Il libro dei doni – Capitolo III, 2

Poesie sono anche doni.
Doni per le creature attente.
Doni carichi di destino.

(fm)

Dome BULFARO   Liliana ZINETTI
Chiara DE LUCA   Enrico CERQUIGLINI   Luigi PINGITORE
Stefano GUGLIELMIN   Christian SINICCO

 

Il libro dei doni – Capitolo III, 2

 

Dome BULFARO
[da: Ossa e carne, 2007]

 

Da albero regredisco a forma, cerchio
otto morula braccialetto curva
a coniugare essi con io e io sono essi
sono l’umanità tornio per vasi
sanguigni, per ventitré dita visi
scuciti e ricuciti nel mio viso
conduci il cuore del tuo indice al primo
bacio col mio indice dai tuorlo e luce
alla caverna, allo scambio con l’embrione
col feto che si forma in un cucchiaio
d’acqua piega le sue dita a forchetta
e se sguscio maschio affilo la lama
e se sguscio femmina m’accoltello
al pube e ogni mese apro la ferita
imbratto lo stomaco di analgesici
torno alla scoperta del compimento
per riorbitare biglia stabilire
quale fra nasini becchi o proboscidi
è l’innesto naturale che sente
la mano: ceppo con rami recisi
da millenni e i polpastrelli: sezioni
in cui puoi contare tutte le vite
passate per incontrare te stesso

 

Se lasci eredità cariate al rientro
ritrovi in dote figli marci il puzzo
quando mi parli non puoi immaginare
quanto vento può nascere da un battito
quanto il dispetto snoccioli pazienza
nella bambina le smussi il sorriso
l’abbia resa ferri nelle caviglie
donnacapra con pelo e teste in fiamme
adolescente ribelle infilzata
tra le orecchie di suo padre: quel noioso
che si morde la coda con sbadigli
quel pavone che non stormisce
se il vento lo strattona: quando un uomo
parla tutto l’albero parla agisce
nel nome di ogni foglia unisce origini
nella punta dell’indice o separa
l’indice in due lame; quando un uomo
stabilisce un record mondiale o uccide
io mi sento in parte atleta e omicida
colpevole anch’io come gli altri di esserci
persi nel labirinto dell’impronta
di aver creduto che il corpo fosse una
prigione e non il bozzolo del cielo

 

Io non so nulla di poesia ascolto il polso con l’orecchio
e trascrivo sulla carta ciò che ogni rivolo mi detta
passo ore annodando asole nel vuoto brevi ricordi
che non vuoi dimenticare come quando nostra madre
ci insapona con le papere in una vasca di sangue
fraterno, o nel loro letto per contagiarci l’amore

 

So che un fratello può estendersi su me o riflettere
mediare fra noi come il legamento di radio e ulna
al punto che l’inciso nei palmi può rimarginare
ribaltarsi da supino a pugno riscoprire come
il taglio lama dei nostri polsi non porta alla fine
ma ci annega nel lavacro dello stesso barlume

 

**********

 

Liliana ZINETTI
[da: L’ultima neve, 2007]

 

         A che fine vogliamo musiche
         se non c’è niente da cantare.

           Josè Hierro

Resta ancora qualcosa
da spendere nella sera
qualche parola nell’aria
come petali leggeri di mandorli
nel vento, a dire la pena
di una vita sprecata
negli intendimenti distorti,
in parole come sassi
per un lieve corrugarsi e chiudersi d’acque
e poi il silenzio
questo spazio nevoso dell’anima.
E guardo i tetti bui distesi nell’ombra
come i miei pensieri, gocce
dalle gronde erose le parole
a nominare il sonno
la cenere sui colori
infradiciati dalla pioggia
il passaggio alto delle nuvole
                            questo vivere infranti.

 

*

 

         Esiste o no
         il sogno che smarrii
         prima dell’alba?

           J.L. Borges

Quando viene il giorno
e la luce è sull’orlo dei tetti
l’aria ovunque e i petali dei fiori
cerco il sogno smarrito all’alba.
Vero, più di ogni cosa pensata vera.
Di questo mattino che galleggia
bianco.
Dei viali dove vanno gli uomini
e le foglie e il vento.
Ricevo una lettera mai spedita
senza traccia del mittente.
Anche oggi accade il niente.
Senti
della pioggia la malinconia sugli orti
gli orli sfrangiati della luce
che cominciano il sonno.
Creature alate sul fiume
(angeli inaccessibili?)
e la luna, memoria
di impenetrabili colori.
Ascolta
       verrà nel sogno il verso che non trovi.

 

*

 

         per un quadro
         di Georgia O’ Keeffe

In questo scavare
il fondo erboso del vento
le mani ai cancelli schiusi della notte
in un mattino d’acqua
sguardo sulle fronde tormentate
nella malinconia di una sera
senza suono di passi
qualcuno chiude piano una porta
nella pioggia che ruscella
dalle gronde dei tetti ammutoliti
periferia, taglio di confine, lacerato cielo
si rivela il cuore nero della rosa.
Non parlare, bellezza sfatta, presagio
di un’ultima sillaba screpolata sulle labbra
petalo riarso – non parlare – silenzio
dell’ultimo ritorno.

 

*

 

Tutto era stato scritto
per noi che conosciamo
l’azzurro indicibile sulla foglia,
il riverbero di intatte nevi.
Vortice d’astri e polvere, alfabeto celeste.
Abbiamo guardato
fino a straziare gli occhi.
Gli alberi erano neri e freddi.
Le finestre avevano gli occhi chiusi.
Ci deve essere una logica nella pioggia
nel volo della foglia. Questo luogo
della morte che ci abita, ci sottrae.
Le porte pensate sui muri
aperte alla luce delle stelle, a corridoi
ampi di luna. Era questo,
e un paesaggio che rinasceva ai colori.
Era plasmare il mondo, una devozione
terribile alla vita. Alfabeto estremo,
vena d’acqua nella roccia.
Questa la strada
nel buio che è di tutti e di nessuno,
questo il nostro giorno.
Le nebbie inamovibili e cieche ai cancelli.
“Abbiamo confuso le sillabe
               – niente rimarrà scritto, niente”.

 

*

 

A volte, quando la luce è più nuda
pare di sentire l’impercettibile
scricchiolare del cielo.
L’incertezza di un uscio
fugacemente socchiuso, quel chiaro
dell’aria che trema
Così disarmati a una parvenza
d’eterno. Alla frontiera di noi.
Indecifrati e franti.

 

**********

 

Chiara DE LUCA
[da: I grani del buio, 2007]

 

È un campo ferito la storia di ciascuno
sentieri infiniti si aprono ai confini
selci sono pietre miliari di domande
sabbia morbida ad accogliere le orme,
in un proliferare dissennato di stagioni.
Puoi entrare di tallone, o più leggero
lasciando tra le dita scivolare i grani,
di piatto calpestare l’erba o consentire
che disteso a croce ridisegni il tuo profilo,
strappare vorace frutti acerbi o avere cura
di arbusti che crescano in tronchi da scalare…
Lei sulla sua terra incoronò un assoluto
sovrano conferendogli potere,
di vita, di morte,
o di capire.

 

*

 

I grani del buio sono mille
occhi chiusi che prolungano
la mente ad osservarsi nel tramonto.
Ci salvano le scene della fine
sotto lo spergiuro delle assenze,
odi si cibano d’attese
allo scongiurarsi dei ritorni.
Volute di giorni circoscritti
nell’andirivieni delle notti,
ascoltale piangersi di gocce
mani di cielo sparse in palmi
sui vetri a disegnare polpastrelli
nell’immaginazione di bambini,
quando si spuntava come fiori
da sotto le coperte a festeggiare
l’insolvenza del male il capolino
d’un raggio tra le assi lievemente
discoste degli infissi alla finestra,

e per disattenzione un ventre d’ala.

 

*

 

Snocciolo
come un rosario le nocche,
li vedi i sentieri che abbiamo
lasciato la ghiaia che scricchiola
sotto la pelle tornata
insensibile al taglio
profondo dei giorni.
Fasci di canne ingrossate
sembrano aver prosciugato
il vanto guerriero del fiume.
Blocchiamo le zampe sottili
in corsa d’un lampo e due anni
d’acciaio in ostacoli
ci hanno spezzato i ginocchi.
Il tuo nome è un prisma infinito
riverbera sillabe che ricombino
a chiamarti, e ogni cosa.

 

*

 

Ci fascia a fiotti l’aria del mattino
mentre estenua l’eco e insiste voci
gravide di buio a ripercorrere
il cerchio delle notti abbandonate
con le mani stolte ad intrecciarsi
piantando nella carne la speranza.
Si è aperta in qualche modo la stagione
dal catenaccio lento dell’inverno
che non ha irretito le ali in cerca
non ha fatto ghiaccio da spaccare.

 

*

 

Contesa tra salute ed ossessione
procedo sollevata verso il varco
che a sera conduce nella terra
dove rifugiati i desideri
danzano sul filo delle regole
su cui ho costretto i piedi
al tuo comando.
Più facile centrarmi in traiettoria
rettilinea come il non sapersi
– ma ho rubato gli occhi
d’un passero in paura
fermi nello scatto appena prima
del volo per spiccare la salita -.
Intercetto i passi del ritorno
nel vano vorticare di derive
si fondono le ali per protervia
gettandosi in ciò che più somiglia
al sole: l’incendio d’un abbraccio
per sfida dimentico d’inverno.

 

**********

 

Enrico CERQUIGLINI
[da: Vendette azteche, 1994]

 

Ti accompagnano sordi rumori
per questi giorni nutriti di noia
lasciati fluire, lenti, nel sonno
che solo può darti requie e placare
quel senso di smarrimento frequente
che percorre, nel gelido tremore,
le distese del corpo
fino alla mente che tende, stanca,
a spandere le parole d’un tempo
nel vento del rimpianto.
Ti soffermi, allo specchio, sul volto:
nuove forme disegnano le ombre;
nuovi colori scoprono le ciglia.

 

L’immagine s’invortica, si scioglie,
decompone l’idea e sfalda la posa
nell’attimo, percepibile appena,
che la forma incrina il sorriso.
Distogli lo sguardo. Nel muro bianco
ritrovi senza tela la cornice
che chiuse altre vite;
altre vite sommerse nel disegno
scuro della spazzola che libera
dai granuli di fango.
Ne cogli le antiche crepe nere,
pendule tele di ragni, amati
nel tentativo di sentirti viva.

 

Si fondono gli oggetti nel quadro,
si ordinano, si muovono, leggi
nuove compongono nuove armonie …
Solo un istante … un sogno svanito,
uno scherzo degli occhi stancati
da troppa luce restata nel vuoto.
Cerchi echi lontani,
ritrovi solo cenere, residuo
d’un fuoco morto nell’azzurro canto
di pescatori scalzi.
Il silenzio che fermenta nei muri
ti impregna le vesti e ti seduce
creando cumuli astratti di voci.

 

Voci che ti dicono, silenziose,
le parole che vorresti sentire,
poi negano e ridono con e di te
lasciandoti sola in mezzo al guado
di un fiume che trasporta la montagna
minacciando la quiete precaria
di corpi senza seme.
Riscaldi il caffè sperando un sollievo,
una spinta per rompere la calma
che plasma ogni gesto
fino a fermare le ruote segrete
che muovono la massa di materia
disposta in circoli senza storia.

 

Apri le porte alla notte e taci;
nel buio trovi la forza di uscire,
stregata dallo stellato di giugno,
di guardare le sagome informi
di cose che fuggiresti nel giorno,
fiutando non so che strani imbrogli.
Tutto per un po’ tace.
Ma l’agguato è lì; nella consueta
frattura tra cose e schermo di luce
che produce la scelta
tra ciò che è e ciò che danza nel fuoco
senza mai bruciare (neppure in sé);
essiccando ogni stilla di sangue.

 

**********

 

Luigi PINGITORE
[da: Perché la visione non si racconta, 2005]

 

STANZA 504

Da queste rive che ti sgombrano
la mente, l’affollamento di corridoi precipita
per proporzioni che non è possibile toccare

È fogliame che si deposita sugli argini
delle tempie, nel chiostro del Bramante costruito
come inno d’incenso, l’ara pelvica per l’affronto

Omaggio alla donna che ti saluta e si salva
è un non-rivedersi mai più per queste tende troppo
viola e sotto queste cupole dove l’orologio

riflette le cifre digitali, l’ora degli addii.

 

*

 

È un fiume il giorno
Sacro l’arrotarsi della luce alla mola del midollo,
al consunto tacco nella ghiaia.
Per questa superficie di lingua troppo alto il
desiderio che inceppa l’occhio
E allora guardiamo
È un silenzio che plagia la visione;
Alle sette del mattino mi ripeti il tuo “doveandiamo?”
Sentendo l’ampiezza della vela sull’acqua
che picchietta le tempie
(sentendo)
lo scalpiccio della conchiglia mentre iscrive il vangelo
della creazione.
È dove i muri si piegano e lei
Gira l’occhio nella scarpa e prova
La sua voce colma di rabbia
(e come puoi non sentire?)
Abbracciando la pena del padre
La mente si fa distico di scale e sontuosi
Gradini al vento che ricomincia,
Sussidio elementare di polvere,
Sfere di tenerezza per portarci in sostanze
e sbatterci la testa
(testa vuota di fame)
Ripeti con me il passo che ti agita
La luce sfuria e si dimentica e
La rabbia è solo rage
Against
The machine

 

[da: Resta, 2007, inedito]

E’ una gabbia dove morde il mare dei pontili
sulle attese che dal sale si fanno gioia di
bocche aperte, lo spalancato pensiero
sessuale sfiata nei dorsi e tra le
pinne, come corsa su ciottoli
levigati al saldo della parola luce.

E questa cecità di vizio, di sentirti
possedere o tornare, chiusa dell’interstizio
che sigilla la mano sul membro, ricciuta
tentazione di franare nell’afa delle gambe.

Incontenibile il vascello ha le stive del
cranio, l’ampiezza della comprensione
per le volute del giorno. Nulla può
questa gerla di grazie, di archetti che
sciabolano il vento in distici di do,
nel pensiero quasi schivo di entrare
come fiume di melma negli uteri privilegiati,

e farsi strada a spallate di
bocche che ridono, e scuotere l’aprile
crepuscolare, scuotere
il tuffo dai terrazzi tufacei, per la musica
sensuale della pelle glabra che si apre.

 

**********

 

Stefano GUGLIELMIN
[da: La distanza immedicata, 2006]

 

1

mia cima e nodo blando mio futuro
già stato
non sapere nulla e cominciare tuttavia
insabbiando il corpo in questa melma
che fa grave l’amore e in te lo eterna
diluvio
che sforma laura che la sfalda in tanto vuoto
e nessuna vita d’avanzo nessun cielo
se non questa città tutta tosse e vecchie ragazze
mutilate
il solido fiume e il ponte da dove sbucano
affondando

 

2

fedele al tuo ordine scosceso
piovi
sul capo degli insonni
ma non vedi niente
se non piccole febbri e festa se puoi
con l’animale tuo amore tutto schiacciato
nel ventre
in pericolo come acrobazia o mare che batte
solido perché muore

 

3

rilasci il tuo bene
liberandolo
finché muove amore
ma poi al solito chiedi pausa
persa nell’atto di imparare
con noi cristi in marcia e poveri
in ogni tasca a vedere l’orto
che si sfalda e la siepe l’erba e il melo
nera tutta e magra di cose vere e chiusa
alla fame d’uscire sola se resta il peso
l’esatto del corpo senza mondo e poco giro
d’aria intorno poco respiro

 

4

in ogni verbo dove girano mano
e piede s’accampa una pietra
dura come la donna che si chiama
laura ma anche l’acqua l’olio o cavarsi
il seme ogni cosa in montagna
sfianca però poi rinasce stalla
lume latte da versare
colmo
proprio nel petto della vita
cieca a quella fretta che chiami giorno
e chiami notte e padre ed ogni altra
corsa fatta per noi
che caliamo a picco nella stessa storia
saldi al ramo che butta senza pensiero
senza paura

 

5

tutto nella singola fragranza
l’albero l’alba la chiara d’uovo
anche l’ombra se vuoi anche la buca
sfinita
da dove dico bocca prato dico salva
la via dei canti
salva la notte e il mondo
per natura mobile e culla in fondo e velo
una carezza distesa in ogni più piccola voce
come la foglia che s’invola
ultima nel saluto di novembre e così sull’acqua
il sughero o la fanciulla morta o la bella che nuota
che va
su ogni cosa che resta

 

6

come da celeste bocca una parola
che s’involi al caglio degli uomini
è il pigolìo d’anime in ribalta
quando lei liquida sbraccia
e crespa
tira a sé i suoni / lontra
che s’intuba nel torbido notturno
per ingollare polpa in pace

 

7

solo corpo che formicola giù
non lo spiffero o l’angelo ma il becco
a picco verso il suolo l’aprirsi tuttavia
d’ogni tempo il suo farsi frutto
insieme sciabola e loto meraviglia
per come s’accorci l’angolo per come
si muova l’orlo dove posa l’occhio
e niente pensiero solo trame tante cose
rapide nel volo l’intero mondo leso
l’intera specie e ogni luogo sulla pelle
come capro esposto o fàntolo neonato
solo nel sacco / perduto

 

**********

 

Christian SINICCO
[da: Ingegneria dei materiali, 2006]

 

L’impossibilità è possibilità verticale che fa gli uomini
sbocciando sul muro. La pioggia cade sulle loro labbra,
quindi a terra. Quando un uomo muore rimane il solco
di una radice, per un po’ la fragranza.

 

*

 


Ci sono attimi come perderti
dove sei e dove hai chiuso, ma quale ansia
hanno truccato sulle labbra e quale carta hai scelto?
Dove le strade sarebbero state non guardasti

la pioggia,
quale fosse il giorno, la goccia
dove questa convulsa e luminosa corsa allunga
dove sfogli la pagina, soffiando

come in uno specchio, sopra i detriti
camminando nelle pozzanghere, qualsiasi fango sbricioli
e chiunque non abbia mai pensato
sui vetri opachi…

I segni non cancellano,
il materiale le cui infrante labbra appoggi non è tuo,
l’hanno truccato. La storia, i battiti
elettrizzano l’aria, la gravità

sostituita con qualsiasi cosa. E quale carta hai scelto?
Questa, il braccio che le conficcasti, è un cuore.
Qualcosa di forte
si ferma,

continua a piovere dove sei, continua a piovere.
Sapremo mai cosa c’è oltre
dove non sei più invisibile
di ciò che stringi?

 

*

 

Per quali geometrie
come maschere dell’oceano sopra l’oceano, sospesi
in questi dove, sopra questi perché essere qui
rincasate? E’ un attimo

il tempo, i gradini
il vento di novembre li strappa. Infine
con lo sguardo di ciò che è dietro l’aria,
il vero e il falso annullano, le pareti accanto

i nostri no staccano dalla bocca
e ci sono colonne che portano i segni di questa marea
costruite di là da campi, ogni sera
nella cucina, seppellite assieme a una sigaretta.

Tra gli abiti stesi, risalendo
i palazzi, i silenzi, il signore morente con piante alla finestra
di fronte pare quasi quel ritratto, e a battere
sono i martelli del suo carattere

ma questo non battere più
incudini di ingranaggi si inabissa
come a portarci negli uomini, a riempire di materiale
mancanze che non si possono riempire.

Nella nostra immaginaria devozione
un programma, lo stesso di ieri e la ripetizione,
questo sarà un sogno e tutti questi potrebbe
oltre ogni accensione, dispositivo –

e l’erba di un giardino, la crescita ad ogni rassegnazione,
dentro casa non avrebbe potuto più rassicurare
e il nome, con un cancro allo stomaco,
fu prima la libertà senza gli specchi

nel dimenticare, farsi città e germoglio.
Ma come sottrarre alla menzogna?
Come dimenticarsi in questa costruzione
il dolore, le finalità, il non sapere

il nostro amore? I tavoli sono rovesciati, i punto
rappresentazioni di infinito, le aperture
l’eco di sentirvi questa periferia
e questa instancabile sconfitta non è altro

che la nudità.

 

*

 

Questa stanza senza più ricordi, e il sangue sopra i tetti.
Forse hai seguito la sua cronaca,
i mattoni esplodere sulle abitazioni, i volontari
e a centinaia l’alternarsi… Il cane abbaia,

ma la confidenza è rossa; ieri
respiravamo senza aprire labbra al non ancora, lanciato
in avanti… Nei corridoi
pieghe di materia difficile da lavare, petali forati

e lettere dall’invisibile, volti,
pezzi della tua infanzia… I graffiti? Una teoria, la nostra
prima di flettere, con i passi
sulle pareti recidere il ventre

– dove slacciano gli organi, anche le definizioni percuotono
noi, sigillati al muro, emozione o vuoto,
esplorazione senza fine, occhi
chiusi. Questa stanza senza più ricordi

e alle sue finestre una corda: tirala,
le piogge allagheranno piano le lenzuola, i palazzi
inclinano già, annegano con paura… L’umanità, il domino?
Le sonorità che non sai

e non puoi tornare com’eri perché
l’architettura non sarà il riflesso dell’inevitabile,
perché se si aprissero le case e lo spazio fosse la nostra capriola
vedresti la profondità. I chilometri del nero

dall’altra parte della strada tra le stelle
hanno grida? Un padre
bestemmia ai suoi figli
al piano di sopra: le grida

le hanno strappate ai silenzi,
abbattute le porte.

11 pensieri riguardo “Il libro dei doni – Capitolo III, 2”

  1. Non voglio ripetermi ma grazie per quest’altro dono. Stai facendo una tua antologia davvero degnissima: che peccato che i grandi editori certe cose non le vedono, non vogliono o non possono. Vebbè, ormai non ci si stupisce più di nulla…
    Grazie!

    Un caro saluto

  2. Ho trovato una certa armonia in tutti questi versi, di autori comunque diversi, che mi son permesso, perdonatemi, di farne una vostra poesia:

    Quanto vento può nascere da un battito
    che solo può darti requie e placare
    come petali leggeri di mandorli
    gradini al vento che ricomincia
    lasciando tra le dita scivolare i grani
    in ogni tasca a vedere l’orto.

    saluti, abele Longo

  3. Grazie a tutti: autori e ospiti di questo blog.

    E un grazie di cuore a tutti i lettori, che passano e si portano via una pagina, un testo, un verso: ospiti insostituibili, i veri “padroni” della dimora.

    fm

  4. leggendo questa antologia in progress di marotta, e il commento di abele longo qui su, m’è venuto in mente che sarebbe bello pubblicarla a stampa senza i nomi degli autori. una grande antologia anonima, con solo il nome del curatore. così gli autori fanno anche dono del nome. uno degli aspetti più salienti di questa raccolta di marotta è infatti il dialogo instaurato tra le voci, sono le rispondenze, anche sorprendenti. solo dopo un lungo ascolto si può inventare un mantello così per lo “spirito dei tempi”.

    lorenzo

  5. Questi “doni”mi piacciono molto. Leggendo insieme i testi- con i dovuti”distinguo” -si respira un’aura,un clima, un connettivo che li pone tutti in sintonia l’uno con l’altro.
    Ottima scelta, ottima idea, ottime poesie
    Grazie di questi preziosi doni (che non hanno prezzo).
    E complimenti agli autori e a Francesco
    lucetta (frisa)

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