta una cura specifica a che non solo la mente raziocinante, ma anche i sensi si riconoscano in un luogo di luminosa bellezza – senza dimenticare che proprio tramite l’orto patavino entrarono in Italia piante come la patata e il girasole, l’acacia e la magnolia.

E l’orto botanico ha pure l’intimità del grembo che genera, luogo protetto e fecondo che esprime il femminile, luogo di cura e di attenzione, di armonia e di vita.

Il saggio, a sua volta, creato per come lo conosciamo oggi da Michel de Montaigne, possiede questa volontà d’osservazione e di studio, le sue pagine potrebbero assomigliare, forse, alle diverse aree dell’orto botanico tra le quali si vaga (anche di-vaga) con la curiosità del neofita e lo sguardo profondo dello studioso, sforzandosi di procedere con il rigore dell’argomentazione e la gioia della scoperta o dell’osservazione inattesa, in ogni caso predisponendosi all’eventuale sorpresa.

L’orto botanico possiede un doppio status: è luogo di studio per gli specialisti ed è luogo di visita per chiunque ne abbia il desiderio – questo significa che la percezione e la comprensione di esso accadono a vari livelli, interdipendenti, ma anche distinti.

Prendiamo in considerazione la nomenclatura: c’è in essa il rigore della classificazione di Linneo e l’eleganza della lingua latina, compresa la sua capacità di esprimere nomi moderni e modernissimi che terminano, sorprendenti, con le sue antiche desinenze.

Oppure la suddivisione in zone climatiche: nei climi europei le piante tropicali e subtropicali sono il più delle volte ospitate in serre che, a loro volta, sono spesso capolavori d’ingegneria sia dal punto di vista architettonico che della climatizzazione interna.

O anche la fondazione degli orti botanici: a Palermo lo volle un’idea illuminista di studio e di conoscenza, a Uppsala Linneo stesso ne fu il primo fondatore e progettista, a Brera esso fu creato dal governo austriaco – ancora oggi vi si accede per un ingresso sobrio ed elegante che invoglia a esperire una Milano che anche altrove è giardini celati allo sguardo di chi transita per la strada, ma silenziosi e accoglienti per chi ha il privilegio di accedervi: ed è bello pensare che il Palazzo di Brera – Accademia, Biblioteca, Pinacoteca e Osservatorio astronomico – non ha soluzione di continuità con l’Orto botanico, ma vi si coltivano le arti e le scienze con uguale passione; Leonardo Sciascia, da parte sua, amava passeggiare nell’orto botanico di Palermo dove l’immensa ficus macrophylla, amata anche da Elvira Sellerio, ruba per sé l’interesse e l’attenzione dei visitatori.

È vero, si potrebbe definire quella presente in un orto botanico una “natura addomesticata” – il saggio cerca di avvicinare alla mente anche quello che sfugge o minaccia, il lontano e l’aperto, con la consapevolezza metodologica che, nella scrittura, si operano sempre forzature rispetto al mondo il quale rimane “altro”, che è sempre il “fuori” su cui la mente cerca di far presa senza riuscirvi: ché pertiene all’essere umano questo separarsi dal mondo proprio mentre, tramite l’alba del pensiero e il suo successivo dispiegarsi, egli prende coscienza del mondo stesso – l’animale è totalmente immerso nel mondo, l’essere umano, pur materiato di animalità, possiede la capacità di pensare e di pensarsi che lo obbliga a pervenire alla consapevolezza finale di tale separazione.

Il saggio è allora, come l’orto botanico, un rispecchiamento del mondo e un’allusione a esso, ne è rappresentazione tramite il linguaggio (il mondo viene verbalizzato nel saggio, catalogato nell’orto botanico) ed è attiva riflessione, intesa quest’ultima come rispecchiamento e come attività di pensiero.

Esistono poi gli erbari, capolavori classificatori, che hanno l’ambizione di conservare specimina di foglie e di fiori (le parti delle piante più soggette a rapido deterioramento, ma anche caratterizzanti i diversi esemplari) e che sposano il rigore classificatorio con la scrittura e la parola sui grandi fogli rilegati e offerti quindi allo studio, così che una sorta di biblioteca delle piante sempre si accompagna all’orto botanico inteso non solo come alternarsi di spazi all’aria aperta e di serre, in una corrispondenza e in una continuità che ribadisce il legame culturale tra uomo e ambiente. Oggi le tecniche digitali consentono, ovviamente, un modo diverso di archiviazione anche del sapere botanico, ma l’erbario diciamo così tradizionale ci conserva un legame con il passato e un modo (si pensi ai colori e agli odori di esso – e una riflessione andrebbe dedicata pure all’illustrazione botanica) di studio e di archiviazione che non interrompe il rapporto fisico-e-mentale diretto tra chi consulta l’erbario e il suo contenuto.

E come dimenticare i semenzai, espressione della fecondità cui accennavo in precedenza?

L’artista tedesca Christiane Löhr raccoglie nei boschi semi, gambi, rametti che compone in delicatissime sculture vegetali simili a pagode, isole, boschi in miniatura; oppure sospende i semi a sottilissimi aghi che sistema in bellissimi ideogrammi alla parete o, ancora, crea sacchetti colmi di semi, anch’essi sospesi poi alle pareti – è in tal modo che l’idea del semenzaio transita dall’informe del mucchio dei semi (pur raccolti, è vero, in scatole o in cassetti con tanto di etichette classificatrici) alla forma significante dell’arte.

E infine: aspetto attualissimo dei maggiori orti botanici è la costituzione di aree espressamente dedicate alla biodiversità che, si è infine compreso, va difesa e preservata. È, questa, una scelta pluralista che investe la conoscenza e l’economia (sono proprio le “leggi” del mercato a minacciare in modo grave la biodiversità).

Saggiando le cose del mondo ci si avvede dell’irrinunciabile necessità di conservare un atteggiamento pluralista della mente, avverso a qualunque tentazione di pensiero unico ed escludente.

Quando Michelangelo Pistoletto viene coinvolto in un intervento nel “Bosco di San Francesco” ad Assisi, traccia personalmente un solco ai cui lati fa piantumare un doppio filare di 160 ulivi che disegnano sul terreno il suo “Terzo Paradiso“, il simbolo inventato dall’artista derivandolo dal segno matematico d’infinito, per rappresentare un’auspicata era futura (che sarebbe già cominciata nel nostro oggi) nella quale l’uomo voglia e riesca a trovare l’armonia tra la propria naturalità e le proprie capacità tecnologiche: Pistoletto denuncia nelle sue opere e nei suoi scritti proprio gli atteggiamenti patriarcali e totalitari, maschilisti e violenti – e se l’orto patavino mostra ancora nella sua pianta, si diceva, il simbolo del paradiso, il Terzo Paradiso assisiate si apre in prospettiva futura e nel cerchio di questo breve saggio esso può stare a sigillo di un’altra riaffermazione della necessità di studiare, interrogare, avere cura.

6 pensieri riguardo “Breve saggio sugli orti botanici”

  1. non voglio mettermi in mostra, semplicemente l’argomento mi fa ricordare un brano composto circa una decina di anni fa, dopo una visita molto minuziosa all’orto botanico di Padova:

    all’orto botanico

    mi piace guardare
    morire, spuntare,
    e tempo dopo, rinata
    adoro imparare da te
    che ogni spina ha un nome
    e un posto dove stare,
    mentre la tua risata,
    divagazione di un attimo,
    attraversa l’aria d’eucalipti
    fino alla punta dei capelli
    della palma di Goethe,
    intatta come l’autunno.
    Adoro il disappunto breve
    sui lucchetti chiusi in serra,
    e andare via senza neanche
    sfiorare l’orchidea.
    La passiflora invece cresce
    e non ricorda quanto,
    solo passione che sfugge
    ai vetri e li infrange lenta,
    violenta, pensandosi già a casa,
    dal piano superiore al tetto,
    e nelle aiuole sfilate e antiche
    dove aspetto da un momento
    all’altro di rivedere Linneo,
    senza per altro
    incontrarlo mai.

  2. Il y a trente ans je commençais un long travail dans les Antilles, pas seulement francophones. Ce très judicieux essai d’Antonio Devicienti me remet en mémoire un élément fondamental de la culture populaire de ces îles et bien au delà ; élément qui a été déterminant dans l’élaboration de la notion de la langue-espace. Je travaillais essentiellement dans les pentes des volcans, régions très pauvres et rebelles, où est né Césaire, où le mythe du maronnage prospère (les touristes n’arrivent à voir que les plages…). Dans les pentes l’habitat est petit et pauvre, tôles et bois. Autour de la “case” les femmes délimitent un “jardin de case”. Apparence de végétation tropicale basse confuse. En fait tout est planté et entretenu pour des fonctions animistes précises et efficaces, thérapeutiques, rituelles, de fécondité, etc. Le langage utilisé est le créole, variant d’île en Île. La position des plantes par rapport aux murs et ouvertures de la case, par rapport aux points cardinaux et, bien sûr, l’Afrique perdue, fait partie de leurs sens et de leur fonction. Ce savoir très complexe est animiste, initiatique et, une fois dépassées des notions de base, est secret. En somme ces “jardins de case” sont d’extraordinaires livres, oui livres, de l’oralité de peuples déportés, syncrétiques, résistants.

    Yves Bergeret

  3. Caro Yves, tu apri un’altra pagina nella riflessione sugli orti botanici: si dovrebbe infatti discutere anche di un eventuale aspetto “colonialista” dell’orto botanico (basti pensare all’orto botanico dell’Università di Leida, in sé straordinario, ma che fu aperto anche per studiare e diffondere le piante provenienti dai territori sfruttati dagli Olandesi, o allo stesso “Jardin des Plantes” di Parigi che fu popolato di esemplari vegetali, ma anche animali, provenienti dall’Africa francese) – nello stesso tempo occorre storicizzare gli eventi, nel senso che possiamo fare questa riflessione oggi, quando la coscienza occidentale ha raggiunto la consapevolezza del passato razzista e colonialista dell’Europa; aggiungerei che quanto scrivi ci mette innanzi allo sguardo un modo altro di pensare l’orto botanico o il giardino, evidenziando una volta di più lo scarto che esiste tra il modo occidentale (razionalista e illuminista) quando si accosta alla natura e il modo delle culture creole antillane (ma non solo) che conservano una visione animista del mondo.

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