Diana e Atteone

Raffaella Terribile
La saletta di Diana e Atteone nel castello di Fontanellato

Dumque ibi perluitur solita Titania lympha,
ecce nepos Cadmi dilata parte laborum
per nemus ignotum non certis passibus errans
pervenit in lucum: sic illum fata ferebant.
Qui simul intravit rorantia fontibus antra,
sicut erant nudae, viso sua pectora nymphae
percussere viro, suitisque ululatibus omne
inplevere nemus circumfusaeque Dianam
corporibus texere suis; tamen altior illis
ipsa dea est collooque tenus supereminet omnes.

Ovidio, Metamorfosi, Libro III

La saletta di Diana e Atteone è il vero capolavoro della Rocca Sanvitale di Fontanellato. E’ stata realizzata sotto il Ducato di Galeazzo Sanvitale e la moglie Paola figlia di Ludovico Gonzaga marchese di Sabbioneta, nel 1523: anno che fu teatro di una serie di rinnovamenti, tra cui gli studi alchemici, e periodo in cui l’inquisizione aveva un bel da fare. L’aria di Fontanellato era già piuttosto cupa: Galeazzo era stato nominato colonnello del re di Francia, i Francesi erano appena stati cacciati dal ducato di Milano e Parma era ritornata sotto il dominio della Chiesa. Inoltre, come se non bastasse, l’ultimo figlio maschio della coppia era morto subito dopo la nascita, portando nella nobile famiglia una disperazione senza pari. Qualche mese dopo il fatto, un ventenne Parmigianino fu incaricato di affrescare una piccola stanza al piano terreno del castello, appartata, quasi nascosta e completamente priva di finestre, un luogo particolarmente misterioso, segreto. Parmigianino era giovane, ma già un professionista sicuro del fatto suo, molto richiesto e dedito all’alchimia fino alla follia, una passione tanto forte da distoglierlo dagli impegni e dalle scadenze del suo lavoro, una vera ossessione che gli fu causa di molti problemi, fino all’arresto e ai gravissimi problemi di salute che lo portarono alla morte in giovane età, un’infezione allo stomaco quasi certamente conseguenza dei numerosi esperimenti alchemici che gli riempivano morbosamente le giornate.

La saletta (4,35×3,90×3,50 m) è coperta a volta, e si chiude con 14 lunette sotto cui una cornice in legno laccato e bordato d’oro contiene una scritta in latino delle Metamorfosi di Ovidio. Gli affreschi si stendono al di sopra di questa fascia nelle lunette e nella volta. Parmigianino immagina la volta come una sorta di cripta gazebo con un pergolato sostenuto da canne tra cui spiccano dodici putti che offrono ghirlande, fiori e frutta. Tale tipo di volta non può non ricordare la camera della badessa Giovanna Piacenza, affrescata dal Correggio nel 1522, il referente più diretto di Parmigianino, tra i pochi a poter vedere il capolavoro parmense, dato che dal 1524 il convento era divenuto di clausura e quindi inaccessibile fino alla fine del Settecento. L’andamento della volta è sottolineato dall’affresco, che finge nelle vele una architettura aerea rotta da grandi occhi, attraverso i quali si intravvede il cielo, e decorata da un finto mosaico. Da qui parte un pergolato coperto di fronde arboree, che si conclude in una grande siepe ottagonale di rose, che permette di vedere un ampio squarcio di cielo. Al centro è uno specchio circolare con la scritta “Respice finem“, cioè “osserva la fine” sulla cornice lignea tonda, che richiama quella che delimita l’intera parte affrescata. Nei pennacchi della volta si muovono festosi dodici putti, alcuni alati e altri no, che recano in mano animali e frutta, si riposano oppure sono in atto di lottare o di giocare. I piedritti sono conclusi da teste di medusa in stucco, maschere enigmatiche, con capigliature composte da grovigli di serpenti.

La prima scena che il visitatore scopre, entrando, è quella che raffigura due cacciatori, che inseguono una ninfa, anch’essa con il corno da caccia ed un elegante levriero legato con una corda attorcigliata al polso sinistro. Il racconto continua nella parete destra dove si vede il giovane cacciatore Atteone, che ha sorpreso la dea Diana al bagno, insieme alle ninfe che l’accompagnano. La dea irritata lo spruzza con l’acqua e il giovane, ancora con l’arco in mano, inizia a trasformarsi in cervo. Nella parete successiva, tra due cani da caccia, un giovane è concentrato a suonare il corno, mentre Atteone, la cui trasformazione in cervo è completata, viene sbranato dai suoi stessi cani che non lo riconoscono. Sull’ultima parete è una figura femminile, circondata da cani, che si staglia su un paesaggio arrossato dal tramonto e tiene nella destra sollevata alcune spighe e nella sinistra una coppa su di un vassoio: si tratta di Paola Gonzaga, moglie del Conte Galeazzo Sanvitale, committente dell’opera. La piccola sala decorata dal Parmigianino è stata più volte studiata: vista come una sala da bagno con cui ben si sposa il tema del “bagno di Diana”, oppure legata agli interessi alchemici di Galeazzo Sanvitale, ma quella che convince di più è la teoria che la vede come un sacrario, luogo di meditazione e di preghiera per la scomparsa del piccolo figlio di Galeazzo e Paola: c’è molto di più di una semplice decorazione su quelle pareti, su quell’ambiente decorato dal Parmigianino: traspare evidente il mito narrato da Ovidio nelle “Metamorfosi” (Libro III, vv.138-253) modificato in alcuni particolari in maniera chiara e sicuramente con finalità ben precise.

Bagno, stufetta, camerino, boudoir, persino “delizia campagnola”. Il Vasari di questi affreschi non parla, anche se le sue informazioni sul Parmigianino sono di prima mano, provenendo da Gerolamo Bedoli, un buon pittore che del Parmigianino era anche parente, e che il Vasari conosceva di persona. Inoltre il Parmigianino era ben noto a Roma ed a Bologna, città dove aveva trascorso anni interi. Però il Vasari parla degli affreschi nelle cappelle di San Giovanni a Parma, che sono preesistenti di poco a quelli di Fontanellato. A pensarci, tutti questi aspetti, la collocazione pianterreno (insolita per ambienti che non fossero “di servizio”), le dimensioni ridotte, il fatto che la stanza fosse buia (la finestra attuale è stata aperta solo successivamente), la mancanza di notizie sia da parte del Vasari che da parte di altri, hanno un che di riduttivo, del tutto in contrasto non solo con la qualità degli affreschi, ma anche con l’impegno decorativo e col programma culturale che nella stanza si nota e che era certamente voluto da Galeazzo, da Paola e da chi li consigliava, fra cui è lecito supporre che ci fosse anche chi aveva consigliato la badessa Giovanna.

La leggenda di Atteone, un cacciatore che, dopo aver inavvertitamente scorto Diana mentre si rinfrescava in una pozza d’acqua, viene trasformato per punizione dalla stessa dea, protettrice della caccia, in un cervo e divorato dai suoi stessi cani è emblematica: un innocente viene colpito dalla sua stessa divinità per una colpa che non ha commesso volontariamente, perché è il destino che lo porta verso la sua tragica fine, spettatore ignaro di ciò che occhio umano non può vedere. Vi si trova anche questa scritta:

AD DIANAM / DIC DEA SI MISERUM SORS HUC
ACTEONA DUXIT A TE CUR CANIBUS / TRADITUR ESCA SUIS /
NON NISI MORTALES ALIQUO / PRO CRIMINE PENAS
FERRE LICET: TALIS NEC DECET IRA / DEAS.

“A Diana. Dì, o dea, perché, se è la sorte che ha condotto qui il misero Atteone, egli è dato da te in pasto ai suoi cani? Non per altro che per una colpa è lecito che i mortali subiscano una pena: un’ira tale non si addice alle dee”

Nel 1983 Ute Davitt-Asmus, una studiosa tedesca, pubblicava un saggio in cui presentava un documento da lei ritrovato nell’Archivio di Stato di Parma, e datato “4 settembre 1523”: è il documento di battesimo di un figlio di Galeazzo e di Paola di cui non si ha più alcuna notizia nell’archivio di famiglia: la supposizione che sia morto poco tempo dopo la nascita è la più naturale. Difatti, la collana di granati e le ciliegie sono simboli di morte precoce. E la scritta di protesta verso la dea crudele, Atteone-cervo che mansueto si abbandona ai suoi cani, e il respice finem diventano il segno di un dolore recente e vissuto come ingiusto. Anche la metamorfosi della ninfa in Atteone si può capire in questo senso: la ninfa di Diana che nella sofferenza diviene Atteone. Per Pietro Citati la donna rappresentata con la spiga ed il cantaro potrebbe identificarsi, oltre che con Paola, con Demetra, la dea delle messi e dei campi, a cui viene sottratta la figlia Proserpina, un esempio di maternità ferita.

E’ la metafora della vita a mostrarsi: gli uomini vengono puniti spesso senza una ragione, non perché siano buoni o cattivi, ma perché quello è il loro fato. La metamorfosi di Ovidio ci dà una vera e propria lezione di vita… Perché a volte ci accade qualcosa di brutto, come una punizione, senza aver commesso colpa? Perché Dio si dimostrerebbe così crudele con noi? La risposta può essere solo una: perché così è stato deciso fin dalla nostra nascita.

Paola, moglie di Goffredo, si sarà sicuramente fatta la stessa domanda “Perché è morto mio figlio senza che abbiamo commesso alcun male?”. “Che colpa può avere un bambino appena nato?”. E’ il destino ad entrare in gioco, non seleziona belli o brutti, stupidi o dotti, forti o deboli, ma sceglie solo chi vuole scegliere. Vi è anche un particolare interessante: Atteone nel mito classico è un uomo, ma nella stanza viene raffigurato come una donna dilaniata dal suo stesso cane (identificato con una conchiglia nel collare) come a mostrare che colui che faceva parte di lei, le ha dilaniato il cuore. La donna è dunque Paola. La conchiglia oltre ad essere il simbolo di maternità (la perla nella conchiglia, la vita nell’utero) e di resurrezione (la perla nella conchiglia, come l’anima nel corpo, nel sarcofago) rappresenta il tempo da dedicare alla riflessione sulla natura dei sentimenti corporei, morali, etici e spirituali; è il simbolo dell’introversione mentale e di temperamento spirituale. E’ anche l’emblema dell’illuminazione, della mente nobilitata, di chi sa come deve procedere. In alchimia sottolinea il valore iniziatico. Diana era anche dea del parto e della maternità e aveva lo stesso potere di Apollo (Diana luna e Apollo sole), ovvero quello di provocare morti improvvise. Il figlio di Paola viene colpito da Diana proprio come Atteone viene colpito ingiustamente dalla sua protettrice. Forse allegoria dello stesso Gesù, che morì senza colpa alcuna ma solo per soddisfare un misterioso disegno divino. Ecco così che, per identità di tragico destino (una pena sofferta senza colpa), la mano di Parmigianino trasforma il cacciatore Atteone in una cacciatrice.

Di fronte all’immagine di Diana, con la luna crescente sul capo, sulla parete opposta Cerere osserva silenziosa il tragico e ineluttabile destino di Atteone. Nelle mani tiene due spighe di grano, di cui una spezzata: ancora una volta l’immagine evoca la madre, Paola Gonzaga, e le spighe potrebbero simboleggiare i due figli. Sulla parete accanto, a pendant con la coppia di putti sulla parete di fronte, i due bambini – in forma anch’essi di putti alati – si stringono, la bambina più grande sembra coccolare il fratellino morto. Il piccolo porta al collo una collanina di perle e corallo: quest’ultimo è da sempre associato a significati esoterici, come amuleto protettivo ma anche per il suo colore rosso simbolo di vita e di generazione. Le sue caratteristiche morfologiche lo resero sin dall’Antichità e per tutto il Medioevo e Rinascimento una protezione tradizionale contro il fulmine e il pericolo di morte improvvisa, specialmente degli infanti, ragione per cui ai bambini appena nati si faceva indossare un pendente di rametto di corallo (si veda, a titolo d’esempio, la celebre “Madonna di Senigallia” di Piero della Francesca). Corallo e perla si alternano sulla collanina: vita, morte prematura e rinascita come metamorfosi di un’esistenza percepita prima con i sensi, nel chiarore del giorno, e poi ricercata nelle tenebre di una stanza dipinta, dove la luce del sole non entra ad illuminare i sofisticati passaggi di una preghiera laica, perché nessuna madre si rassegna a una perdita assoluta. Nel fregio superiore, infatti, una schiera di putti tiene fra le mani le melograne, simbolo ancestrale di rinascita, promessa di un incontro tra madre e figlio in una dimensione “altra”. Ecco così che il monito “Respice finem” riportato sulla cornice dello specchio rotondo posto al centro della volta sta a chiosare in maniera puntuale il messaggio finale della complessa iconografia della stanza.

Un’autentica stanza alchemica, dunque. Anche Galeazzo come il Parmigianino era dedito all’alchimia (nel Castello di Fontanellato era stata predisposta appositamente la “Camera alchemica”), e probabilmente l’elaborazione di questi temi è stata frutto di due menti, che hanno ben pensato di “trasformare” (la metamorfosi era il tema dominante dell’alchimia, dato che il principale obiettivo era trasformare il piombo in oro) l’anima mortale del figlio in anima immortale. Attraverso l’arte si tentava alchemicamente di far rivivere il figlio, sensazione avvertibile entrando in questa piccola stanza funeraria.

***

7 pensieri riguardo “Diana e Atteone”

  1. Raffaella porta – con scrittura che penetra l’essenza delle cose e sempre alla ricerca di peculiarità sovrapposte – i nostri occhi in luoghi dove non potrebbero arrivare senza le sue conoscenze da entomologa d’arte. Praz l’avrebbe condotta nella sua “Casa della vita”.

    Elio

  2. Pingback: Diana e Atteone
  3. studio iconologico di grande suggestione. il manierismo in pittura, il parmigianino in particolare, sono interpreti perfetti del fascino che emana dalle metamorfosi di ovidio, l’opera “pagana” forse più sfruttata nelle arti figurative. è la pittura a farsi poesia, invertendo l’ordine gerarchico classico. e le parole di raffaella terribile, che scavano negli aspetti simbolici, si vestono anch’esse di fascino. un nome e un cognome parlantissimi!
    complimenti!

  4. Non si sfugge alla complessità di quest’arte, Raffaella indica direzioni e suggestioni dentro un labirinto di significati e reazioni “chimiche”. C’è come una antropologia del gesto che posa sui muri non soltanto pigmenti e intenzioni. A me queste scene, un po’ per l’espressione dei visi un po’ per le movenze date alle figure, fanno venire in mente una specie di “bordello panico”, qualcosa che forse aveva a che fare più con l’autore che con il committente o la stessa Diana evocata. Il luogo della meditazione del resto si addice alla sensualità e a tutto il resto.
    In epoca di vuoto pneumatico di volontà e di scavo formale, si rimane quasi increduli di fronte al “metodo” concepito da Raffaella.

    Elio

  5. un umillimo dono per questo bel testo

    “ateone mutato in cervo da diana”*

    e mise ‘l corpo vago là di cosa
    la lettra possa non l’erróre errare
    ma d’éssa ‘l suono o d’i süoi no ‘l fare
    vocali: vóci d’ali cóm che posa,

    senz’altro, l’esser senza d’ésse, chiosa
    succinta – spoglia! pórre singolare
    d’i plúrimi l’ipòtesi ‘n levare,
    la vesti: nuda, la paróla, ascósa

    incògnita ne sbrana – nebulósa
    radice ‘ brani a brani: sradicare
    l’a, néra a ché? fininfinito ‘l dare

    principj, quello, fu la vóce? n’osa
    mutar la muta ‘l cieco fórse fato?
    per dóve ‘l dóve la figura a lato?

    *Atteone: Ovidio, Metamorfosi III 138-252.

  6. molto apprezzata la visione della saletta e i suoi affreschi…in particolare la grazia del viso di Diana, contrapposta alla muscolatura un pò grossolana delle braccia che denota, penso, l’uso dell’arco durante le escursioni di caccia…
    ci tenevo a sottolineare che gli uomini in quell’epoca erano rappresentati come Adoni, avevano forme quasi più aggraziate rispetto a quelle femminili (pensavo a Narciso).

    un saluto
    c.

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