Gli Esercizi della vita (II)

Giovanna Bemporad

E così, dopo più di sessant’anni dalla prima edizione, ecco di nuovo gli Esercizi. Se di uno stesso libro, di uno stesso progetto, si continua a parlare, è per un aspetto di continuità, certo non garantita solo da un titolo. La spiegazione è semplice: Esercizi è il libro di una vita. E poco importa che per un periodo esso sarebbe potuto essere un libro fra i molti di una serie creativa; la sua verità sta scritta nella sua storia, e nel suo destino, che non a caso è speculare a quello dell’altra avventura letteraria di Giovanna Bemporad, l’altra “opera aperta”, per sua natura incompiuta: l’Odissea.

Nelle nuove poesie, pur constatando l’apporto di immagini e suggestioni inedite, si ritrovano gli stessi temi di un tempo, su tutti quell’ansia di morte che tanto stupiva quando a renderla in versi era solo una ragazza (nei “Diari” leggiamo: «non altro si vorrebbe che morire»). Col passare degli anni, il sostrato poetico del libro non si è affatto aggravato di nuove ansie o paure, ma si è ritrovato costantemente in quello stesso, immutato, sentimento di un tempo. Lo “scandalo” della morte pietrificava, però anche seduceva la giovane “protagonista” delle prime poesie, e come un specchio la traslava in un’età futura, ma resa già nitida dall’«enigma sublime» che gli occhi rende prigionieri. Nei nuovi Esercizi quello specchio ritrova il suo spazio, fermo, mentre sono le due immagini di Giovanna a rovesciarsi. Riflessa sta ora la giovinezza passata, e a inseguirla con la poesia, evadendo il proprio presente, è la donna che guarda da «una riva lontana». (Dalla Prefazione di Andrea Cirolla)

 

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Giovanna Bemporad, Esercizi vecchi e nuovi
Cura e prefazione di Andrea Cirolla
Milano, Archivio Dedalus, “Lumen poesia”, 2010
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Poesie degli anni tardi

 

    All’ispirazione ritrovata
    alla maniera del Dolce Stil Novo

Canzone, flebile d’arpe argentine,
la gomena tu spezza, odioso verme,
lungo serpente che ancorato a riva
tiene il vecchio battello e la mia lingua
sciogli, rinata all’estasi dei voli!
Forse avverrà, mia tormentata attesa
della tua grazia, che un poema intero
dal mio cuore romantico germogli,
sbocci in fiorente glicine d’amore!
Vieni, affrettati a farmi prigioniera
dell’enigma sublime a cui di nuovo
io mi abbandono (come obliquo uccello
si abbandona allo spazio) e la tua forma
futura tramo: al compito il mio genio
tu chiamavi, io non ero che silenzio!

 

*

 

La mestizia una maschera d’ancella
disegna sul mio viso: aria di giglio
che pensa mi incorona; io sento il vuoto
assumere ai miei occhi forma umana.
Ah, facilmente lo schiavo s’impiglia
nella catena che infranse a fatica!
Saggio è chi resta libero, e non cede
neppure al dio che invoglia alle carezze
quando trafitti da spade d’amore
gli occhi ottusi cavalcano nei sogni
sopra l’azzurro amplissimo dei cieli!
Non sottomessa ma ribelle al fascino
dispotico che emana il dio fanciullo,
dolcemente scherzando con la maschera
di mestizia stampata sul mio viso,
mi accomiato dal mondo e da me stessa
con un gesto sommesso di distacco.

 

*

 

L’anima mia che ha tristezze d’aurora
e di tramonto, e il gusto della morte,
non più tenuta viva da illusioni
piange sommessa al clamoroso mare
come un fanciullo triste, abbandonato
senza difesa a tutti i suoi terrori.
Ma quando il sole un riso di rubini
mi semina tra i solchi della fronte,
spiegano i sogni un volo di gabbiani!
Persa in un mondo di gocce d’azzurro
e di freschezza verde, annego in questo
mare più dolce dell’oblio l’angoscia
cupa degli anni tardi, in cui presento,
rammaricando, che il mio tempo è morto.

 

*

 

Felice sospensione ha il mio dolore
nella pausa più dolce di ogni suono
in cui non si ode più, deposto il flauto,
la sua struggente melodia, ma quella
che sopravvive al flebile strumento.
Non meno dolce o meno commovente
nota il cuculo invia dalla lontana
campagna a primavera. E come il vento
su per roseti rampicanti in fiore
si attarda a mietere carezze, prima
che il suo bisogno estremo di compianto
lo induca a un folle, vano imperversare:
così una breve pausa ha il mio dolore
se vedo sopra il campanile a sera
la prima stella accendersi, che pare
contraddica il mio pianto e che sorrida.

 

    Meriggio al mare

Da casa mia venuta in comunione
col deserto del mare – indugia eterno
nella monotonia dell’acqua il tempo;
davanti a me compongono le vele,
mosse dal vento, musica o poesia –
come quelle laggiù la mia non vedo
prendere il largo gonfia e dispiegata,
ma resta inerte, nell’amara calma
di un’aria morta. All’urto dei pensieri
la vacuità del mare fa un commento
sonoro, come al sasso che i fanciulli
scagliano per infrangere il suo specchio!
Non conviene guardare né al passato
né al futuro in quest’ora meridiana;
meglio isolarsi a vivere nel tempo
più veramente nostro, in interiori
colloqui di cui prodiga è la notte,
meglio lasciarsi immobili portare
su una fragile barca all’altra riva.

 

    Interrogazione

Mentre l’ultimo raggio rosseggiante
muore sui vetri, perché vivo ancora
mi chiedo, se il mio cibo è l’amarezza
e il cuore che educavano alla gioia
non batte ormai se non per tenerezza
di primavere, estati e dolci autunni,
ma per gioia non più? Dalla finestra
della mia stanza spio nel plenilunio
fino all’alba a fissarmi il cimitero.
Con gli occhi che già nuotano nel sonno
mi chiedo con un brivido: chi sono?
Chi, per la colpa che scontai nascendo,
dal buio nulla a un attimo di luce
destinò questo corpo, amato corpo,
l’oggetto che dai morti mi difende,
per poi ridurlo in polvere? Risponde
all’incauta domanda il vuoto immenso
e va per la malinconia del cielo
che si annera insensibile la luna.

 

    Alla primavera

Nelle mie vene, un tempo ebbre di vita,
batte con ritmo languido il risveglio
di primavera, e accende il sentimento
in chi non vuole più se non amare
la cecità del pianto. Lunga o breve
tragica è questa favola che bella
sembrava al tempo in cui l’ineluttabile
certezza non aveva ancora offeso
l’ingenuità dei nostri cuori, illusi
di essere eterni. Eppure mi sorprendo
talvolta a intenerirmi quando un giglio
spunta a piè d’una quercia, o nel giardino
il mandorlo è fiorito. E una dolcezza
di memorie distende il mio dolore,
già creduto incurabile, in un riso.
Poi, quando il giorno muore nella notte,
si fa nera ogni cosa, accoglie e fonde
l’anima curva sotto il suo destino
questo fluire in lei di tante vite.

 

Saffiche

 

    L’attesa

È quasi l’ora, e io esco all’aperto.
Dolce notte! perché dunque mi struggo?
E come il cielo è purissimo e calmo!

Conduci al convegno quella ch’io amo
e non trapassi inconsumata l’ora
o notte.

           In solitudine confusa,
dimentico tra me ch’ella è partita
e al luogo del convegno aspetto sola.

 

    Sogno vince realtà

Più non sorga il domani: eterna e chiara
sia questa notte; in me dilaga il sole.
È sogno o realtà l’ombra che illumina
la stanza vuota? Lenta batte l’ora
sull’estasi notturna. Aspetto insonne
che il giorno la sua immagine mi porti
mentre dalle mie braccia fugge timida
quasi del primo albore, assecondando
il sogno di chi muore ebbro di luce.

 

*

 

Viva in me geme la tua carne, palpita
gonfia ogni vena. Il tuo fiato respiro
come l’ombra il silenzio. Azzurro cielo
è nelle tue carezze, o donna; e mani
che il sudore non sanno e i vili abbracci
porto al giardino chiuso del mio cuore.
Vorrei perdermi in te, con braccia ardenti
stringerti esangue, fiore che tra i fiori
recisi dei suoi petali si spoglia.
Perché, perché l’ora non fugge? Strazio
non voglio fare del tuo corpo, o donna;
ma forse piace al tuo candore il sangue.

 

    Epilogo

O vento che commemori passate
moltitudini e fasti inceneriti,
o tempo contro cui non c’è riparo:
mi riduco al silenzio, nell’attesa
purissima dell’ombra che già stende
sui vivi un lembo della notte eterna.
Forse è quest’ombra tragica sospesa
sul ciglio della notte che fa illusi
gli uomini di conoscersi e di amarsi,
naufraghi nel silenzio dei millenni.

 

***

9 pensieri riguardo “Gli Esercizi della vita (II)”

  1. @Luca Ariano. Certamente! Il libro è disponibile presso tutte le librerie online e si può pure acquistare sul sito dell’Archivio Dedalus. La prima tiratura è di 50 copie numerate, una tiratura pilota ma, anche per questo, molto preziosa.

  2. Buongiorno a tutti,
    per chi fosse interessato all’acquisto del libro di Giovanna Bemporad, l’unica via di distribuzione è on line, sul sito dell’Archivio Dedalus http://www.dedaluspoemvideo.it
    Chi abita a Milano può passare dalla sede dell’Archivio, in via Pietro Custodi 18, dove sono disponibili alcune copie.

    Grazie ad Andrea, che ci ha dato l’opportunità di realizzare un bellissimo libro.

    Lo staff delle Edizioni Archivio Dedalus

  3. Non posso che ringraziare. “Naufraghi nel silenzio dei millenni” come siamo, noi, fan della Dimora, un attimo di tempo lo troviamo certo per ordinare questo splendido libro.
    Grazie, Marco

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