Le api migratori – Andrea RAOS

Lucrezio
(Tito Lucrezio Caro, De Rerum Natura)

[“Il vero miracolo in poesia, oggi, non è saper scrivere bei versi (ormai sono capaci in tanti), ma quello di imbattersi in un’opera assolutamente necessaria come questa.” – Reb Stein, da una lettera del novembre 2005.]

I cammini paralizzati

Caduto via dal vento, sorvola una città.

Ci siamo a sbattere. Si frange.
Scontra intanto che si abitua il vento al nostro esserci.
Coprirlo, non vederci, in questo andare.

    Abbiamo superato un primo passo, un primo fiume,
    continuando che passava il vento dice.
    Perché fame non restare, insinua di continuo, la città.

“E’ come un sogno che facevo da bambino”
ci diceva chi ci crea, chi già moriva:
centro commerciale visto dall’alto, centro immenso,

    di scaffali a centinaia, centinaia metri alti,
    scale l’uno contro l’altro, passerelle,
    gente tridimensionale,

merce ovunque, anche fuori
anche dentro, in sincronia,
per più colori, assorda musica.

    Sono superfici una per specie,
    sono piani intricata e di dischiusa,
    di materia

e piena, e nera, arriva in piena, sulla merce, sulla musica,
l’orda intera che spandeva espansa,
onda espande e la clientela esplode,

    si aprono a ventaglio sulla rosa a raggi sei:
    1) prodotti per la casa 2) lavatrici 3) libri e quotidiani
    4) macelleria 5) pescheria 6) ortaggi

e sono piena fuga che si squarcia indietro, all’indietro,
e che non serve, totalmente
implosa. Che si chiude a ventaglio, fa cammini paralizzati, prima,

    nella rosa da una prima, aperta
    lacerata. Sempre meno, mentre cadono,
    uno irrigidito, uno contratto, oh spasimo,

cosa chiedono, che gridano, o scemano, oh spasmo,
questa clientela annerita, bruna
del suo sangue che niente, tiene, non trattiene

    e goccia, e sgoccia. E cade. E senti intanto che svaria, come
    cade dolce alla dolcezza il suo brusìo, lo sciame
    che ne tenta ancora piano, aprire vene

e farne rivoli, ruscelli, rami –
cade corpo
e scatolame.

    Ne facevamo così poco, di quel corpo, di corpi,
    che ancora meno ne restava, ancora male.
    E’ come chi moriva, chi ci crea:

“Ancora un po’ di meno, ti prego, un poco meno male.”

***

II.                                 La favola delle api

Ma come è cominciato, che divisi?
Adesso è come sera, che mattina, cosa dicono, che buio:

Il farsi sciame delle api
è frutto di apprendimento, non è innato;
è in seguito ad evoluzione
che si è inciso nel loro patrimonio.
Sfuggite a questo processo esistono tuttora, forse ignare,
api solitarie, relitti delle ère, che non sciamano.

Noi api siamo come gli animali
che nella preistoria erano agitati,
continuare continuare.
Ne ho visti, voler attraversare il mare!
Era quando non c’era niente sulla terra
e l’ape non aveva visto il fiore.

Noi api eravamo gli animali,
ci posavamo intorno uno ad una
quando lentamente scemavano i fuochi,
non per sciami,
una per uno,
perché non esisteva sciame.

La sera imitando gli animali
dovevamo riposare e come dormire.
Ma prima, dal crepuscolo e fino a notte piena
guardavamo i fiori che di notte si chiudono,
le lucciole che a notte, nel deserto, schiudono.
Che cosa sciamano dal buio al buio, volta del cielo che è tracciata,
per finissime scie, per impalpabili.

All’alba siamo come gli animali:
non è un risveglo, è scatto
di paura per via del gelo della notte che l’oblio consuma
e richiamato dal tepore della prima luce
è gelo ricordato dal rifulgere
che l’oblio frantuma.

All’alba ci alzavamo in volo
perché alla prima luce era importante tornare a muovere le ali,
non lasciare che i corpuscoli di brina.
Era inverno, tremava, è malapena che traspare,
addosso al cielo, un disco bianco:
la notte era la luce e il sole era la luna, luce morbida, costante e
mattutina, notte piena.

All’alba gli animali il gelo il volo
e dopo e successivamente, e dopo il volo
porta dove sono gli animali,
per crolli e diafasie,
per mia miseria,
è una distesa immensa, è mille ali che sciamava, sciame.
Ma non di api.

E io non sciamo. Api era di movimento incessante,
di quelli che si riproducono per onde,
panico di fame.
E’ dove niente basta.
Ci sono ceneri che,
ali che non vogliono, non volano, perché il mondo, tremano.

E’ sempre così che urla la vita.
Urla sempre, la vita.
Così, e in questo nascere e rinascere,
in questo chiedere continuamente aiuto
che per masse, per sciame,
ciascuno dice «dico che io morirò. che sciami.»

Ma io non sciamo. E intanto che come api, come fame,
osservavamo fare massa
gli altri animali e fare sciame,
e quale sciame per nutrirsi,
dove cibo, che lentamente cominciano a cedersi
per particelle, esofagi;

intenti a chiedersi, quando
e come arriverà, che traversando a banda, come api,
la pianura che non nutre niente,
non noi soli, non di sbando,
si riempiono di cibo,
ma mai abbastanza per vincere il peso dei giorni, la noia, i secondi;

intanto che le stringhe proteiniche
si preparavano a scindersi in infinitesimo,
che nel decadere e incidersi in pareti muscolari,
che mucose, calde, esplose,
miriadi di rose che decadono,
cedono, e non noi;

ora, orma,
si frammentano sui lati, cadono,
ruotano tra i fiori
non specie, siamo due;
non siamo, niente,
fiore, forma.

E non si forma niente in questo volo,
non c’è orma, non è aria, siamo in due
quest’aria smossa
che dolcemente e piano dalle nostre ali
cade accanto, ci separa dagli altri, dallo sciame
amara, questa aria, quanto amore che ti dico ora:

«Sei il meglio che potesse capitarmi, e tu lo sai.
Eppure è di materia dolorosa
che stridono le nostre particelle.
Ripetiamocelo giorno dopo giorno
intanto che piangiamo ancora,
intenti a chiederci se mai capiterà.

Invece io di pomeriggio,
e sera e favo,
e sono già lontano
da ciò che come vento, come vena, come viene;
sognati in pieno inverno i fiori al primo tempestarsi
e schiudersi, che smeraldi, che rami;

è lì che ti ho vista aperta di striscio, di strazio.
Vita che non tiene,
che un amore contiene
e passa in sogno intanto che, volati via, noi polline
polvere ci dice: non conta niente il come,
conta soltanto starti accanto.»

Lei trema con lo stoma, tenta con le ali, poi risponde:
«Io sono arnia, amore, e sono arma.
Arma e arnia.
Arnia, arma.»

Si guardano volatili, amori
muti. Volati via.

Vibratili.

«Mio polline.»

«Molecola.»

Il tempo scorre per annunci indistinguibili
che accada infine quella cosa, una qualunque cosa,
vita dopo vita invano attesa
da ognuno in propria vita. Mai sciolte, strette bene
catene, crolli, disfasie: questo pianeta in cenere,
annuncio impercettibile di chissà che.

api_cover.jpg

***

Su Le api migratori di Andrea Raos
in Poesia da fare, n. 4, ottobre 2005

Una spinta vorrebbe puntare all’onomatopea, ma come una tensione profonda, più che mimetica, identificatoria. Ed è in questa pulsione la forza, ed è per questa natura non mimetica che la microlinguistica testuale non prende il sopravvento e lascia svolgersi trama e sviluppo, considerazione saggia e quasi a freddo, tragica, nel vero senso della parola.
L’allitterazione è elementare come elementari sono le forze in gioco. L’allitterazione s’incarica di fare da motore, molla pulsionale a lungo rattratta quanto violenta nella sua distensione cumulativa e indifferenziante: il senso si produce con la stessa velocità e la stessa devastante casualità del diffondersi delle api, veicolo e allegoria.
Come un suono di tromba apocalittica, l’ira ha però radice chimica, genetica. Una condanna alla violenza e al non riposo, alla non riflessione, alla perdita del luogo e del senso, una condanna allo snaturamento fa di questi animali-macchine microscopici Edipo sparati dalla necessità, contro un muro d’incolpevolezza e di orrore perpetrato.
Eppure la tragedia è storica, cioè: ci sono dei responsabili di cui si può fare nome e cognome, si può fare anche un documentario, come è stato fatto. Anzi la poesia può partire dal documentario perché quest’ultimo va a colpire, come l’ape snaturata e snaturante, un punto debole che scatena la catastrofe dell’immaginazione.

La fame divenuta collera’.
Lo snaturamento della fame come dell’amore, come del sonno, come della sete, è già reazione rabbiosa e perversa: tanto inconcludente quanto cieca. La fame rende ciechi. E la cecità è rabbia: non discriminazione dell’obiettivo, inusitato accanimento.

Laboratorio-madre’.
Come dire: l’attuale natura matrigna, versione contemporanea della delusione più cocente e sradicante: la cattiveria della madre, madre-terra, madre-laboratorio. La collaborazione alla creazione divina si è ridotta a manipolazione assassina quanto becera e irresponsabile. Qui l’origine del dramma: in tutti i sensi e per tutti i sensi (il sentire) a venire.

Non possono nidificare’.
Le vite che si attorcigliano, nomadi per coazione, le coazioni in generale, la traiettoria sfuggita alla gravità, il non poter mettere radice da nessuna parte, neanche potersi fermare per chiudere gli occhi, per dormire… L’insonnia che uccide ha alle spalle il tradimento originario di ciò che è naturale: l’affidarsi alla madre, sia pure ormai di secondo grado, tradizione di lingua, valore condiviso, comunità di affetti ‘radicali’, della radice.

«ma ne ho compiuto male, che ricade – ne ho toccata
nell’intimo natura, ho fatto il male.

si dibatte, tenta, mentre intanto cede
«Eppure ho scritto anch’io, lettere d’amore.

Biagio Cepollaro

9 pensieri riguardo “Le api migratori – Andrea RAOS”

  1. Versi ipnotici, densi, potenti. Non si riesce a staccare lo sguardo dalla pagina. E’ il tono che colpisce. Le paronomasie, le insistite allitterazioni, giustamente sottolineate da Biagio Cepollaro, agiscono da propulsori nei riguardi della formazione delle immagini e del senso, che miracolosamente si tiene, nonostante le forze centrifughe messe in atto tenderebbero ad annullarlo. E’ questo il segreto che rende questa poesia diversa da molte altre che leggiamo in rete. Il ritmo, connaturato al pensiero che sottende l’intera trama del libro, diventa paradigma dell’immaginazione, intesa come messa in opera di un linguaggio in perenne “migrazione”.
    Francesco, il riferimento a Lucrezio è quanto mai pertinente.

    Complimenti. N.P.

  2. E’ un libro grandissimo, Nicola, un’opera profonda e destinata a durare, con pagine di straordinaria scrittura (come, ad esempio, la parte IV, “Dialogo delle api con Marco Anneo Lucano”: un vero “miracolo”, per usare l’espressione di Reb Stein).

    Grazie per aver colto, tra le altre cose, il nesso col poema lucreziano richiamato dall’immagine. E’ una mia idea da quando, circa due anni fa, ho avuto modo di leggere per la prima volta questo lavoro: intorno ad essa sono nate una serie di note, in forma di appunti sparsi, che solo per ragioni di tempo (e di “testa”) non ho ancora avuto modo di riordinare.

    Un caro saluto.

    fm

  3. neanch’io scìo né faccio sciò (forso sarò tra i de-re-litti)
    ma a quest’ora quest’orma non mi sforna (ci gioco un po’ “La sera imitando gli animali”)
    né aria amara mi caria la scorza amore (non so se mi è piaciuto)
    ma la vicinanza di queste due “Stanze” “All’alba siamo come gli animali:” sicuramente mi ha fatto un po’ ricredere su vari pregiudizi di una prima superficiale lettura.

  4. davvero un gran libro, solo speriamo che non passi inosservato. concordo sul fatto che è una raccolta che rimarrà.

    un abbraccio

  5. Grazie a Marco e Alessandro (felice di quel che scrivi).

    Andrea, grazie a te: in questa oasi nessun/a ape, soprattutto i/le tuoi/tue, è straniero/a.

    Ti abbraccio.

    fm

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.