Dietro il silenzio – Poesie di Isidro CONDORI

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Tre poesie di Isidro Condori
(Da: In Forma di Parole, Libro Terzo, Tomo II, pag. 14-43, cura, traduzione e note di Antonio Melis, Reggio Emilia, Elitropia Edizioni, 1981)

*

Saqsawma Pukara

Noqanchis,
pachat’iqraq apukunata churiaq,
illa teqse wiraqochakunaq churin
yuyaysapa mana ch’apuyuq,
mana ruida reseqseq
karu karu chipchikunata
reqsispa,

noqanchis
urpiq malqon hina chhalla,
ancha hatun koyllurkunaq wayqen
chepaqap wayqen sisikunaq nanninpi purispa
[…]

Fortezza di Sacsayhuaman

Noi,
che generammo gli dei trasformatori del mondo,
figli dei signori dell’universo
pieni di sapienza senza barba,
che la ruota non conoscemmo
ma splendori molto più lontani
intuimmo,
noi
simili alle colombe tenere e leggere,
fratelli delle stelle immense
veramente fratelli camminando sui sentieri delle formiche,
veramente uomini, in mezzo agli uomini camminando,
in anni che ancora non si oscurano
senza riposare,
in silenzio,
con mani innumerevoli
pietre colossali
portammo sulle nostre spalle,
parlandogli dolcemente
amandole,
come i nostri animali allevandole,
così fu,
questa casa di guerra,
il tronco di questa collina,
con pietre instancabili
innalzammo
costruimmo,
con queste mani innumerevoli,
senza riposare,
in silenzio
in migliaia e migliaia di anni.

Perciò adesso uomini a quattro zampe con la lana sul didietro,
trenta soles ci chiedono,
biglietti, biglietti, dicendo,
a noi, che innalzammo la fortezza,
per guardarla,
con lingue di fuoco
il nostro lavoro ci chiedono,
perché in silenzio il nostro cuore antico
la ami
il suo nome dicendo dentro alla nostra bocca.

Noi
figli e padri dei signori del mondo,
circondati,
con il divieto di sfiorare la grandezza fiorita
della fortezza di Sacsayhuaman,
da lontano soltanto la guardiamo,
la ricordiamo,
senza ragione,
maltrattati, spogliati, stracci della nostra terra
come i vecchi condor, i condor dimenticati,
trasformandoci in lontananza, ancora più lontano della morte,
nel grande mare, ancora più lontano del grande mare.

***

T’oqo

Mana kuyuspa
sikillampi,
llanthupi
paqarimuq llanthupi,
sacha sachakunapi,
qonqaylla
noqapi winanki,
yawarniypi kawasanki,
sumaq wayra.
Imay yakuni t’ika hina
huno t’ika yanan hina,
ancha hatun samaynikitataq
samani.
[…]

Finestra

Immobile
nello stesso posto,
nell’ombra
nell’ombra che si schiarisce,
in mezzo ai cespugli,
all’improvviso
in me cresci,
nel mio sangue esisti,
vento dolce.
Come fiore di migliaia di anni fa
come fiore a lutto,
il tuo immenso respiro
respiro.

Cenere, in questo istante, è la rugiada
sull’erba
dura, gelata
di Tre Croci
cenere bianca, cenere è il vento.

Le vecchie stelle
come occhi che annunciano frettolosi
la morte
come occhi di mosca azzurra
innumerevoli.

***

Yana Wayra

Iskay sonqokunaq phapallunwan
nawpa pachakunapi,
ruwarqanku
tinyata,
iskay sonqokunaq tullunmantan
nawpa pachakunapi
qenata t’oqoranku
chaywan kuskachaspa
chaynalla
nawpa pachakunapi
uturunku hina,
[…]

Vento nero

Con la pelle dei traditori
nei tempi antichi,
facevano
un tamburo,
con le ossa dei traditori
nei tempi antichi
costruivano un flauto
accompagnati
così
nei tempi antichi
come un puma,
camminarono,
facendosi la guerra,
danzando,
i nostri avi sconosciuti.

Quello stesso palpito
adesso
quella stessa canzone giustiziera,
sto forse ascoltando
calmo
in mezzo alla foschìa,
aspettando,
sto forse ascoltando,
di nuovo,
tamburi,
flauti
sto forse ascoltando.

Ma, è la notte
soltanto la notte
inginocchiata
e il vento che mi conduce
e il vento che mi porta via
nulla porta via.

***

Antonio MelisDietro il silenzio

Ci sono parole che acquistano il loro spessore dal fondo di silenzio in cui si ascoltano. Questo effetto oggi è inevitabile di fronte a un testo poetico contemporaneo scritto in quechua. Quella che i suoi parlanti chiamavano e chiamano semplicemente runasimi, cioè “lingua dell’uomo”, è sopravvissuta a quattro secoli e mezzo di distruzione. E oggi ci parla con queste poesie, tratte da una raccolta intitolata Yana wayra (Vento nero).

Questi testi ci sono pervenuti insieme a una traduzione spagnola dovuta ad Ángel Avendaño, autore di un libro importante sull’antica capitale incaica, Cuzco. Cronica de una pasión (Lima, Antarki, 1980). Da lui riprendiamo le scarne notizie su Isidro Condori. Avendaño afferma di avere ascoltato queste poesie dalla voce dello stesso Condori, un giovane di Cuzco che le cantava nella prigione dove si trovavano entrambi rinchiusi, il primo per motivi politici, il secondo come ladro di cavalli.
Questa unità tra poesia e canto ci riporta a tutta la tradizione della lirica precolombiana. Parola, musica e ancora danza, costumi impiegati nella danza, costituivano un tutto indivisibile. Anche per questo, il poco che è giunto fino a noi dell’antica letteratura quechua, al di là del problema linguistico, è un riflesso parziale di una totalità simbolica.

Non abbiamo elementi per affermare l’autenticità di questa versione o per ritenerla invece una “bella” metafora. Forse si tratta di una questione secondaria: c’è una qualità di testi che scavalca ogni problema di attribuzione e ogni difficoltà di restituzione in una lingua europea.

Nella poesia dedicata alla fortezza di Sacsayhuamán, che sorge con le sue pietre ciclopiche a poca distanza da Cuzco, la dimensione mitica diventa uno strumento di contrapposizione alla cultura dei vincitori. Alla conoscenza tecnica degli europei, si oppone una sapienza che nasce dalla penetrazione nella profondità e nella lontananza. Al sole (Inti) della religione andina subentra il sol, la moneta simbolo della reificazione. All’incanto con cui le pietre vengono “convinte” a sovrapporsi nella fortezza si sostituisce il lavoro forzato.

Il processo della conquista si manifesta anche come uno svuotamento di senso. La privazione del linguaggio investe, con l’uomo, tutto ciò che lo accompagna da vicino nella sua vita quotidiana. Così le pietre non parlano più, come non parlano gli animali. Viene in mente la narrativa di José María Arguedas, dove dominano questi elementi, tanto spesso fraintesi dai lettori in cerca di esotismo. Venne per questo considerato, a volte, un seguace attardato e un po’ patetico del veccho indigenismo. Con lui invece cominciava (e, forse, anche, finiva, almeno con quella tensione straziante), una nuova letteratura, che affrontava una sfida terribile e schiacciante: dare voce al silenzio.

Arguedas deve accettare l’inevitabile compromesso di scrivere in spagnolo, perché l’analfabetismo non permette l’esistenza di un pubblico di lettori per il quechua. Ma quando, raramente, si esprime in poesia, è allora la lingua indigena, da lui appresa nell’infanzia prima dello spagnolo, che si impone senza eccezioni. Ma nelle poesie di Isidro Condori ci sembra di rintracciare la presenza del repertorio simbolico della stessa narrativa di Arguedas. Così i vecchi condor che compaiono negli ultimi versi della prima poesia ci riportano a un motivo insistente nei romanzi e nei racconti dello scrittore peruviano. Nella seconda lirica (qui la “vecchia” parola ci sembra singolarmente appropriata), gli “occhi di mosca azzurra” richiamano non solo Arguedas, ma anche la straordinaria elegia sulla morte dell’ultimo Inca (Apu Inca Atawallpaman), che si può leggere in italiano (un italiano tratto dalla traduzione spagnola del poema, dovuta proprio ad Arguedas) nella bella antologia di Miguel León-Portilla, Il rovescio della conquista, Milano, Adelphi, 1974 (pp. 178-182). Nella terza poesia, che è poi quella che dà il titolo alla raccolta di Isidro Condori, l’evocazione di un passato mitico, scandito da ritmi significativi, approda alla soglia di un recupero illusorio del passato irrimediabilmente perduto. Resta la tensione verso il conoscere che è soprattutto conoscersi, nelle proprie radici.

Ascoltiamo queste poesie, che rompono una barriera di silenzio, come la conferma delle parole pronunciate da Arguedas nel 1968, un anno prima di suicidarsi, quando gli venne assegnato il premio “Inca Garcilaso de la Vega”:
“Ma i muri isolanti e oppressivi non spengono la luce della ragione umana soprattutto se essa ha conosciuto secoli di esercizio; non spengono, perciò, le fonti dell’amore da cui sgorga l’arte. All’interno del muro isolante e oppressivo, il popolo quechua, abbastanza arcaico e abituato a difendersi con la dissimulazione, continuava a concepire idee, a creare canti e miti. E sappiamo bene che i muri isolanti delle nazioni non sono mai completamente isolanti. Io fui gettato al di sopra di quel muro, un tempo, quando ero bambino; mi lanciarono in quella dimora dove la tenerezza è più intensa dell’odio e dove, proprio per questo, l’odio non è sconvolgente ma è un fuoco che dà slancio”.

***

8 pensieri riguardo “Dietro il silenzio – Poesie di Isidro CONDORI”

  1. Nei siti archeologici attorno Cuzco le pietre sembrano volerti parlare, raccontare la Storia e le storie di grandiose civiltà che solo loro conoscono. Sono luoghi sospesi nel tempo.
    Complimenti per ciò che scrivi e che proponi,
    Carlo

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