Estensioni del tempo

Martina Campi

Della dilatazione
e della frattura

Prima ancora di parlare del tempo e dello spazio, di estensioni e fratture, bisogna almeno accennare alla casualità e alla fatalità. Casualità, fatalità, estensioni, fratture sono tutte nominazioni di azioni, «allo stesso tempo», compiute e incompiute, evase e inevase. Tutte queste azioni – che, beninteso, producono spazialità – possono essere ri-nominate con nomi diversi, magari  con sinonimi e contrari, con nomi-altri che possano creare un rinvio ad accezioni-altre e che possano far scendere in campo la complessità e la molteplicità non solo dell’io-pensante, ma anche del «tempo» che inquadra (incornicia, delimita) – anche storicamente, se vogliamo – i suoi parti artistici.

Ma quell’io-pensante è anche un io-agente che muove i suoi passi e compie i suoi gesti in uno «spazio», allo stesso modo incorniciato e delimitato. Il caso è, letteralmente e etimologicamente, ciò che cade. Può essere inteso anche come un accidente che può condizionare l’avvenire (e quindi una delle tre partizioni del tempo) o che comunque fomenta una reazione. Il fato, invece, è ciò che viene posto, là, in quel luogo specifico, in quel determinato spazio, per far sì che le cose vadano in un certo modo piuttosto che un altro. Senza soffermarci su ciò che viene posto e sulla «posizione», ovvero sulla precisa e voluta dislocazione delle singole parole sulle pagine che compongono quest’opera, senza soffermarci sulla «caduta», sul flusso a caduta, ma spaziato e intervallato, che rende perfettamente il senso dell’estensione, dobbiamo dire che ciò che avviene per caso ha comunque bisogno di una determinata scansione temporale in cui manifestarsi e di uno spazio in cui, per così dire, dettare le sue regole. Per questo vorrei accennare alla situazione di casualità in cui un critico si trovi a parlare di un’autrice che porta il suo stesso cognome pur non essendoci nessun legame di parentela, di come questo critico si trovi ad innestare il suo proprio tempo in un tempo-altro, di come tenti di creare una spazialità in un’opera che è già spaziata-in-sé, di come sia, in definitiva, inutile nominare, in modo preciso e categorico, cose e persone, di come questo operare – indotto dal caso – rientri, forse, nella sfera della fatalità, in un’inevitabilità che corre a braccetto proprio col tempo, anch’esso inevitabile e, per certi versi, fatale. Tempo fatale quindi, perché si è portati a credere che esso sia categorico, e ciò, almeno in parte, risponde a verità. Ma ci sono margini in cui agire. Il caso può dipendere dal libero arbitrio, dalla semplice scelta di svoltare a sinistra piuttosto che a destra. Qui entra in gioco il pensiero, o meglio: la psiche (che lo stesso Freud definiva “estesa”), quella cosa che indirizza e dispiega il nostro modo di porci a confronto non solo con le cose quotidiane ma, anche e soprattutto, con il caso e il fato, con il tempo e lo spazio.

Partiamo quindi dal tempo.

Passato. Presente. Futuro.

Ognuna di queste tre scansioni trova nell’opera un suo ideale sinonimo o, se preferite, un correlativo nel quale identificarsi o comunque esperirsi. Detto questo ci toccherà quantomeno «estendere» il passato verso la contiguità col ricordo (a solo titolo d’occorrenza, la parola “memoria” appare in ben cinque dei titoli delle sezioni che compongono l’opera), il presente verso l’illusione di una conquista, o meglio verso la perdita, e il futuro verso l’inevitabilità dell’utopia. Queste tre doppie-coppie sono, forse, gli elementi precipui che andranno a costituire il leit motiv di questo viaggio – a tratti volutamente incosciente – che sembra rivolto a cercare una prossimità con il «soggetto» a cui si riferisce. Ho usato una proposizione ipotetica perché, anche a lettura ultimata, non saremo certi che siano proprio queste le intenzioni dell’autrice. Vuoi solo per il fatto che la prossimità col tempo viaggia a braccetto con la sua destabilizzazione (“Per quanto possa sembrare / strano, abbiamo da imparare / che il tempo non esiste // è solo il dentro, / che si espande”).

Il soggetto che qui si vagheggia è (in)naturalmente identificabile nel «tempo». Anche se questo nostro fantomatico tempo sarà progressivamente costretto a lasciare il centro del palcoscenico alla dilatazione spaziale di quella frattura che la scrittura aprirà al suo interno, o meglio in una delle parti che lo compongono. Una parte infinitesimale certo, perché stiamo parlando di un «istante», di un solo, semplice (ma pluristrutturato e reiterabile) istante.

Ma procediamo con ordine. L’io che abita questo tempo plurimo, o che dovrebbe abitarlo, si limita (magari sarebbe più appropriato dire che tenta di porsi al limite) a disseminare sparute, minimali, evanescenti tracce della sua presenza, quella che l’autrice definisce,  in un passaggio significativo, “la tendenza allo sbiadire”. Ma sarebbe azzardato parlare di presenza o di presente, perché l’immediato non si dà come istante da vivere ma, e lo vedremo meglio in seguito, come istante da dilatare, e quindi «estendere». Di conseguenza la presenza può agire o farsi agire solo in quel “dentro,/ che si espande”. Potrebbe sembrare una forzatura, ma la chora, che è qui sottesa, assume, nell’avvicendarsi delle estensioni, tutte le caratteristiche di un vero e proprio «porta-impronte». E non solo, la sua funzione non si esaurisce a farsi ricettacolo-di-sé-in-sé, ma tenta, a più riprese, una disseminazione che abbraccia diverse modalità (si intendano con questo termine da un lato le cosiddette esigenze psichiche e intellettuali, quelli che possiamo tranquillamente definire come gesti extra-quotidiani, e dall’altro lato gli usi e le consuetudini che accompagnano e indirizzano i nostri gesti quotidiani) dell’essere-al-mondo. Ed è per questa ragione che possiamo assistere a un vero e proprio palinsesto anatomico. È significativo che parole come pancia, occhi, mani, dita, pelle, ginocchia ricorrano nell’opera in diversi contesti e svariate accezioni, come se per disseminare la voce intestina (quella che si dipana dal porta-impronte) fosse necessario esperire/esporre/estendere, magari per frammenti, tutti gli organi e tutte la parti che permettono al corpo-mente di veicolare il conflitto tra perdita e desiderio, tra dono e dolo, tra la voglia di gettarsi e l’inevitabilità di essere gettati. Per far sì che ciò accada non c’è nulla di più calzante e significativo di questa sorta di guerra pacifica che l’autrice instaura col tempo.

Parlare del tempo (farsi parlare dal tempo), lasciarsi trasportare dal tempo, consegnarsi al tempo sono azioni non facili da compiere (se non nell’inconsapevolezza della complessa struttura della cosa verso cui si tende, ma non è il nostro caso), o comunque non sono così ovvie e naturali come si potrebbe credere. Non c’è nulla di naturale nell’esercizio di misurarsi col tempo. Casomai c’è il nulla-di-sé che si rende inerme e soccombe alla potenza di un qualcosa di più grande e che non si lascia cogliere se non nell’illusione. L’io è, sempre e comunque, succube del tempo. Martina Campi sembra conoscere l’assioma e tenta di aggirarlo eludendo lo scontro diretto. L’autrice, nella maggior parte dei casi, non si arroga la presunzione di dire/scrivere “io”, perché sa che questa enunciazione svanirà nel momento stesso in cui verrà pronunciata o scritta. Non c’è un tempo, più o meno consono, in cui poter dire “io” o “sono io”; è lo stesso tempo a non permettere il compimento di questa azione, per così dire, incosciente e inconsulta. Ma ci potrebbe essere uno spazio ove camuffare l’«urgenza» in «desiderio», dove l’esigenza di porsi a confronto col tempo (che nelle persone pensanti rappresenta comunque uno dei «sensi dell’essere») possa essere enunciata attraverso le modalità del desiderio represso o della finta rassegnazione, o ancora attraverso un diktat rallentato e una postura, per così dire, indolente.

Esperire ildesiderio può lenire la soggiacenza dell’io al tempo? Interrogazione originaria, inevitabilmente sorgiva, e quindi aperta, perché segna il passato, attraversa con dolo il presente e si ripropone  implacabilmente in tutte le scansioni dell’avvenireDa qui l’impossibilità di rispondere, senza rischiare di mettere in gioco tendenze autolesioniste o masochistiche. Ma, i più onesti lo sanno, non c’è scrittura che non sia autolesionista. Per questo abbiamo accennato poco più sopra ad una “voluta incoscienza”. Quest’opera sembra cercare l’incoscienza e lo fa attraverso una pressoché continua esercitazione di camuffamento o, se preferite, di aggiramento/raggiramento dell’ostacolo che gli si para dinanzi. Martina Campi si rende indolente, sembra mostrare noncuranza e indifferenza nei confronti del tempo ma, in realtà, elabora un lento processo di effrazione per aprirsi uno spazio nel quale agire.

Ecco: lo «spazio».

Lo spazio di un libro è naturalmente chiuso, inscritto in cornici ben delimitate. La sfida di ogni estensione degna di questo nome è quella di far sì che le parole trovino almeno un punto di fuga. Quasi paradossalmente (ma nemmeno più di tanto) il punto di fuga per esperirsi in un fuori-di-sé deve intaccare un interno, o comunque lavorare all’interno di quel soggetto che intende ri-designare e ri-nominare. Da qui al procedimento della dilatazione il passo è quasi obbligato.

In questa lenta e progressiva dilatazione (estensione) risiede, oramai allettato, proprio quel tempo (sempre plurimo, mai univoco) che si ritrova a cercare il suo aver-luogo in un luogo che non c’è più, che non «è» più, che non è altro che la sua riconfigurazione estensiva, o meglio: l’estensione che l’autrice gli impone, quasi fuorviandolo e destabilizzandolo. Abbiamo quindi una sorta di tempo-nuovo che può darsi (e, a sua volta, svanire) non nel coglimento di un istante, ma solo creando una frattura in quell’istante. Quest’opera entra (magari, come già accennato, con procedimento di dolo) nella frattura e comincia  a lavorare sulla sua dilatazione. Questo lavoro, questo operare nell’opera può avvenire solo mettendo in gioco gli «spaziamenti» che questa modalità di scrittura pretende. In un passaggio possiamo riscontrare un preciso e significativo riferimento a “quel Tarkovsky” che letteralmente “scolpiva” il tempo nelle sue pellicole. Tarkovsky lavorava sullo sfinimento dei dettagli da reiterare proprio per poter meglio scolpire (incidere, intaccare) il tempo, entrava dentro di esso, invadeva pieghe e fenditure creando istanti da dilatare. In definitiva creava atmosfere rallentate e rarefatte donando al tempo una sorta di spazialità, tanto illusoria quanto concreta, tanto areale quanto pesante (si intenda qui il peso di un pensiero a struttura complessa).

C’è spazialità in quest’opera? C’è spaziamento in quest’opera?

Direi di sì. La spazialità e lo spaziamento hanno luogo proprio nella parola, nelle scansioni che rischiano soventemente l’allungamento, ovvero e ancora una volta: l’estensione, quella che ci toccherà definire finalmente una protesi, non una prosecuzione in termini altri, non un supplemento, ma propriamente il prolungamento, la dilatazione della sua dislocazione sulla carta, l’allungamento della sua dimensione temporale. Questo procedimento, questo dispositivo formale permette, in un certo senso, di donare una durata diversa al tempo. Non più il solo tempo necessario al compimento di un’azione, ma il tempo, per così dire, superfluo in cui rallentare il compimento dell’azione, in cui creare quella dimensione di «rarefazione» che pervade e caratterizza l’intera opera.  Sarebbe pressoché impossibile citare tutte le occorrenze che evidenziano e giustificano questo procedimento ma vi posso assicurare che una delle chiavi per accedere a questo esercizio estensivo consiste proprio nella consapevolezza che le spaziature, le pause (logiche o psicologiche che siano), gli intervalli ove regna il fatidico “spazio bianco”, gli a capo, le estenuanti dilatazioni si trasformano, sempre e comunque, da procedimenti formali in veri e propri dispositivi concettuali.

In definitiva, senza mai finire del tutto, l’es di queste «estensioni» è peso, è cosa, è cosa della psiche che elabora il proprio peso e lo esperisce, attraverso un ritmo lento e cadenzato, in una sorta di «penso, quindi sono esteso» nel tempo e nello spazio.

Il tempo non è, qui, circolare, ma circolante. È esso stesso estensione, magari vincolato dai comuni parametri del comune pensarlo e intenderlo. Ma il tempo è spartito, viene ulteriormente spartito e scandito, in parti e porzioni, per ciò che ci serve o che pensiamo possa servirci. Il tempo è dunque al nostro servizio? Niente di più sbagliato. Siamo noi a servire il tempo. Veniamo usati e ab-usati da esso. Ci illudiamo di abitarlo. Ma, in realtà, possiamo solo toccarne i limiti, le bordature. È anche vero che toccando i limiti siamo già a metà strada per «toccarci al limite». Il passo è breve. E, almeno in campo artistico, ciò è un bene. Tra toccare il limite e toccarsi al limite c’è uno scarto. In questo scarto i più edotti (o i più folli) cercano una sorta di affezione che possa fungere da punto di partenza per quella che, per semplicità, definiremo creazione artistica.

Ora, la sfida è proprio quella di far credere al tempo di poterci gettare in pasto alla vita a suo uso e piacimento, mentre in realtà stiamo già cercando di appropriarci di una delle sue «porzioni» per costruire una sorta di piccola dimora (uno spazio?), magari effimera e destinata alla dissoluzione, dove estendere, anche arbitrariamente e con forzature, la coppia peso-pensiero, dove cercare gli spaziamenti più adatti alla creazione di un flusso (necessariamente dilatato e a caduta) che possa veicolare la nostra  voce.

Tutto questo è una parte di ciò che, qui, accade.

(Postfazione di Enzo Campi)

Testi

(dalla sezione Memoria dell’onda)

Mostr’arsi

Escono
dalle bocche
del maggio
al tramonto
e si rompono

non potendo
attendere

oltre

o ancora
ascoltare
aspettarsi

comparire
sentirsi
nutrire

insieme
seme
di vento

non voci
ma appena
sussurri,

alla corrente
per lungo
tempo

lasciati

per troppo
tempo
senza
neppure

per niente sapere

come dire
cosa dire.

(dalla sezione Memoria delle foglie)

Insegnami

la tendenza allo sbiadire

pensando pensando tende a scomparire
la parola posa sussurra
trasmessa in carne d’altro inessere
ch’è fuori e si vede, fuori moda, forse?
Interrogazioni, pretestuose
a guardarsi strizzando

inerzia all’erta allegramente dis/azione
mente, nei frattempi, contrappunti
battente ripetente battente
sottrarsi è possibile
scomporsi
abili responsi

che non si ripetono, non si ripetono e grazie
alle occasioni non si ripetono

si sentono si osservano si ascoltano si accumulano
tendono allo scomparire.

*

Nella terra

Il passato non è passato
il passato è movimento
le parole sono ferme, le parole sono
gli smarrimenti nella terra sono le parole
e la terra ha calci e polvere
(il colore è sempre quello rosso)

Come la luce come fessura come
dita, che si toccano che non si
riconoscono la pelle

i fiumi, le maiuscole
le iniziali
da qualcuno, presto da qualcuno
per lasciargli lo spazio
malato, santo, che prende
spazio

il mattino poco per volta,
per scelta
sulla pancia.

(dalla sezione Memoria delle stelle)

Compressione

La massa agisce
ad altissima velocità
quanto piccola dovrebbe
essere la terra
per morire, corpo instabile,
scossa da violenti spasmi
il nucleo così pulsante
da poter solo continuare
a crollare
su se stesso
e tutta la massa resterebbe
ancora inalterata.

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Martina Campi, Estensioni del tempo
A cura di Ivan Fedeli
Prefazione Loredana Magazzeni
Postfazione Enzo Campi
Le Voci della Luna edizioni, 2012
(Vincitore Premio Giorgi, Sezione Cantiere, 2012)
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4 pensieri riguardo “Estensioni del tempo”

  1. Le parole qui sono respiro e pulsazione appena accarezzata:
    sentire quello che non è casuale, che coltiva misure e voli.
    Come fa l’erba umida quando nella sera respira,
    minimale rombo dell ‘ineluttabile a venire,
    grazia discosta dal pensiero lineare
    che inchioda normalmente il mondo a vuote necessità virtuali

  2. “Mostr’arsi” mi piacce tantissimo.

    Qui le parole non sono più parole, sono suoni trasportati dal vento.

    Torno a rileggere tutto con calma.

    Grazie
    gb

  3. Quante “illuminazioni” in questa scrittura. E’ un libro di tempi e spazi che non saziano di possibilità il lettore. L’autrice è come scalza e attraversa, parla. Incontra i fenomeni del temporale e dello spaziale, e vi discute, a propria lingua, di proprio canto – con passione e incanto. Penso sia uno di quei libri pieni di sorprese, e una scrittura che cresce e promette sconfinamenti, sonori e ancora solari. Saluti e grazie, Giampaolo Dp

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