Le volpi gridano in giardino

S. Guglielmin, Le volpi gridano...

Stefano Guglielmin

Stefano carissimo,
ieri Le volpi che gridano in giardino è finalmente arrivato. Ricordi quando ti ho scritto che nel titolo ci sentivo un richiamo che ti fa tendere l’orecchio, girare il volto, un richiamo che con fermezza ti trapassa? Io questo richiamo l’ho sentito nei testi, soprattutto la fermezza che trapassa, e l’ho visto acquistare forza, diventare emisfero linguistico e tattile che si dispiega in modo autentico e lucido, perché sa registrare, sigillare, parole pensieri e immagini nel loro reale tempo.
Paolo Donini nella prefazione scrive che per ogni autore c’è “… un libro che apre nella piena maturità una crisi, una presa d’atto …” per affermare più oltre che probabilmente per te questo è quel libro. Ecco, io non lo so se proprio questo è quel libro, non escludo a priori che possa esserlo un altro ancora, però penso che questo sia nel tuo percorso di autore, di autore non solo di poesia, un libro che traccia un solco profondo. E’ una radice, direi, di quelle che si vedono affiorare sulla terra, le più preziose, non solo perché all’aperto le si vede ma perché sono anche quelle in cui si può inciampare e inciampando le si riconosce, e si acquisisce consapevolezza del loro esserci e della loro portata. Nel tuo Le volpi che gridano in giardino io ci sento questo esserci e questa portata, il sapersene fare carico e il saperli consegnare così come sono, senza timore o censura interiore, rafforzati, l’esserci e la portata, dalla tua capacità di muoverti su molteplici piani tematici e linguistici.
E bene hai fatto ritengo ad inserire le note a fine testo, le note non sono semplici postille ma discorsi e legami con il passato e il futuro, e a volte sono, lasciamelo dire, piccoli miracoli e illuminazioni che ci aprono e fanno entrare nell’anima di chi scrive, che aiutano a costruire e magari fondare nuove trame. E poi un grazie per Andrej e Arsenij Tarkovskij, due grandi autori da noi poco conosciuti, che hanno saputo penetrare il dato oggettivo, forzarlo anche, per offrirci prospettive, e visioni anche, del reale di straordinaria potenza e profondità. (Silvia Comoglio)

Stefano Guglielmin
Le volpi gridano in giardino
Prefazione di Paolo Donini
Piateda (SO), CFR Edizioni, 2013

Testi

da Canti dell’amore coniugale

Alla tua quiete salda come il pane

Comincio dall’albero tuo padre
e dal mio, dal lasco che ogni generazione
lascia alle mosche, dalla scucita bocca
che mi pianti sul petto baciandomi il sesso
che è mare e torba e serie infinita di svolte
o numero primo, talvolta. Comincio
da via Baccarini, dai tre mesi casti, torti
come la via infante del rivo o la tua prima vita
molle per troppa sfida al ramo grosso, che ti volle
ragioniera o spago dove stendere il cognome.

Comincio dai miei forse, dal grano della tua
quiete, ferita, sì, ma salda come il pane alla mia
fame, dallo strappo animale
che fa agile l’angelo quando risale
dove l’intero e il buono la bella lingua amano
e dalle donne, in cui mai cercai casa né prato
ma sprofondo e grido
e nulla compagnia che avesse torto in mezzo
dalle donne andate per monossido o corda fissa
come Sofia e Paola o per malattia, incendio, pozza
ago. Comincio scavando
in questo largo solido pozzo, dove aria nera condensa
il dondolio dell’amore, nostro guado e languore
nostro ostaggio, che voce libera
ai mille vicoli del mondo e benedice.

E se ti amo è anche per la tua nascita seconda
per la tempra e l’olio a trent’anni fatti uovo, via maestra
nuova, con cui ora mi semini distratta, io che provo
a starti dietro, pulcino o macchina da guerra, io che aro
queste sfinite zolle e sciocco dico che vorrei
sparire, invece di farmi cosa come te abile al frutto
e vera.

Se la voce, sola

Se scivola parola al pane, se punge
e amore stacca, se aspra e tenebrosa bianca bocca
spinge e come corta vita brucia o scatta

se solo piove e piove, al ladro rubando tracce

se s’impasta il tempo e pa di padre e ma di madre
spàmpano, non più punta o squadra, non più lago
o tasca o golfo

se amore sgomita per restare, andando verso
tornando, se ogni voce

se ogni voce parla per noi, se ogni voce
alla poesia scalda i piedi, se si fa coro
dentro il legno o si perde
in pace

se io romeo e tu perfetta
in bilico sul canto, su questo
stento

se di nuovo esito tra palude e sorso
e ancora piove e piove e
piove…

Il tuo cuore in corsa

La beata bestia che il bene dentro
ti scompiglia non ama la mano
che muta l’oro in merce
o in ferro torto, ma lo sgroviglio
della grafia infante, del cuore in corsa
che batte bum bum batte per strafori e cavedagne e spurie
tribolazioni, che al male scampano: è così, pare
è così che né le femmine, in maggior parte, né la piova
se la terra ingravida, né i pensieri
lieti, siano in vendita, ma salpino invece dalla bocca
festosa a pane e vino, come lieve fugge la pena
l’animale quieto, che stagiona e riparte e ancora plana
riposa, e di nuovo s’invola, mai solo.

da Canti partigiani

C’è bufera dentro la madre

C’è, nell’attesa,
un rumore di lillà che si rompe.
E c’è, quando arriva il giorno,
una partizione del sole in piccoli soli neri.

Alejandra Pizarnik

1.

piegato il guinzaglio, versa monete nel vaso, e profumo.
come a febbraio la pioggia nel lago, pensa. poi tocca il ramo, tuttavia]
per dire: ecco il mio sesso nel delirio della specie. così si spiega
l’impazienza nella fila e il fatto che, se accende un mutuo,
la luce cambia.

2.

infilando la mano nella tasca, sente il solito ramo
e lo squittio del cuoio. per questo non usa la chiave, entrando.
pare che alla balia annusi le bende, celi il permesso
di soggiorno: la spalancherà, distesa sul bordo del mattino.
giovinezza ha infatti l’oro in bocca e tanti scrocchi da inventare.

3.

capisce quando la vita svacca. ne sente il crepo destro
e il sinistro. cura per questo la piaga che è sua, salta di lato.
poi la sera, in groppa al leone che è stato, sfila la calma dal chiodo
la scuce. mentre dorme, una ventata di femmine gli stira le pieghe
gli alza il livello del mare.

4.

non può vincere sempre, lo sa. e quindi paga, rimedia
se può, mette i campanelli ai seni. ma non quando l’ossigeno
svaria, intorpidendo la vista. ciò non dipende dall’irap
né dall’asfissia del credito: il corpo grava, infatti
fa ombra agli zecchini.

5.

gli canta una festa nel ventre, talvolta, ma non la sente.
nemmeno natura, se c’è, gli balla serena sul petto:
quando ne solca la foce, la chiama mio cimento d’amore
mio cantiere
. gli fiorisce, a riscatto, un grumo sul labbro
un piccolo nodo gramo, che non sempre scompare.

6.

ama come il perno la ruota o lo stantuffo il freno:
è una questione di fede nei fluidi, di meccanica cruda.
quando gode, sfiata invero pressione, ritrova
lo stato di quiete. poi fuma e ride, versando grappa nel buio.
è un buon uomo quando posa il bicchiere.

7.

quando serve, dà alla fabbrica sfogo: di notte
cola sifoni e fa mestruo nei fondi. di giorno, spurga lavoro.
toglie pane e scarpe, se chiude, svena. oppure il profitto
che è grano, matura, e allora cieca
la gatta lecca nel gruppo, prepara per tutti il natale.

8.

cura col maglio il rischio d’impresa e con metafore vive:
sangue che gira dove non sa, e cresce. annusa il tractatus
ci pesca un dedalo nuovo dove posare la pietra. dove pensare.
il meglio lo intaglia dal verbo, il peggio, dalla scatola
in cui semina vento. e nazione, se lievita male.

9.

sul volo, che curva in due il globo, immagina mosè
slabbrare l’acquario. al selvatico, cede il suo quarto migliore
e ci poggia la bocca: a sharm non dorme mai solo. mentre gioca
ha una marea di amici che gli batte nel petto, una cagnara
festosa, eccitata e lontana. al ritorno la sfama.

10.

anche suo figlio impara. tasta la lingua del multimedia
da quand’era bulbo. bulbo o seme di grande albero stecco.
dice grazie a tempo, poi dimentica. e vuole il resto
che è spicciolo, da convertire in polpa. pare che preghi
ed invece contratta, come suo padre.

*

Paesaggi con poeta

Ho visto
paesaggi interiori pugnare col grigio deforme
di un umano niente e poeti ratti raccontare l’oggi
per tratti uniformi, li ho visti arrancare in quelle altezze.
Sciupare. E ruine e alme e altre arcaiche moine
rovinare sul testo, rovinarlo. Ma so per converso
di parole per cui si muore. Parole sole, senza paesaggio
nell’intrico dell’erto e del liscio, dove l’eroe s’immola.
E so di banchieri che asciugano risaie, assetano villaggi.

Io per me vorrei uno sfondo che non decori
ma dilati il senso dello stare, un tavolo di frutta
per esempio, e una figura, che sorrida a morti e vivi
senza strafare. Vorrei narrare, ma con spiacere
di mamme vermiglie nel rione degli infetti e di città
imperfette in cui s’annida l’erosione. E di prigione
vorrei dire, esilio dai prati, dai nomi, dove sognare
non l’ora d’aria, sola, ma il guado, e scrivere di te
di quando sfidi rocce e mulattiere
guardando in valle il torbido che cresce
di te, quieta, presso l’acqua dei nevai.

*

Mamme vermiglie

I.

Se qualcuno provoca o sloga
chiedendo modifiche
o un suono accurato che la possa mutare
lei muta, sposa la conca, il cuneo
sfuma in un canto il grido
e per dispetto cambia mano, perno
ma è un immergere ratto
una prosa d’amore senza rima, in effetti
con tanti uomini e no, e bombolette
per scriverle dentro cose spray dove l’anima
salta, ma è un affare distratto
perché lei, come nessuno, separa i piani
biforca, per dire amore al giogo
e ancora mostrare, pulita, ai suoi figli
la bocca.

II.

Diventerà grande lo stesso, ai piedi del lutto
gronda di fontanelle e semi, per non cambiare
discorso o distrarsi. Potrebbe darsi
un nome diverso, un dominio segreto, e scaltra
vivere doppia: di qua la riva
dove quieta schiumare, di là il supplizio
la stiva, il bottino d’oro che non farà
notizia. Potrebbe, se volesse, farsi adorare
succhiare il petto, regnare, e invece sbava, ferma
sui quattro pungoli del corpo, cagna da riporto
in posa ai margini del bosco.

III.

Nell’ombra, come bianca resa di sposa
attesa. O animale da fratta o rovina
nella cartolina dal male.

C’è una marea in quel lampo, un pensiero
peso piuma che sguscia:

il corpo luccica in tanta samba
sembra nero. E così i suoi rami, maschi
che lei ribalta, sfida.

Sta tutta lì, pare, nella bolgia o come uccello
in salvia sulla brace. Sfalda i marmi ai glutei, sfiata.
Eppure la luce tiene in quella melma, suona

come vocale dolce quando fiume svasa.

__________________________

Paolo Donini
Prefazione

L’acqua è l’elemento femminile e materno, l’archetipo iniziale per eccellenza. Ed è con un poema d’acque, scandito lungo decorsi fluviali tra le rive dei nomi, che Stefano Guglielmin ci aveva lasciato alla sua (fino ad oggi) ultima raccolta: La distanza immedicata. Nel frattempo è apparso il poemetto C’è bufera dentro la madre, ora ricompreso in questo nuovo esito: Le volpi gridano in giardino.

La raccolta – che presenta una struttura binaria: due sezioni prioritarie, Canti dell’amore coniugale e Canti partigiani, ospitano 2 + 3 sezioni interne: Canti dell’amore coniugale la sezione omonima e le Poesie londinesi; Canti partigiani, la ricompresa Bufera, Mamme vermiglie e Sponsor river (per inciso ancora il topos, qui secolarizzato, del fiume) – la raccolta è dominata dall’emergenza, da uno stato di allerta che lampeggiando riverbera ora l’emisfero privato, ora quello pubblico; ora la dimensione individuale, ora quella di relazione; l’area culturale, linguistica e quella biologica, organica; il piano concettuale, speculativo e la sua resa stilistica, metrica, morfosintattica, lessicale.

Va detto che se c’è, nella vicenda compositiva e editoriale di un poeta, un libro che apre nella piena maturità una crisi, una presa d’atto e distanze – che non significa solo disincanto ma approdo a una sorta di innocenza ulteriore, spuria, compromessa e tuttavia renitente, recuperata, eppure stranamente (e nuovamente) illesa, certa a posteriori della sua credenza, – ebbene per Stefano Guglielmin quel libro è, con buona probabilità, Le volpi gridano in giardino.

La raccolta infatti traghetta una funzione inclusiva e superante. Il che significa, quanto a cifra stilistica, la concessione di pieno credito a una sperimentazione (talora anche a un virtuosismo), crossover rispetto a generi e a registri, ma soprattutto la rottura del lucchetto della compattezza, quasi sempre apposto a sigillo della certezza o personalità della voce poetica. Della compattezza, suggerisce questo libro, occorrerà sempre più chiedere conto, non fidandosene di per sé, nello sbriciolarsi degli orizzonti empirici e nell’ibridarsi delle poetiche.

A questa rottura di un cliché stilistico coincide immediatamente sul piano tematico lo stridio di un altro guscio che si apre scontrandosi: l’hortus conclusus dell’esperienza personale, quando va a cozzare con l’indeterminato di una crisi, di un allontanamento, e quando rivede affacciarsi nel perimetro duale i volti sfaccettati e conflittuali della polis – la diade che si lacera commossa per ritrovarsi di nuovo partecipe in mezzo al mondo.

In un libro che ha questi tratti il verso affronta il tema totale: l’amore, accreditandolo però alle lucidità, ubbie, bagliori di una sensibilità flagrante, a costo di grigiore quotidiano, e qua e là di minuta contabilità esistenziale, centellinata nella candida e atroce partita doppia di coppia.

L’amore coniugale inaugurando il testo non è che la prima istanza femminile che risponde all’appello di una raccolta interamente declinata su questi accenti: la moglie, la madre, la mamma vermiglia. Tre accezioni fra cui non occorre rintracciare in mentite spoglie la poesia, che infatti c’è, ma a viso aperto e non chiamata a esaurire la capienza dell’immagine latente e multipla nell’opera.

Uno stilnovismo laico, terrestre, anche sincretico (non rinunciando nella crudezza a un afflato mitico e disordinante), modula l’affermazione iniziale circa la cifra della donna: in cui mai cercai casa né prato / ma sprofondo e grido, che si versa poi nella ricapitolazione delle donne andate per monossido o corda fissa /… o per malattia, incendio, pozza /ago. Una galleria di compagne autentiche e imprendibili che si riunisce poi nell’unica donna scelta dalla verità della vita, inoltrata nella nascita seconda / per la tempra e l’olio a trent’anni fatti uovo, via maestra /nuova, dove il verso, scritto all’ombra tutelare della paternità, appoggia il sigillo nuziale a brillare intatto sull’orlo di un crollo, quando l’amore pur fattosi casa e prato ritorna a un tratto sprofondo e grido aperti nello stravolto ordine domestico.

Lo spaesamento che ne consegue abita la stanza più solitaria e ammutolita del libro, quelle Poesie londinesi dove un poeta senza canto trascorre una sua attonita contumacia, scopre, in un metro disancorato, scarne lasse svogliate, la vaga uggia del luogo, il riconfigurarsi di una realtà che, oggettiva e letteraria insieme, si sdoppia ancor più nella ruminazione solitaria, quando l’abbandono chiama a raccolta i propri simboli, si rispecchia nella citazione, in un clima di quarantena e preludio, come in attesa di un ritorno: tale è la mancanza di una figura, il vuoto che lascia il dispatrio di un disamore, come uno smarrirsi delle labbra, della lingua stessa.

È probabile poi che questo capitoletto sia slittato avanti nella successione del testo, comparendovi come anticipato e già disdetto dal tenero recupero ammissorio che chiude l’Amore coniugale su un timbro di conciliazione – e così sai perché ti ho scelta –, e di riconoscimento duale, delocazione per cui leggiamo le Poesie londinesi come un souvenir, o come le poche fotografie estive da mostrare a qualcuno che non c’era, e ora, in una rinnovata pace autunnale, è con noi.

Libro in questo senso sentimentale, Le volpi gridano in giardino sin dal titolo canta sostanzialmente la passione, per quanto nevrotiche, raggelate, ruvide, irridenti ne siano le varie timbriche interne: un grido che si fa civile nei Canti partigiani, mostrando sul secondo binario della composizione, l’altra faccia della medaglia, quella che dobbiamo mettere fuori casa ogni giorno e che spesso mettono altri per noi, nella sopraffazione. A questo ramo del testo appartengono poesie come Voglio dire, vera e propria ricapitolazione di tracciati stilistici, dibattiti monologanti e dialettiche infra-testuali, dove Guglielmin mostra, in una pluralità di aperture, interessi, frequentazioni, assonanze e ripudi, l’agilità della sua ossatura critica, il fiato, la tecnica e persino l’acrobatica del mestiere dei versi; e componimenti come Incanto, che cede alla vertigine della lista il compito di un commiato sempre impossibile e sempre dovuto: farsi da parte, cedendo la parola, non solo nel senso di consegnarla a chi legge ( o a chi altri scrive), quanto di lasciarla sola, come in effetti è, nel libro.

Ed è proprio la parola a fornire con la moglie, la madre, la mamma vermiglia, la cifra essenziale della raccolta: la parola rovinata che ritorna tuttavia parola per cui si muore. La questione della poesia, nell’urgenza quanto nella querelle, nell’apnea lucida quanto nell’ispirazione, nella concentrazione solitaria come nel negoziato tra le fazioni, ritorna a farsi centrale. Nel cuore di un testo che ha mimato una pluralità di poetiche, intonandone inflessioni, torsioni, automatismi, tic, lapsus, qui pro quo, contaminazioni, fra citazioni, calembour e divertissement, fino a dichiarale tutte quante sfibrate e totalmente secolarizzate, Guglielmin apre un valico interno, ad alta quota: è la poesia Paesaggi con poeta dove quella centralità ritorna certa. La poesia infatti raduna e condensa una punta di intattezza lirica che riafferra allo stremo – pur nella prudenza di un’aspirazione condizionale (Vorrei narrare) – il crisma della perennità. È qui che questo libro, funambolico fin quasi alla slogatura, annoda il suo cavo di sicurezza agganciandolo a quello che resta il punto più inalterabile della poesia contemporanea: l’atemkristall, il cristallo di fiato di Paul Celan che in eco risuona in questi bei versi:

Vorrei narrare, scrive Guglielmin, ma con spiacere / di mamme vermiglie nel rione degli infetti … / e scrivere di te / di quando sfidi rocce e mulattiere / guardando in valle il torbido che cresce / di te, quieta, presso l’acqua dei nevai.

***

10 pensieri riguardo “Le volpi gridano in giardino”

  1. Al di là del mio affetto per Stefano, e al di là del suo spessore culturale, questo libro mi ha colpito e sorpreso. Pur avendo letto o ascoltato diverse delle poesie che lo compongono, penso che sia un lavoro estremamente vario, in cui ad esempio la prima parte, i Canti dell’amore coniugale, offre uno spaccato su un aspetto della sua personalità che non mi ricordo fosse mai emerso prima: e questa poesia “privata” si fa molto apprezzare, ed è decisamente coraggiosa. C’è poi il Guglielmin politico o sociale, e c’è il Guglielmin ironico, istrionico. Ed il modo in cui tutte queste espressività vengono declinate nell’unitarietà di un singolo libro denota la sua bravura.

    Francesco t.

  2. Grazie Francesco. Come ti dicevo via mail, credo che l’ossessione per l’unità stilistica (e, spesso, tematica) abbia più a che fare con il decoro borghese che con necessità intrinseche alla poesia. Lo si vede anche in narrativa: i romanzi del settecento preindustriale sono molto più sperimentali (e liberi di creare vie alternative al solco dominante) del grande secolo della commedia umana.

  3. A te un grazie grande Stefano, per Le volpi che gridano in giardino e per aver voluto condividere con i lettori di questo blog la mia mail. E poi un grazie a Francesco Marotta, all’ acume e alla sensibilità con cui ha scelto i testi per questo post, perché bene si dispiegano le espressività della poesia di Stefano messe in evidenza da Francesco Tomada.
    Silvia C.

  4. Si intuisce davvero che queste volpi segnano la maturità di Guglielmin, un autore ormai conclamato, che meriterebbe altre, più alte sigle editoriali (pur con tutto il rispetto e il dovuto chapeau a Lucini che sta facendo un lavoro eccezionale). Che usa la parola tutta, con perizia e passione; una parola che sa innervarsi sia del cuore, sia della testa. Cosa rara, secondo me.
    Un caro abbraccio. FF

  5. Caro Stefano,
    certo, ricordo le impressioni scambiate via mail.
    La mia idea (in generale) è questa: non esiste una regola, nel senso che io apprezzo molto sia chi riesce a definire una propria forma senza diventarne schiavo, sia chi invece è capace di utilizzare registri differenti. Se nel primo caso il rischio che percepisco è quello di fossilizzarsi e chiudersi nel proprio, senza saper cambiare prospettiva, nel secondo è invece quello di ridurre la scrittura a una prova di abilità stilistica, che è pregevole ma non è quanto io cerco nella poesia. Il tuo libro in questo senso, al di là del mi piace/non mi piace, pur essendo così eterogeneo risulta prima di tutto credibile, ed è un grande pregio.

    Francesco

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