Sequenze per cunei e cilindri

Enzo Campi

“solo con la parvenza di sé
non una sola volta
si dà e resta ad osservare
lo scarto il dolo che cresce
nel volo abortito nelle ceneri
mescolate alla polvere”

Sequenze per cunei e cilindri

(inediti 2012)

 

decede dal
forcipe
ritraendosi di
netto al
contatto con
ciò che vorrebbe
estirparlo dal
trionfo dell’
amnio dal
tiepido brodo in
cui marinava da
sempre e sempre
cullava il
ricordo di non
essere mai
stato evirato né
traslato dal
chiuso all’
aperto dal
cauto all’
incauto e
ancora resiste
tronfio al
gesto di
sempre per
sempre tradotto e
tradito da
lingua a
lingua nell’
inusitato dispendio
che ci attende
oltre il
trauma della
separazione

 

*

 

non crede nell’
altezza di un
qualsiasi cuneo se
bene esibito
come segno
distintivo caso
mai decede dall’
immeritato podio
arranca si
trascina a
stento e cede l’
onore del
plauso all’
ameno dado
che sempre si
arresta sull’
uno sull’
indivisa risibile
unità di
senso che
priva del
vigore il
costrutto
e l’
incedere del neo
nato di
turno è
solo l’
innocuo cilindro
che rotola senza
colpo ferire

 

*

 

solo
con la
parvenza di sé
non una sola
volta si
dà e resta ad
osservare lo
scarto il
dolo che
cresce nel
volo abortito nelle
ceneri mescolate alla
polvere nell’
alone che
persiste alla
rimozione dello
specchio nell’
anemica rinnovata
parvenza del
senza del
colpo mancato più
volte sulla
scorta di un
silenzio che
cresce e
invade lo
spazio

 

*

 

il suo
silenzio il
nostro nel
suo se pure
ascoltato de-
cifrato in puri
algoritmi di
sequenze inevase d’
umbratili candori al-
locati dislocati da
padiglione a
padiglione come
trainati sull’
onda dell’
ineluttabile sul
gentile e tanto
onesta pare la
frequenza nel
porsi a
confronto e
scambiarsi la
confusione tra il
dato e il
ricevuto

 

*

 

v’è traccia di
nulla o
sentore di
fuoco consumato di
fresco da
poco nel
poco che
detta il
suo dogma
declinando uno ad
uno i
singoli punti
destinati a
vivere morire
come tali
e quali altri
innumeri dobbiamo
ancora evocare
su quest’
instabile superficie
privata di
linee sulle
quali condursi?

 

*

 

un
ospite in
me il dono
reciproco dissero ma
la storia
è altra e
diversa vive o
sopravvive nel
nero affiancando
pezzo a
pezzo codice a
codice tutti gli
scarti che
definiscono l’
alterco l’
idea di una
guerra tra la
penetrazione
e ciò che vorrebbe
solo rotolare
indicare la
strada poco
battuta o
frust(r)ata da
sempre un
ospite allocato nel
fondo un
danno reciproco
recitai a labbra
socchiuse ma
la storia si
ripete anche
adesso che il
nero si
confonde nella
scala di grigi

 

*

 

è solo
rancido il
cibo di
tutti esposto per
tutti il sapido
umore del
sangue che
imperla il
pezzo di
carne messo a
riposo sull’
altare di
turno e l’
occhio rivede nel
solco la storia di
tutti il
sadico destino che
incombe la
mera aporia del
cogito ergo non
sarò mai
altro che
questo o
quello deposto
tra un libro
consunto e un
sasso di
fiume alla
stregua di un
giocattolo
passato di
moda e
abbandonato nel
sacco dell’
indifferenziato

 

*

 

si cala
deciso nell’
impasse del
nulla di fatto e
rinnova il
contratto con la
firma simpatica di
chi continua a
sbagliare e non
decede dalla sacro-
santa posizione
raggiunta a fatica
schivando sassi
e coltelli se
pure la foto
abbarbicata alla
lapide sia
votata da
sempre a
sfocare il
supposto profilo e
la sopravvenuta
assenza dello
sguardo

 

***

23 pensieri riguardo “Sequenze per cunei e cilindri”

  1. Opera al nero, mi verrebbe da dire
    versi frammentati così unici nel loro stile
    quell’apostrofo e a capo
    sembra di sentire il timbro
    scandito della voce
    una voce che penetra l’aria…
    inconfondibile come quella di Enzo.

    La storia si ripete
    nel suo tragico destino
    nel suo silenzio umbratile
    che porta con se la solitudine dell’uomo.

    Ottima scelta l’opera di Elio!

    Un caro saluto
    c.

  2. quest’ora di adesso la noia in pegno
    d’un tempo falsamente smisurato
    tu in cambio istanti qualche volta pietà
    ma mai alla pari
    occupi la parte più ricca dei pensieri
    e del presente qui io te
    sono straniero
    se il tempo passa veloce o lumaca
    senza ricordarmi di te
    allora sei lampo
    mentre quando ti ricordo sembri
    non finire mai come un muro invisibile
    d’aria cui i miei pugni vanno a vuoto
    ti divido lieve come un breve bacio
    abbraccia le voci senza condurre
    le lancette invano nel buio
    angelo pini

  3. Pini, questo è il colonnino dei commenti – nel quale puoi intervenire quando e come vuoi, anche scrivendo peste e corna dei testi o degli articoli che leggi: usarlo, come fai tu, per lasciare tracce della tua produzione poetica è, se permetti, quanto meno scorretto.
    Quindi, sic stantibus rebus, fai la cortesia di astenerti oppure ti adegui alle regole della più elementare netiquette.

    fm

  4. inquietante quando il nero (inchiostro) si nasconde nel sottoscala dei grigi, pronunciando un sacco di parole indifferenziate. ciò che il codice non dice, è lo scarto tra il dato sperimentale e il ricevuto (l’alone che persiste nell’insieme – ossimoro bilingue – di lemmi e algoritmi cifrati: la traccia del nulla, insomma, ancora fresca).
    : )
    ed ecco, dunque, che la storia si ripete: tutte le volte che ti leggo resto lì come un “allocato”, o meglio, come un sumero di fronte alla scrittura cuneiforme…
    bacioni e compliments.

    1. ciao malos. è sempre un piacere incrociarti in rete, anche se accade solo una volta all’anno o giù di lì.
      una delle ipotesi “al lavoro” potrebbe risiedere (senza una carta d’identità specifica) proprio nel “solo una volta”, o meglio: nella “ripetizione (in)differenziata (non esiste un contenitore appropriato che possa contenere e “risolvere” lo scarto dell’ umano-troppo-umano) dello stesso gesto che – prima inconsciamente poi magari volutamente- è insieme trascendentale e sacrificale. del resto si procede (anche senza muoversi) sempre e comunque per debiti e lasciti, ovvero per cunei che hanno già compiuto la loro opera d’intacco e per cilindri che si lasciano rotolare senza una destinazione che sia univoca e/o prefissata. non credo che esista un punto d’arrivo dove tutto coincide, si amalgama, dove tutto possa essere spiegato e compreso. anzi credo che, in realtà non ci sia bisogno di un punto d’arrivo. molto semplicemente perché qui i punti non sono destinati al compimento di una o più linee, e le linee -affiancandosi al loro destino o meglio: consegnandosi all’ “avvento” dell’interruzione- a loro volta non formano una superficie.

      però: “dal cuneo al cuneiforme” potrebbe essere un’ulteriore traccia su cui lavorare…

  5. L’eco del trauma della nascita si associa, in questi versi, all’imbarazzo verso la storia, certamente madre non esemplare! Il “neo / nato”, come recita il testo, gode di una sua unicità, anche linguistica, sia che lo interpretiamo come metafora esistenziale dell’uomo e sia qualora associamo il parto strettamente alla creatività, cioè alla poesia. Il nascituro è inoltre organicamente solo e simile al “pezzo di / carne messo a / riposo sull’ / altare di / turno…”. La sua rimane, ad onta delle minacce rappresentate dalla storia e dall’esistenza, un’esperienza creativa e fondante sui generis che va “…oltre il trauma della separazione”, autentica ferita comunque da non banalizzare. La solitudine dell’uno si unisce poi alla demistificazione del vecchio “cogito ergo sum” cartesiano che il poeta ribalta in ” non / sarò mai / altro che / questo…”. Riassumendo il poeta sembra suggerire che ogni finta composizione di comodo del dissidio tra uomo e storia (e con se stessi), debba essere respinta come sostanzialmente superficiale. Meglio un tuffo nel liquido amniotico e semantico del parto-scrittura che taglia il cordone ombelicale del razionalismo ottimistico e, con precisione chirurgica, libera la “neo nata” poesia dall’oscurità e dal sangue che pure l’accompagnano al suo esordio genetico.
    La forma si contraddistingue per l’adozione di versi assai brevi, senza punteggiatura a separare, ma con un’ evoluzione / germinazione lunga della strofa che appare spesso in crescendo svilupparsi dal seme di una parola singola. L’effetto è di suspence e di riflessione ad un tempo. Si tratta di una scrittura di continua ricerca, più che meramente sperimentale, sempre agganciante e mai troppo criptica da interrompere il contatto tra poeta e lettore. Chi legge, infatti, si sente provocato e abbandona il superfluo per la nudità del fondamento, si lascia condurre dall’autore lungo un percorso volto alla riscoperta di se stessi.
    Vivi complimenti dunque Enzo! Un plauso a Francesco infine sempre in ascolto della vera poesia per questi versi così originali (e originari). Marzia Alunni

    1. il cuneo rappresenta l’effrazione (il ricevuto). il cilindro rappresenta il “lasciarsi andare e trasportare” (il dato). una semplificazione, certo ma, per certi versi, qui si procede per “riduzioni”, per interruzioni, cadute e prosciugamenti.
      non a caso sono le stesse parole che talvolta si spezzettano nelle loro possibili accezioni altre e che cadono in un anomalo “a capo”.
      è un po’ anche il discorso appena accennato prima: una linea che ancor prima di arrivare al suo compimento si spezza e cade non può formare una superficie.

      naturalmente gli aspetti sono diversi e svariati. il cuneo è l’unico punto fermo perché è dotato di una punta acuminata ed opera attraverso essa. il cilindro è cavo al suo interno.
      si potrebbe tentare anche un’altra motivazione identificando il cuneo nel pene (come penetrazione, in un certo senso, originaria, come il gesto “primo” che precede e fomenta il gesto “secondo”) e il cilindro nella vagina, o meglio ancora nel ventre che attraverso quell’intacco ricevuto mette al lavoro la ridefinizione del suo cavo, ovvero quello che diverrà il dato di fatto (ma non è questo il solo aspetto determinante).
      è un po’ quella che tu stessa indicavi, poco tempo fa, come strada critica da battere: la differenza tra iaceo (io sono gettato) e iacio (io getto). al di là del fatto che in letteratura tutto verte sulla compresenza di gettate e (sog)giacenze, il cilindro attraverso l’azione del cuneo viene gettato al suo interno, viene costretto a ridefinire e riconfigurae il suo cavo. e solo dopo un periodo di gestazione (assorbimento, consolidamento, ma anche devastazione) può concedersi il lusso di gettare o comunque può tentare di farlo (il forcipe che inaugura il post rappresenta l’ennesimo atto di violenza – e qui si inaugurano anche altre strade mettendo sullo stesso livello lo iaceo (l’essere gettato) e l’estrazione forzata).

      è un lavoro sulla nascita intesa come “separazione” violenta e cruenta. ciò che viene gettato è, a tutti gli effetti, il “separato”. questo “separato”, parafrasando e traumatizzando Artaud, attraverso l’espulsione, passa da uno stato all’altro, diviene il “rivelato”, o meglio ancora rivela la sua separazione, che è condizione primaria e significante. non a caso, anche volendolo, non potrà esimersi dal produrre, a sua volta, tutta una serie di gesti violenti che sono radicati nel suo cavo, in quel cilindro che è insieme peso e pensiero, peso del pensiero e pensiero del peso. in un certo senso onere e onore, perché poi c’è da fare i conti con la consapevolezza che tutto il “transito” (la moltiplicazione dei passaggi da stato a stato, la serie delle gettate date e ricevute, ecc) non porti altro che all’infinita disseminazione di un qualcosa che non può esaurirsi, di un qualcosa che comunque è destinato a riconfigurarsi in altri cavi, in altre serie di cunei e cilindri.
      questo concetto, una volta radicato, potrebbe anche portare ad una sorta di godimento, perché poi alla fine, come diceva Artaud. “non si tratta più di rendere, ma di portare via”.

      1. nel
        nome che non
        hai scelto nel
        segno che ti
        segue e ti
        distingue nel
        pegno che hai
        pagato all’
        inizio della
        saga al
        primo colpo
        sparato a
        salve sì sono
        io lo dicono
        tutti ma
        perché la
        firma non si
        riconosce nel
        calco nello
        stampo che
        restituisce l’
        angusto
        profilo nel
        contorno che
        delinea il
        vuoto il
        pieno la
        presenza del
        colpo l’
        assenza del
        corpo? e lo
        spessore dov’
        è? in quale
        punto del
        percorso si
        è dichiarato
        perdente? in
        quale linea
        interrotta ha
        smarrito la
        perdita?

  6. la nascita è sempre complessa a ripensarla, la nascita di ognuna e ognuno di noi così come quella della parola che non vorrebbe abbandonare il labbro. Così quell’antico malessere di abbandono, quel taglio inaudito che traghetta l’esordio dell’esistenza ha da faticare molto se la disposizione è quella del ricreare quel drama irripetibile. Proprio perché in quel preciso istante c’è crudeltà dell’evento, di uno strappo indigesto e innaturale che ci getta a precipizio in una solitudine non richiesta. Una solitudine che è quel “cogito ergo non sarò mai” giacché ci si perde ancor prima di riflettersi. Così le frequenze sono quel dettato primigenio della poesia che, se saputa afferrare in tutta la sua potenza rigeneratrice, ci parla in lingua materna; il metodo è il medesimo: la lingua della poesia è quella infatti di chi ci ha donati. In questo senso non si può vagare a mani vuote, c’è pienezza invece – nella mancanza e nella riscoperta. La separazione in questo senso è una promessa mancata ma, al contempo, tenace risorsa per cominciare l’ordito nostro – singolare – in cui tutte le propaggini cominciano – per apoptosi – a vedersi e a reclinarsi fuori dall’uno. Lo scempio di fondo è scambiare il contatto con lo specchio; esiste prima il fondo e poi lo specchio, il dramma (questo sì privato dell’etimologia sanguinante che lo precede) ora incalza perché si scambia l’attaccamento dell’origine con un’immagine invertita di noi. Anzi: doppiamente invertita considerato che già l’occhio è ribaltamento delle cose così come sono. Il corpo bambino qui è un saldo pegno della carne futura, carne del mondo che si ribella al sacrificio e che preferisce il concavo al cuneiforme. Carne però che dopo essere stata messa al mondo decreta di generare essa stessa e di procedere verso il diametro sghembo del tramandamento del nome, proprio perché la storia si ripete – non conosce altre strade. E siamo tutti ospiti seppure perturbanti e votati alla dimenticanza. C’è piuttosto un’altra ospitalità che rimembra: la parola poetica ché appunto non ricorda nulla ma ricuce, pazientemente, quel che è sempre stato lì. Così queste sequenze per cunei e cilindri io le vedo come un lungo e dolente ritratto della differenza, tra espulsione e conquista del sé fortemente connotata dal passaggio di chi ha già intravisto il suo destino nel doppio volto della veglia e del sonno definitivo. C’è da augurare al dolente soggetto della poesia, che non sempre coincide con l’autore (ma io nell’augurio mi rivolgo anche ad Enzo) di continuare a schivare sassi e coltelli; del resto, il riconoscimento che preme è quello della parola che, con desiderio, transita nelle nostre dimore, ed è proprio in quella decisione della parola poetica che intravvediamo la possibilità di aggirare la solitudine, di riappropriarci di una nuova figliolanza.
    Grazie ad Enzo Campi e a Francesco Marotta.
    Un abbraccio,
    Alessandra*

    1. si parte sempre da una “separazione”. “l’ordito nostro” e qui rappresentato anche dalla letteratura stessa che per l’appunto si “reclina”, si piega, si spezza, cerca l’ “interruzione” e, in un certo senso, il “disastro”; la prossimità tra peso e pensiero è comunque una declinazione del disastro. per dirlo in maniera più appropriata: il disastro (o la finzione del disastro, la sua messa in scena) è il tramite per il gesto letterario.

      ricordiamo anche Blanchot: ” Nella misura in cui il disastro è pensiero, non è pensiero disastroso, è pensiero del fuori. Non Abbiamo accesso al fuori, ma il fuori ci ha già sempre dato alla testa, dal momento che è ciò che precipita. Il disastro, ciò che si distende, la distensione priva della costrizione di una distruzione, il disastro ritorna, è come se fosse sempre il disastro dopo il disastro, ritorno silenzioso, e che non devasta, in cui si dissimula. La dissimulazione, effetto del disastro”

      questo lavoro cerca il disastro come motivazione e significanza del suo essere-qui, del suo condursi-là, là dove tutto si ripropone, dove tutto rinviene da ciò che è già stato, da un gesto da sempre compiuto e per sempre ripetuto.
      si procede sempre per cadute, talvolta imposte, talvolta masochisticamente cercate e volute.

      e quindi, amplificando Blanchot, la dissimulazione è effetto del disastro, ma il disastro è ciò che fomenta la dissimulazione.

      1. un ulteriore elemento:

        un
        solo schiaffo
        immediatamente
        seguito dal
        pianto dal
        suono in-
        articolato
        straziante ma
        cominciamo bene
        pensò e lo
        disse tra un
        acuto e l’
        altro e non
        fu compreso
        perché la
        lingua
        appresa nell’
        amnio era
        altra e diversa più
        pregna più
        degna ecco fu
        così che valutò il
        primo scarto l’
        inevitabile
        caduta del
        senso nel
        rumore di
        fondo che a
        tutti piace ma
        che nessuno
        frequenta ecco
        un
        solo schiaffo in
        mancanza di
        riso ma allora
        perché rido della
        mancanza di
        riso?

  7. Ho appreso con grande interesse molto dai vostri commenti. Una suggestione in in certo senso apocrifa mi rimane, qusi una specie di placenta da espellere o demone da esorcizzare nell’atto di leggere e/o facilitare questo “parto”. Cunei e cilindri mi ricordano il sogno dell’uomo di modificare il proprio corpo attraverso innesti tecnologici. Ogni aberrazione futuribile è proprio un tentativo di rinnovare il trauma della nascita, dunque una sorta di drammatizzazione che ha per soggetto, palcoscenico e attore principale il corpo. La “cosalità” meccanica, che nei versi mimano proprio cunei e cilindri, è forse l’espressione di quel disastro cui alludevi Enzo, eppure essa rappresenta paradossalmente anche la strada per uscire (Hegel direbbe dileguarsi) dall’impasse. Ho notato un senso di maggiore cupezza: ‘iaceo’ e ‘iacio’ delimitano tutto l’esistere e il suo contrario, sono dunque luce oscura, se l’ossimoro è ammissibile, che complica mentre risolve gli splendidi enigmi. Marzia Alunni

  8. nessun paradosso Marzia, almeno per quel che mi riguarda. l’esperienza non può che viaggiare (e interrompersi) sulle linee dell’estromissione (il dileguarsi di cui accennavi), vuoi solo perché restituisce o, se preferisci, drammatizza una “cosa” di cui non abbiamo ricordo e in cui siamo stati “trattati”. la prima estromissione è quella in cui siamo venuti al mondo, la separazione primaria; e la seconda è quella in cui si prendono le distanze da essa per poterla esporre o per restituirne un’idea. il “disastro” non va identificato necessariamente nel trauma, assume anzi un ruolo salvifico perché quello che qui conta è “la scrittura del disastro” che, a sua volta, si estromette dal disastro proprio declinandolo.

  9. corpo caldo d’ assoluta non forma (l’ Altro di cui siamo incostanti inseguitori? recede dall’ essere nato e quindi morto. sottrazione dall’ inaccaduto volontario. aborto che si incarna in se stesso e si spossessa del suo spazio umano. non fugge non cade non si trascina rimane interno senza progredire o forse meglio regredire a nato senza libero arbitrio. in questi versi c’è la sensazione di totale fuori campo della parola la parola si disinquadra completamente segue una forma amniotica quasi viralmente viscerale.la parola è carne che si scrive all’ infinito retrocedendosi differendosi nell’ altrove insaputo previa attesa di una certa sparizione di tutti i riti inculcati dall’ esterno per diventare ‘umano’ umano(?) si pone la domanda cosa sia se esiste l’ umano.
    in alcuni passi c’è la durata vegetale la sua percezione il suo abbandono in altri la durata e la forza bestiale e di suggestiva violenza limbica che funge da differenziale evolutiva fra animale e uomo. sono testi di riaccumulazione e contemporanea evacuazione in ‘culla’ di se stessi invasi di anelli gridati da ere passate. c’è apocalissi trasversale c’è l’ unità indipendente e mai riflettente e proiettiva inferibile. sono strutture calde e gelide su cui gli strumenti di spacco e mola non possono intervenire essi stessi creati e disciolti fu essi materia ma solo per chi è già morto. una scrittura carnivora come una vergine. una scrittura in cui l’ autore nasce e decide di non nascere semprevergine. apprezzati a mio sentire e intrigante la scelta dell’ opera di Elio la cui immagine pare come decisa a ritirarsi o rinvenarsi riuterarsi ritornarsi.secondo codici su cui gli occhi umani non possono posarsi se non ‘ rinati’ riuniti’ ritornati.
    un saluto a tutti.
    paola

  10. grazie Francesco. caro saluto.
    Enzo: comprendo benissimo so che sei attento. grazie per la risposta.
    un saluto a te.
    paola

  11. leggo, senza avere letto, la poesia ci consente un’approccio immediato, che colpisce i sensi solitamente annebbiati dalla lettura. per questo utilizza come nessun’altra scrittura l’andare a capo. mi piace. piace al mio occhio, curioso, piace al mio senso, desideroso di pace.

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