Juif errant

Marco Ercolani

 

Juif errant

1943. Scritta a Genica Athanasiou durante le prove del Juif errant. Artaud, delirante, non recitò la sera della prima.

Genica,
con il Juif errant va malissimo. Sono talmente scoraggiato che non faccio più niente. Recito con un’assenza profonda. Per la prima volta mi rimproverano di essere inerte. Eppure non lo faccio apposta. La mia potenza di espansione si è bruscamente afflosciata. E poi, il regista è di una grossolanità odiosa.
La tua ultima lettera è stata terribile. Perché insisti a giudicarmi? Perché ti aspetti da me delle risposte normali e ripugnanti, degne di un attore da Comédie Française? I miei nervi, Genica, sono di marmo. La mia anima è di pietra. Non sono più neppure ciò che mi illudevo di essere – grido rauco sparso nell’aria. La mia malattia – mi sorprendo a chiamarla psichica – si diffonde nel corpo con una rigidità che solo certi veleni orientali sanno provocare. Le parole sembrano inutili prigioni, ossa che non trattengono il soffio del corpo. Ricordi la cascata di Nantes? Tu amavi la sua parete di schiuma, bianchissima; io, invece, ero tutte le sue gocce, nel loro ininterrotto e violento dissolversi, nel loro inutile brulicare, rincorrersi, ricrearsi…
Esco da me, dove continuo a morire, con parole che per un attimo mi fermano, mi consegnano al bianco del foglio che leggi, all’orecchio con il quale mi ascolti. Ma dura solo un lampo – pochi secondi. Dopo, divento subito dolore. Dolore inspiegabile e assoluto, perfettamente disperato. Io non so bruciare lentamente. Questa strategia mi è ignota. Anche quando interpretai Marat, vissi l’attimo della mia morte come se dopo quell’attimo non esistesse più nulla e i miei occhi non potessero più aprirsi. Amo fare l’attore, come lo ami tu. Mi serve, il teatro – lì, nella platea, ci sono complici che credono al sogno che rappresento. Il momento è sacro, senza equivoci.
Io sono calmo, Genica. Sono sempre calmo quando comincio a parlarti. Ma la solidità mi tortura. Tutto è di pietra, i gesti e i pensieri, tu stessa. Altro che Ebreo errante! I viaggi sono finiti da un pezzo. Questo foglio, dove scrivo, è pietra. Racchiude in sé quanto vuole uscire da me, svuotandomi. Le parole sono oggetti solidi, indissolubili, minacciosi, agghiaccianti. Se potessi vedere solo la loro ombra! Invidio Hugo, che disegnò mari spettrali per distruggere la sua monumentale scrittura. Invidio Nerval e la corda che lo sollevò sopra questo suolo ripugnante. Invidio l’ultima bestemmia di Baudelaire – quella prodigiosa espressione di vita nel torpore dell’ictus.
Perché non mi ami più, Genica? Perché mi giudichi? Perché mi uccidi? E’ inutile che separi la mia esistenza dalla mia scrittura, accusando l’uomo e salvando il poeta. L’opera si mescola con gli spasimi del corpo. È un tentativo di pausa, nel turbine di incubi che mi mangiano il cervello. Un aborto di pausa. Non osando morire del mio fuoco, sopravvivo. E sopravvivendo pietrifico quel fuoco, lo fermo nella voce, nella parola, nei gesti. Poi, angosciato dalla pietrificazione, mi lamento come un folle; grido di essere roccia strappata, abbandonata, priva di senso; mi lamento di intollerabili sofferenze invece di rassegnarmi alla mia minerale rigidità.
Non credermi, Genica. Io brucio, ma non come vorrei. Non sono abbastanza folle per essere me stesso. Vivo al di sotto di me, in uno stato intermedio di aborti e silenzi. Come Rimbaud, estraggo note atroci dal mio taccuino. Scrivo, tradisco, riscrivo. Temendo che l’altro mi tolga la vita, mi disintegro; urlo fra le ombre, come dissolto; poi ritorno corpo, respiro e insulto; poi mi frantumo ancora… E così via, Genica… Sono orribilmente stanco. L’opera è soltanto un sepolcro. Dovrei essere più lieve. Urlare e sorridere: misurare il tono della voce, i ritmi della tormenta. Ma non so farlo. Mi sento un coglione. Non cammino con nessuna maschera. Non sono mai riconosciuto. La violenza mi scortica, e basta. Sostengo il suono del grido con una voce che ormai diventa stridula, inadatta a contenere la tensione che dilania il mio cranio. Io, Genica, sono la scheggia che esplode sotto il peso dell’acqua, non la pietra levigata dal torrente, a strapiombo sul dirupo, oscillante e liscia, che assorbe nella sua materia l’eredità della cascata.
Cos’è un’eredità? Una sete che non smette di dissetarsi? E tu – che vuoi lasciarmi – sai di cosa hai deciso di fare a meno? Di un folle la cui intelligenza non stenterebbe a disintegrare, se lo volesse, i tuoi miseri, patetici spasimanti. Perché non muori, Genica? Perché non possiamo, io e te, rappresentare l’ultima scena dell’Otello, quando Otello, pur conoscendo a memoria la menzogna di Iago, pur sapendo perfettamente che Desdemona non gli è stata infedele, la strangola consapevolmente, perversamente, muovendo le dita in alto e in basso, in basso e in alto, in alto e…

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La vergogna dei sani

Dal dottor Latrèmoliére a Antonin Artaud.

31 gennaio 1945.

Carissimo monsieur Artaud,
concordo con voi nell’esecrare l’orribile trattamento che è stato inflitto alla vostra mente e al vostro corpo. Ma, come voi sapete, l’uomo è un essere spaventato, oltre che spaventoso. Voi, troppo a lungo, avete retto per lui la visione dell’abisso e vi siete infognato nel problema dell’essere in modo accanito, come un condannato al rogo – ripeto le vostre parole – “che fa segni attraverso le fiamme”. Ma chi, fra i testimoni – non parlo dei carnefici che hanno acceso il fuoco – sarebbe in grado di spegnere quelle fiamme? Sono felice che oggi siate meno ossessionato dalle congiure e dai deliri di nascita e di morte. Sapete: la società umana, quando non capisce qualcuno dei suoi membri, lo espella da sé con le peggiori torture, non paga della sua morte fisica ma assetata che rinneghi le immagini e i pensieri che osano metterla in scacco. Nessuno di noi dimentica Giordano Bruno o Giovanna d’Arco: voi stesso lavoraste nel film di Dreyer, e certo non per accusare Giovanna ma per apparire, forse unico, fra quei volti di giudici e di criminali, il monaco giovane e pietoso che vigila il dolore dell’eretica. È quella la mia parte.
Come medico e come uomo detesto gli elettroshock e cerco di ridurre il loro numero falsificando le diagnosi. Tuttavia non sono migliore degli altri psichiatri e non mi arrogo il diritto di esserlo. Mi tengo stretto il mio potere sui matti. Se è difficile tollerare quanto voi avete tollerato, è anche difficile ammettere che esistano uomini che facciano soffrire un uomo come voi se non per vendicarsi della vostra spinosa sensibilità – che loro non possiedono. Voi siete sceso nella carne del vostro sentire punto da crearvi dei demoni. Non è una malattia, questo coraggio. Sceso nel fondo dell’essere, bisognava ridurvi a bestia, in modo che non aveste la forza di dire, per tutti, che la vita è fuoco che fa scempio della vita.
Sono molto lusingato della vostra amicizia e vorrei fare molto di più per voi che non interrompere temporaneamente questi orrendi trattamenti da mattatoio. Ma è già qualcosa, credo, potervi aiutare. Io sono legato alle leggi dell’uomo e purtroppo conservo la ragione. Quindi potrò essere con voi solo per pochi attimi, quelli che al poeta sono concessi per impazzire con un amico fedele. Sragioniamo insieme, ma per qualche secondo soltanto, monsieur Artaud. Di più non riesco, ve lo assicuro, e ne provo vergogna come ogni essere che appartiene alla specie umana dovrebbe provare, per la sofferenza di Artaud, la vergogna dei sani.

Sempre vostro signor de Latrémolière

 

***

8 pensieri riguardo “Juif errant”

  1. Grazie, Francesco. Questi due racconti erano stati pubblicati negli anni 90, il primo in “Molloy”, il secondo in “Arca”. Mi piace che ora riappaiano nella “nostra” Dimora.

    m

  2. Come sempre,Marco, la suggestione della tua scrittura evocativa e scorrevole, non può che incantare. non credo sia facile produrre questi apocrifi ma, se il risultato è questo, sarò ben contenta di leggerne ancora. quando la scrittura riesce a trasmettere il dolore di una qualunque esistenza, là mi trovi e scusa se mi faccio sentire poco ma la colpa è della telecom.

    un abbraccio e un saluto a Lucetta
    jolanda

  3. Grazie, Jolanda, la scorrevolezza per me è essenziale. All’interno di una poetica un po’ ostica come quella dell’apocrifo l’effetto-naturalezza è la cosa stilisticamente più efficace.
    A presto e Lucetta ti contraccambia.
    Marco

  4. l’avversaria è una donna che non conosco
    forse di colore nero come la O;
    oscura dietro l’angolo complotta come
    farmi cadere in una trama ,
    capofila una ragna che offre un sesso di seta,
    non ha nemmeno voglia di morire
    e neanche una speranza di sopravvivere
    oggi: sono in piena forma animo
    le mie eebolezze mi affanno al suo consultarsi –
    numero la sua faccia come una via
    sfiorita d’oltretomba
    una lama di desideri amplifica un sorriso adulto
    della mia sfacciataggine spietata che delle false
    regressioni non ama
    e mai sicuro e di sicuro c’è il tuo veleno
    l’unica speranza che ho
    che non mi abbandona tutrice delle notti in bianco
    si consola con la notte sparge semi di resina per sedurre il mio tempo morto
    angelo pini

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