Dum fervent in memoria amores

MICHELE SOVENTE
(28 marzo 1948 – 25 marzo 2011)

sono andato tante volte
vicino a steccati di ruggine
masticando parole
e quelle finivano per avvolgermi
come un ragno
soprattutto al tramonto
quando la lingua
si fa crudele

 

Nato a Cappella, nei Campi Flegrei, nel 1948, docente all’Accademia di Belle arti di Napoli – dove ha insegnato Antropologia culturale finché le forze lo hanno retto prima della resa al male – Michele Sovente ha esordito nel 1978 con «L’uomo al naturale» (Vallecchi) cui sono seguite le raccolte «Contropar(ab)ola» (Vallecchi, 1981), «Per specula aenigmatis» (Garzanti, 1990), «Cumae» (Marsilio, 1998), «Carbones» (Garzanti, 2002), «Bradisismo» (Garzanti, 2008), «Superstiti» (San Marco dei Giustiniani, 2010). Numerosi i premi ottenuti: dal Viareggio al Morante fino al riconoscimento speciale del Premio Napoli nell’ottobre scorso.

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Testi

 

da: L’uomo al naturale, 1978

 

MORTE PER ACQUA

Forse pure l’acqua
– mentre te la senti sotto le dita
liscia sfuggente capziosa –
pure l’acqua scende con te
a patti e t’obbliga
a sporcarti per esistere: l’occulta
presenza di una larva
ha bisogno di te, dei tuoi malesseri
per stare d’appertutto, per
contagiare forme sane, per sgretolare
molecole d’aria-luce.
Pure l’acqua certo
vuole la tua morte. Morte
per acqua.

 

INGANNARMI

Sento lo sporco invadere la stanza
il tarlo penetrare i vestiti nuovi
divorare i libri
sento l’ombra scavalcare il muro
il ladro assediare i ben scarsi risparmi
sento l’uccello imbalsamato
spiccare il volo oltre il suo finto
nulla
l’acqua cadere goccia a goccia
sull’assetato pavimento
sento il tempo bruciare bracciate
di giornate
i giornali coinvolgermi nel brutale
piombo
sento le ginocchia venir meno
sento il dispositivo della paura
crescere camera blindata
sento la plastica paralizzarmi
sento il silenzio gelido parlarmi
sento la storia soggiogarmi
coi suoi scenari da lager
sento esplodere l’estate
nei suoi nudi allucinati
e insisto ad ingannarmi.

 

CI MANCA

Soprattutto lo spazio ci manca
la parola netta che spacchi
silenzi verticali.
Soprattutto l’aria ci manca
il silenzio che fratumi
parole orizzontali.
Soprattutto il sonno ci manca
la rabbia che faccia esplodere
pensieri sedentari.
Soprattutto il pianto ci manca
il coltello che sventri
fantasmi intestinali.
Soprattutto il tempo ci manca
la memoria che moltiplichi
sfondi irreali.

 

ALLUCINAZIONI VISIVE

Oggi di nuovo pare qualcosa
ci manchi, ci sia un buco nel pavimento
che cresce a vista d’occhio, si mettano in fuga
automaticamente spigoli di muro, orli
di tazze, profili di boccali.
Guardate bene là in fondo, controllate quella
sedia punto per punto, affondateci
le mani dentro, assicuratevi se c’è
per caso
un corpo mascherato dalla penombra un corpo
inerte, forse un fantoccio di plastica
impiccato dal silenzio.
Pare continui
oggi a volare da una finestra all’altra
dell’appartamento un globo d’aria, il becco
d’un airone imbalsamato, pare
le piastrelle del bagno si mettano in fuga,
diventi frana il buco dentro il pavimento.

 

CORPO SOCIALE

Nell’ineffabile buio delle chiese
si mimano rapporti, si sgretola
la geometria dei sensi quotidiani.
La storia è una metafora al cubo.
Fuori (r)esiste altra mimica
– più feroce, sottilmente mistica -:
l’agnello immolato sull’altare
scompare, il carnefice appare
lo squalo che – colpi di coda assassina –
taglia il mare delle fluide parvenze.
Io mimo tu mimi egli mima:
l’irreale mimiamo un corpo
sociale che non c’è.

 

FINCHÉ…

Finché il canto che ci esce dalla gola
non va molto lontano e il pane
che mangiamo in tutta fretta serve a tirare
avanti esistenze insoddisfatte, finché
ci si vede usare così meccanicamente
senza che il canto uscito dalla gola
affermi il nostro rifiuto, la nostra resistenza,
finché c’è chi ogni giorno nel tripudio
generale si squaglia nel modo più normale,
finché tu ti isoli in un punto e cerchi ragioni
assurde per non abbattere l’ingranaggio e
ti comporti solitamente come un oggetto
termosaldato, finché al chiuso di elettronici
alveari si programmano uominiprodotti
per il gran mercato del mondo, finché il canto
che ci esce dalla gola resta spettro d’aria
e non diventa urlo oggetto contundente
non diventa pugno…

 

***

 

da: CONTROPAR(ab)OLA,1981

 

LA PORTA

Notte lunga a passare
ci sono custodi di pietra
ai palazzi e catene
se passi di qui e fai
per guardare i plichi
i sigilli le acciughe
e ti salta in mente
di bussare a una porta
di chiedere al vecchio puparo
se fa ancora spettacolo
usa prudenza
abbi pazienza
non disturbare un’ombra
se c’è
trova la chiave per spalancare
la porta di questa notte
lunga a passare.

 

IN GIRO

In giro
in cerca del localino alternativo
di un’altra lezione di umanità
da portare a casa
come un incontro ravvicinato
di terzo tipo

palline rosse pulsanti su
un tavolo impazzito
dove si sgranano gli occhi
per afferrare al punto giusto
quel filo di tragico furore
quella faccia mimetica che urla
folgorata da chissà quale dio

increduli e turlupinati
con qualche capello in meno
lo steward che annuncia l’ultimo volo
assistiti maternamente
protocollati.

 

LA BIANCA PELLICOLA

Anche oggi c’è l’alta marea
volti che si riscaldano per niente
bruciano in tasca fuochi impossibili
si dicono cose mai dette
si tagliano come lamette
scendono anche oggi dai viali verso il mare
moscerini irritati dal vento.
Il punto più alto dell’orgasmo lo tocca
un gruppo di fanciulli che giocano
a chiudere l’acqua nelle mani
a farla evaporare
a dipingerci dentro bolle di saliva.

Fugge
anche oggi va oltre l’intonaco di quella
casa sola
l’urlo del gatto
la bianca pellicola che si disintegra.

 

LA MACCHINA ESATTA

L’evidenza del parlare dietro
il delitto meticolosamente preparato
o lì esatto inamovibile
(grumo di sangue, sagoma stecchita): da qui
parte la sfida contro l’ombelico
si sgrana il salmo delle colpe
t’odio e t’amo
ti mangio e mi fai schifo
nell’evidenza di una lama che taglia
il dubbio e la verità
è lì che si forma fino a esaurirsi è lì
che piange nuda la lingua senza osso
e senza nervi: so il trucco
e non la scena
so dove il figlio sgozza il padre
ma si dissolve la madre nel suo fantasma
e da qui parte il taglio verticale
l’abissale taglio ombelicale
la macchina esatta del parlare
a un passo dalla tortura.

 

IL MESTIERE DI CREDERE

Stanca solitudine passata di mano in mano
sillabato il pane quotidiano
sul mestiere dei piani repressi e delle
rivoluzioni impossibili
la foglia di tabacco sonnambula attraversa
le stanze chiuse
le malandrine giornate di sole

ai vostri lumi scalzo venni
beate primavere d’amore e follia
vi chiesi una tregua ai miei mali
al mio fuoco sprecato

orizzonti tagliati da oblique acque
stanca abitudine affidata di anno in anno
ai margini di libertà consumati
nell’incertezza dell’alba

forse il mestiere di credere
non fa più moneta?

 

***

 

da: Cumae, 1998

 

Sotto i piedi un vuoto…

Hanno infinite
insidie e vite queste
napoletane strade piazze alture
in cui lunatico mi perdo
estatico, dai rumori disfatto
da una vischiosavida
nube. Tanto piperno e tufo,
Gesù Nuovo Castel Sant’Elmo
Santa Chiara, colombo anch’io
le piume mie sdrucite muovo
a arpionare una briciola di pace.
Sprigionano le sacre mura
resistente tanfo di reliquie lungo
via Tribunali, San Biagio dei librai,
santi di gesso in vista, benedicenti
e no, campane di vetro,
avvolge il presepiale budello
di San Gregorio Armeno
un ronzio d’ali. M’insegue
una folla d’insegne fondachi tabernacoli,
dilaga sotto i piedi un vuoto:
un’altra, non meno
voluttuosa, città – anse e
cunicoli – con greche
e romane nervature. Vetrose
scaglie, epigrafi cieche, poi
di sabbia e fumo una spirale. “Di noi
ricordati, se puoi… “, da un nero
foro preme un coro
di chissà quale regno. Alfine
intravedo il mare.

 

Acqua mediterranea

Chiedo quiete all’acqua
lacustre e marina, mi seducono
i laghi, mi stordiscono
i mari: rami d’ombra sotto
il tufo, spire infinite di luce
oltre la costa. Non ha sosta
il correre mio sulla sabbia
in cerca di un fossile, di un
volto, proprio sotto le scarpe, ecco

impronte si sfaldano nomi. Tutto
ciò che non ho, tutto
ciò che non so, l’abero e il frutto,
contiene l’acqua in sé
che sempre più circonda
la torre, la casa. Acqua, mia
acqua antica e contemporanea, sii
tu il punto fermo, la via
che porta al miscuglio di lingue,
acqua mediterranea.

 

Pare

Pare larga, dai contorni sfrangiati,
lunga e ottusa e sciabordante pare
la spiaggia, ai margini dell’occhio,
cieca la sabbia e stralunata pare;
stordite acrobazie lungo la
ruota del caso che s’inceppa e
fa vittime squisite. Inaccessibile
la pista delle infinite lune
e intatta, in fondo, pare, è lì
che silenzioso appare il desiderio:
e il raggio della ruota, ora che
tutto vertiginoso pare, mi
assale ben centrale.

 

***

 

da: Carbones, 2002

 

Bella fuga

Bella fuga di rampicanti e profili
di donne sul lungomare in una scia
ondosa di vapori e sale.

Innamorati sguardi volavano sottili
racconti per viali e sale
che portavano a un’allegra trattoria.

Bella la gente bella la maestà
di un’agave senza età.

 

Sparto

Sparto ógne ghiuórno ‘u ppane
e ‘a fantasia, ‘u ppane
r’ ‘u sbariò senza tiémpo
attuórno a macchie ‘i mure, macchie
janche e scure, rint’a nu fujafuja
’i móscole, ‘i palómme. Sparto
’i nùmmere, ‘i carte, ce vò
n’at’anno, n’ata vita pe’ capì
quanno furnésce ‘u zero,
addó accummènza ‘u blù.

 

Divido

Divido ogni giorno il pane
e la fantasia, il pane
del vaneggiare atemporale
intorno a macchie sui muri, macchie
bianche e nere, in un viavai
di mosche, di farfalle. Divido
le cifre, le carte, ci vuole
un altro anno, un’altra vita per capire
quando muore lo zero,
dove attecchisce il blu.

 

Dìvido

Cotidie divido panem
et phantasmata, panem
sine die fingendi, circum
parietum maculas, in sempiterna
muscarum fuga papili onumque.
Numeros cotidie ego divido
et chartas, alius oportet
annus, alia vita ad intelligendum
quando vanescat nihilum,
ubinam caelum surgat.

 

Carbones

Silenter ardent carbones
in vastite autumnalibus
vel hiemalibus fluctibus
anxietatis et strident
vagae alae vagantes trans
fenestras dum fervent
in memoria amores quos
pungit silentium et fugiunt
carbones de carcere ad
alias facies vel figuras.

 

Gravùne

Jàrdeno chiano ‘i ggravùne
quanno ll’autunno o ll’imberno
spanne ll’ónne ‘i na pena
e scille sìscano a luóngo
p’ ‘i ssénghe r’ ‘i ffinèste
tramènte ca jarde ll’ammore
ra n’arriccuórdo a n’ato
e r’ ‘u carcere p’ ‘u munno
a cercò ati cristiane, ati
fùjeno ‘i ggravùne.

 

          Carboni

          Ardono in silenzio i carboni
          nei vasti flutti dell’ansia
          d’autunno e d’inverno
          e vaghe ali randage stridono
          fra le finestre mentre
          fervono nella memoria gli amori
          che il silenzio trafigge
          e dal carcere fuggono verso
          altre facce o figure
          crepitando i carboni.

 

Qui venivano…

Qui venivano variopinte carovane
di turisti sgranando
su ogni frammento di paesaggio
le estatiche pupille ininterrottamente
cinguettando. Case
teneramente dalla luce toccate,
festosi pergolati. “Qui
sarai felice, qui troverai quello
che da sempre cerchi, il nesso
fra la terra e il mare”, mormoravano
foglie ombre polene a chi,
spinto dal favonio, venne qui.

 

***

 

bocca e occhi

bocca e occhi legati
a sudari gualciti
percorro stradine fuori mano
ascoltando insetti che fuggono
rapaci bestiole
tra crepacci e vitigni
resto fermo
poi riprendo a diffondere
la mia ombra inquieta

sono andato tante volte
vicino a steccati di ruggine
masticando parole
e quelle finivano per avvolgermi
come un ragno
soprattutto al tramonto
quando la lingua
si fa crudele

i piedi dopo tanto camminare
mi fanno male
c’è anche il fatto che il sangue
con gli anni ha strane impennate

e sul divano mi distendo
ricordando i nomi
mettendo in fila date
poi bocca e occhi viaggiano
come astri e maree

(inedito)

 

____________________________
Altri testi di Michele Sovente sul sito di Chiara De Luca.

Qui un importante saggio di Giancarlo Alfano che ci dà una lettura dell’intera opera di Michele Sovente.

Qui un contributo Sulla poesia di Michele Sovente, a cura di Gianna De Filippis e Salvatore Argenziano.
____________________________

 

***

12 pensieri riguardo “Dum fervent in memoria amores”

  1. Dallo zolfo allo zolfo, ciao Sovente

    Nun ce abbasta

    Me tenebrae tenent tenaciter
    Me fotte ‘a notte, me gnotte,
    sitis est mihi taverna
    ‘a sete me governa, ‘a famma
    me tene comm’a na mamma,
    famesque unum meum coelum,
    fremunt folia, stridet
    sub lucem cupido – telum, sbatteno
    ‘i ffoglie attorno quanno
    stò p’ascì ù sole sghizzano ‘i voglie,
    per tabulas pulvis decurrit
    hiemalis – hoc est ludibrium
    vitae nec potest vitari -, ‘ncoppa
    ‘i ttavule ‘i ponte se scapezza
    vierno ‘c’’a póvere attizza- stò ccò
    ‘u scuorno r’’a vita ma niente ce può fó-,
    ll’ossa meje se ‘mporpano r’’a lutamma
    ‘i ll’imberno tu nun si’ pe’ me
    ll’urdemo scoglio-, vertebrae
    meae limum Averni mordent, tui non est
    mihi amor ultima salus, ammagare
    putesse ‘u mare scagliò
    ‘i nomme nuoste annure, utinam
    nomina nostra pondus nuda destrueret,
    hoc est, è chisto ‘u meglio cadó
    ca ce fò ‘a morte, hoc est
    fastigium mortis neque nobis
    prodest, ma nun ce abbasta,
    ‘i stelle mó mó accumparute forze
    num nova sidera omnespresenza
    ponno forze stutò sti ‘mbruoglie?
    num nova siderea omnes
    dolos delent?

  2. L’ydioma tripharium di Sovente resta la lezione più storicamente italiana della poesia dell’ultimo trentennio. Perfino
    Le radìs zhinbre del Bosch del Canséi
    le bef la so vena Mediteranea.
    [Le radici cimbre del Bosco del Cansiglio/ bevono la sua vena Mediterranea]

  3. Non conoscevo – sarò sincera – questo poeta, che per me è stato una rivelazione. Rivelazione amara, sapere che ieri è mancato…la poesia sembra nascere davvero quando l’autore muore. Ciò fa pensare. sono andato tante volte
    vicino a steccati di ruggine
    masticando parole
    e quelle finivano per avvolgermi
    come un ragno
    soprattutto al tramonto
    quando la lingua
    si fa crudele

    Una scrittura dai piedi nervosi, mediterranea nel senso montaliano di essere “scabra ed essenziale/ come i ciottoli che tu volvi”, scriveva Montale. Per nulla meditarranea nei colori, nelle atmosfere, che sono tutto fuorchè lussurreggianti, solari. Una poesia di annegamenti e disagio strozzato, di critica sociale trasferita senza residui in inquietudine, e dall’inquietudine in par(ab)ole. E il trilinguismo, forse, è un radicamento alle origini latine della napoletanità. Ringrazio moltissimo Marotta per questo incontro. ale.

  4. Grazie a voi. A Viola per il testo, oltremodo significativo; a Pier Franco per lo splendido distico – che non ha bisogno di nessun commento; ad Alessandra – alla quale consiglio la lettura di “Carbones”: l’incontro con uno degli autentici “grandi” poeti contemporanei.

    A Michele, per sempre – nell’abbraccio della memoria ferita, con tutti gli “amores” che contiene e che serberà per sempre.

    fm

  5. Purtroppo è la sua scomparsa che ci dà lo stimolo per conoscere meglio un poeta. Così è accaduto a me. Lo conoscevo troppo poco, ora un po’ di più. E mi sento quasi colpevole di averlo letto prima solo superficialmente. Ho davanti l’eternità per rimediare…
    Grazie,Francesco, mi unisco al lutto dell’amico.
    lucetta

  6. sarebbe l’ora che i poeti imparassero a leggere e diffondere i poeti quando sono ancora in vita, e non a stracciarsi le vesti quando muoiono.

  7. Tardivamente , per tanti di noi , eppure penso che nulla va sprecato . Quello che ci dice Michele va oltre i suoni i colori il gesto poetico . Perimetra e rinsalda la convinzione nella necessità della poesia non come strumento di incantesimo , ma di civiltà .

  8. concordo e dissento: non è questione di stracciarsi le vesti; soprattutto in questo luogo dove per fortuna si ‘ricorda’ come storia e non memoria (sempre, ahinoi!, soggettiva e parziale), ma altrettanto si mantiene (nei limiti dell’impossibile possibile) nel vivo della poesia anche: il poeta.
    mi associo al ricordo.

    un abbraccio

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