La presenza del vedere

Adriano Padua

Adriano Padua

A calzare la maschera metrica parrebbe non ci siano fori per gli occhi, e cala il buio nel mentre che un suono ritorna costante a segnare col proprio rimbalzo l’ambiente. Se poi vi si sovrappone la pellicola lirica, introversa per sua stessa elezione, e al dunque spalmabile solo a patto di perdere il volto, se mai per barattarlo con il calco di un morto, o con la spugna del convolto cerebrale, allora la cecità da marchio di fabbrica diviene un viaggio organizzato nelle tenebre, «con gli occhi sgranati e rivolti nel verso di questo possibile abisso». Eppure a scomparire in quella risacca non sono le cose, se mai le parole. È un paradosso, ma se ogni verso non ci mettesse in riga a filare in senso inverso, non ci sarebbe altro che un depositarsi di larve d’insetto (Francesco Redi, quando metteva a marcire la carne, li chiamava «cacchioni») e uno squittio. Con il congegno della poesia non si fa niente se non immettere ritardi, o guasti, nel sistema percettivo, provando innanzi tutto a scollare dalle pareti mute e lisce del sensorio la carta da parato che ci chiacchiera nel mondo. E quando la litania insensata del nostro continuare a dirci nella scena percettiva infine s’inceppa, è perché sta venendo su un’immagine, tanto confusa e fosca da mettere fuori gioco il sistema allucinatorio del cervello. E per una volta, finalmente, nella luce sempre a giorno del reale, grazie a quel cono d’ombra, dentro quel cono d’ombra, vediamo. E cosa? Padua vede la notte, nel buio, con le «forme del buio».  È un paesaggio senza l’uomo che, al di là di un generico spruzzo di stelle, qualche promessa mai mantenuta d’alba nel cielo (ma di un’alba che «verrà inanimata»), non prevede natura. Nemmeno quella di chi se ne fa testimone, per noi, se mai dopo aver provveduto a perimetrare il deserto, «creando un’assidua e sonora ossessione nel proprio rumore di fondo». Un paesaggio con rovine? Per niente, la città è un susseguirsi di solidi lisci come smalto, non v’è una pietra fuori posto («la quiete è un’apparenza data dallo / stabilizzarsi al suolo d’ogni crollo»), ed è perfettamente in funzione, non è still life, perché se vogliamo parla tutte le sue insegne e i neon, riflessa com’è, e così talvolta traspare in una camera in penombra, sullo schermo esattamente «tra il vuoto e le lettere». E se «lo spazio è un montaggio illusorio d’immagini fisse e vocali» (è il parassita della lingua, che ci nomina da sempre, che vede, e ci vede… noi, come tutte le prede, siamo ciechi, non sordi), questa città nella notte vi cala, controsenso, fluttuando dal ritornello all’immagine, perché è proprio del metro deflagrare «ad un metro da terra». […]

(Dalla Prefazione di Gabriele Frasca)

 

Se l’aria è satura di «un elemento intermittente di silenzio e suono», ciò che si vede nella notte che fa da sfondo al viaggio lirico di Adriano Padua è un «buio incessante», artefice di inattesi «contrasti cromatici». La raccolta ci pone di fronte a un doppio ossimoro fin da subito. Il primo riguarda il contesto uditivo: la notte si presta all’orecchio come un «respiro muto», mentre il suono è il «rumore che siamo». Noi siamo nient’altro che un rumore (forse l’incedere dei versi?), mentre ciò che i nostri movimenti producono è una quiete silenziosa, che ha il sapore dell’attesa. Il secondo ci introduce al nucleo del libro: il rapporto luce/tenebra. Se è il buio a dare risalto alle cose, c’è bisogno di un occhio felino per orientarsi tra i detriti e le macerie delle tenebre, eppure c’è una luce che riverbera dai fuochi della notte, una traccia anch’essa di rovine, capace di ridestare brani di parole, rumori, note forse dissonanti, ma pur sempre la spia di qualcosa che ancora vive. La luce dunque innesca un moto verbale, è il diapason di questi versi. È un mondo apocalittico quello in cui si aggirano queste voci che sembrano essersi liberate del soggetto. C’è ben poco che faccia pensare alla presenza dell’uomo per le strade di rottami e lamiere, tanto più che lo stesso sguardo, quasi un radar o un sonar, appartiene più a un essere spersonalizzato che a un vero e proprio reduce del genere umano. Tuttavia questo che i versi di Padua ci stanno mostrando è il nostro mondo, una costruzione che sta in piedi per neutralizzazioni progressive di contrari e abolizione della spontaneità: «quello che non accade è poesia / indistinguibile da tutto il resto», in un continuo rovesciamento di prospettive che impedisce di porre punti fermi. Non è detto tuttavia che questa messa in scena poetica non possa essere, come scrive Vaneigem, «l’imbuto in cui si riversa[no] le infinite banalità, la notevole importanza zero del mondo», quell’imbuto capace di donare, come per un processo alchemico, nuova linfa a una materia inerte, tale che «dall’altro lato tutto [esce] trasformato, originale. nuovo». […]

(Dalla Nota di Luigi Metropoli)

 

Testi

 

permane questo stato d’emergenza
l’obliquo squilibrarsi
dei corpi in traiettorie non descritte
ruotando intorno a un punto di rottura
dal quale sono solo le parole
a separarci
come creando invano ancora nuove
distanze che intercorrono tra i nostri
silenzi ed i muri violenti
eretti a formare
comparti di pietra e di vetro laddove
la fede crudele è protetta al sicuro
dai cani da guardia del mondo
che dormono e sognano tesi
e ipotesi in nuovi teoremi
su strane figure geometriche

 

*

 

non una storia non un sogno questo silenzio semina
soffio e non luce frequenza che il buio subisce e leviga
trama di termine in blocchi sospesi e rintocchi
nuova abitudine e vista del verso per retro d’immagine
dentro la gabbia dei globi oculari che occlude i colori
laddove la lima per mano rimane e poi s’agita e preme
profonda come in sangue rigirandosi a spaccare i capillari
dal piano remoto in cui sorgono scisse e concrete
le parti e le pause sospese che fanno discorso
protesa a procedere oltre al contagio all’ascesa
nel farsi saliva del suono che in bocca stentato s’accenna
ai moduli d’aria teatro non gesto del dire
che espresso nei segni e nei codici in vertice emerge
e per spazi traversi oltre i vincoli ad alba s’inscena

 

*

 

gli automatismi delle reazioni
i vuoti e i pieni nel bicchiere rotto
le possibilità non attuabili
i sintomi del buio gli occhi aperti
sul gioco fuoco che trasforma i tratti
dei corpi inerti e disfa la materia
nel volgere gli stati di coscienza
condensa i sensi e condiziona i battiti
del cuore nelle valvole s’addensa
sottocutaneo grumo agglomerato
ai globuli di sangue nei coaguli
di questa emorragia nel centro della
notte sopravvolata da elicotteri
che entrano con dio in contraddizione

i jingle della neotelevisione
s’annientano nel fondo del ronzio
meccanico di guerra nel calore
che dai motori sé sprigiona al cielo

e mentre le distanze si dispiegano
la morte le sorveglia luogo a luogo

 

*

 

persevera la notte a farsi breve
per fasi si consuma in lievi lune
sparge versi catodici a gragnuole
verbi come potere e idiomi idioti

la polvere dell’odio e dell’oblio
piove dal basso cielo a mezzi termini
sulla metropoli tra i suoi perimetri
a spegnere le luci artificiali

è l’ora in cui i sospiri si decifrano
fissando a testo frasi ed afasie
in tracce d’anidride che consumano
cerimoniali stasi d’apoetiche
altre parole in sonno sulle labbra
degenerate a vuoto quotidiano

 

*

 

notte che è nero onirico uno zero
pregna di buio e macera materia
si chiude dietro gli occhi fiammeggianti
tronca le luci mentre il sangue canta

è inutile tentare sfuoca il dire
non ha sapore il suono nella bocca
non tocca le papille gustative
e guasta l’alito e l’istinto il nome
scordando la memoria che si altera
e stona nella storia in aritmia

non fiata la parola si rimane
a sanguinare tra gengive e lingua
nel fumo che si agita aleggiando
legata l’aria in gola a nodi e vincoli
e sbrana i brani in voci e suoni aridi
fottendoseli a morte nel silenzio

il termine è uno solo e non è ora

 

*

 

se piangi
non spegnere le fiamme con le lacrime
che tanto prima o poi
facendo confusione
troviamo un equilibrio senza pace
scambiandoci le anime

guarda la linea verde della vita
tracciata nello schermo
rimane tutto fermo

abbiamo
la lista delle cose da non fare
adesso usciamo fuori a respirare
quest’aria surreale
coscienti che non c’è rimedio alcuno
né scelta razionale

ti porto
a peggiorare il male

 

*

 

ripetersi di nuovo nel sentire
immagini a contorni realistici
contatti che avvenuti disperdendosi
rivoltano la vita fatti senso
dirottano percorsi stabiliti
per deviazioni in precedenza note
nell’affrontarle solo quando avvengono
proprio al momento in cui senza motivo
succede che qualcosa si verifichi
concretizzata poi nel proprio ambito
e tutto questo ruota su sé stesso
senza procedimento contraendosi
come una stasi esplosa illineare
irriducibile a che sei poesia

 

Adriano Padua, La presenza del vedere
Prefazione di Gabriele Frasca
Con una nota di Luigi Metropoli
Roma, Edizioni Polìmata, 2009

 

***

3 pensieri riguardo “La presenza del vedere”

  1. Nella koinè oculistica contemporanea (senza troppa ironia, essendo in parte coinvolta) Adriano ha una capacità di rigenerare metri e temi ( notte che è nero onirico uno zero, f.e.) in maniera più che invidiabile

  2. Salutando Francesco e *rincasando* grazie alla Dimora: m’accorpo a Viola, ribadendo quanto l’Opera di Padua sia necessaria e numinosa.

    [E ancora: Ronnie James lo benedica ché della *nostra generazione* siamo rimasti meno delle falangette di un dito!]

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