Frammenti d’esilio, 4

La mancanza

Gianmarco Pinciroli

Wie lange war kein Herz
zu meinem mild…
Else Lasker-Schüler

 

frammento 4

94. Dice l’amico, con pochissima voce per non farsi sentire attorno da altri che non sia io: «Abolita la felicità. Anche la sua possibilità, anche il pensiero della felicità. Abolita la ricerca del suo “che cos’è?”. Abolite le persone che occasionalmente me ne hanno procurata, che potrebbero ancora procurarmene. Abolite le persone in generale, visto che la buona volontà di chiunque può fare piccoli miracoli quotidiani. Abolita la speranza che, insieme alla parola amore, è stata fonte di così tanto dolore. Abolita la forza dei piccoli talenti che ognuno, proprio ognuno possiede anche se non lo sa o non riesce a farlo sapere agli altri. Abolito il tempo che resta, che non basta mai a porre rimedio agli errori che si sono fatti, che in ogni caso passa troppo in fretta e ha falcia tutti i progetti che l’ingenuità ha immaginato di realizzare e l’esperienza si è premurata di disattendere uno dopo l’altro senza pietà. Abolita la pietà, sentimento disdicevole col quale qualcuno si sente superiore in quanto pensa di sé di essere ancora suscettibile di una qualche felicità, e infatti si sente tale, e fa delle cose che lo fanno sentire tale, e tutti gli vogliono bene, beato lui. Abolito anche tu, caro amico, che fingi di capire e mi stai ad ascoltare con una fedeltà in cui è per me troppo tardi per credere. Abolito, infatti, è anche il verbo credere. Abolito anch’io, finalmente, finalmente fuori dall’esserci, fuori dalle domande, dall’identità, dal dovere, dal male fatto e subito, dal fallimento, dall’enigma e dalla stupidità che non ti fa capire che due più due fa quattro, fuori dal dentro e fuori dal fuori, ambedue fonte di dolore incomprensibile ai più, finalmente fuori. Grazie, Mallarmé, per la potenza della tua parola. Abolita anch’essa, comunque.

95. Tale e tanto è il vuoto che circonda e riempie il pensare che diventa persino facile scriverne, secondo un paradosso che varrebbe la pena di riuscire a spiegare. E’ come se il vuoto del pensare fosse l’aria in cui si muove e respira la scrittura, è come se la scrittura fosse il pieno progredente di quel vuoto che a lungo si riforma durante la colmatura stessa, così che l’arresto della scrittura non sarebbe altro che il riempimento avvenuto e concluso del pensare stesso. Questo, se fosse vero, va da sé che avrebbe conseguenze piuttosto imprevedibili: del tipo, che chi pensa è sempre un po’ come se scrivesse, quando poi non scrive veramente. E anche: chi parla, credendo di comunica re il proprio pensiero, in fin dei conti sta semplicemente scrivendo oralmente, per così dire. Si tratta allora di intendere con maggiore larghezza il fatto della scrittura, che a questo punto non può ridursi a descrivere l’atto dello scrivere, ma piuttosto tutta la preparazione che lo precede, se lo precede, preparazione alla quale non è nemmeno necessaria l’esecuzione dell’atto. Ecco: se scrivere equivale a pensare, allora quando si pensa si scrive sempre, e l’atto che traduce un tale fatto risulta in fin dei conti secondario, o comunque secondo rispetto alla scrittura primaria del pensare stesso. Così, noi scriviamo sempre, o meglio, noi siamo sempre pronti all’atto di scrivere, per quanto poco lo si faccia e lo si realizzi su carta, cosicché i libri che si riempiono di scrittura sono i minimi protocolli di una sezione infima del nostro pensare quotidiano. Se torniamo al vuoto, dobbiamo far corrispondere questo vuoto che circonda il pensare al candore della pagina che si riempie dei segni di una scrittura. Infatti, così come l’atto della scrittura, per potersi realizzare, necessita di un foglio bianco che testimoni nel tempo dell’avvenuto atto stesso, altrettanto il fatto di scrivere, ovvero di pensare, necessità di un vuoto colmato dai pensieri stessi che progrediscono verso la provvisoria colmatura e che l’atto di scrittura o la parola parlata nel dialogo testimoniano nel tempo di una tale durata dell’avvenuto fatto stesso. La memoria del fatto e la scrittura dell’atto non sono dunque in conflitto tra loro come vuole (anche se per buoni motivi che qui non vengono presi in considerazione) il Fedro platonico, purché il vuoto e la pagina bianca facciano da supporto (dialettico?) sia al fatto che all’atto. Quanto al rispondere che mancherebbe all’atto di scrittura, obbligato al silenzio della pagina che non può difendersi dalle obiezioni del lettore, ebbene, ad un tale limite si può ovviare rivitalizzando dietro l’atto che ha realizzato la scrittura il fatto del pensare stesso, attraverso la messa in dialogo e in discussione che, anche in piena solitudine, ogni lettore – diventando nella lettura profonda dialogante-pensante-scrivente – può rappresentare. Certo, si potrà ancora obiettare, come quella scrittura scritta e interrogata dal lettore profondo potrà a sua volta difendersi e rispondere? Ma ogni buon lettore sa che, mentre legge, egli è due persone: colui che interroga e colui che risponde, egli è lettore e testo letto al tempo stesso; solo così, infatti, potrà comprendere a fondo il testo, la scrittura scritta: dialettizzandola, rendendola dialogo interiore, sdoppiandosi in giudice e imputato. Il processo di lettura critica è il miglior tribunale della verità che possa rendere giustizia al pensiero.

96. Alla fine la relazione si riduce ad una lotta senza quartiere tra due tipologie di narcisismo: quella che prevale e quella che soccombe, ed ambedue, rispetto ai loro prevalere e soccombere, nella provvisorietà che non può escludere un rovesciamento dei ruoli più o meno radicale, al di sopra o al disotto, di poco o di molto, di un raggiunto equilibrio, altrettanto incostante nella sua durata. Ma che cos’è narcisismo? E’ uno dei nomi meno adottati in filosofia per descrivere il processo identitario: sul piano strettamente logico l’uomo che dice Io afferma che A è A, e così facendo istituisce l’artificio, per non dire la convenzione, di uno sguardo speculare che è l’esatto corrispondente dello sguardo mitico di Narciso nello specchio d’acqua. Ma il Narciso che si ritrae perplesso è proprio quello destinato a soccombere, almeno in prima battuta; infatti, per prevalere, Narciso non deve affidarsi alla perplessità ma deve agire, decidere, sospendere un pensare riflessivo e adottare un pensiero operativo, che non ha bisogno di essere speculativamente Io, ma effettualmente Io. Essere effettualmente Io: significa la piena immersione nella quotidianità relazionale, fatta di sentimenti all’impronta, di professioni esigenti sul piano dei risultati, di spostamenti progressivi delle relazioni stesse allo scopo di una sempre maggior efficienza. Ma questa totale effettualità alla fine risulta nauseante (poiché uccide il desiderio da desiderare nel bisogno da soddisfare), insensata (perché annega nell’ovvio e nella ripetizione dell’identico), sterile sul piano del piacere (che esige la sospensione del tempo), distruttiva sul suo stesso piano (poiché il meccanismo automatico assorbe la relazione mezzo-fine e uccide la scoperta della scelta nuova e la responsabilità della decisione: uccide l’etica). Ecco perché, piano piano, riemerge la necessità di essere speculativamente Io; il meccanismo ritrova tutta la misteriosa vitalità dell’organismo e della sua contingenza, che esige in ogni attimo la piena coscienza non solo dei propri limiti, ma delle proprie capacità, per definizioni mobili e cangianti. Il senso dell’agire ricarica l’Io delle proprie responsabilità, l’Io scopre finalmente la sosta, il pensare riflessivo, la sana incertezza, la fluidità del concetto che scioglie il dogma dell’efficienza e feconda la serie astratta degli istanti in durata di vita vissuta. Oltrepassata la nauseante ripetizione dell’identico, l’Io fa esperienza della distanza da se stesso e lotta per riconciliarsi, attraverso la distanza riattivata, con l’Altro che giace dentro di Sé, e che la distanza gli testimonia nella presenza, altrimenti incomprensibile e fatalmente fonte di conflittualità insanabile e perenne, dell’Altro. Tutto questo essere speculativamente Io si chiama esperienza profonda d’essere Sé, d’essere pensiero di Sé, narcisismo de jure che de facto cattura la propria immagine come la nave che fa vela verso l’orizzonte differisce il raggiungimento del porto senza comunque mai perdere la bussola del proprio viaggiare.

97. Il sonno sospende l’identità, le consente una fuga da se stessa, la salva dal peggio che le possa capitare, ovvero dall’essere dovunque e sempre quello che crede, durante il tempo della veglia, di essere. Il sonno salva l’Io da se stesso riconsegnandolo ad un sé morbido e fluido, problematico ma non insensato, percorso in lungo e in largo da tutte tre le dimensioni temporali che ne inventano la progettualità e ne decostruiscono la ricaduta dogmatica, incessantemente. Occorre distruggere l’identità, per poter essere un’identità: paradosso che il sonno realizza ogni notte e contro il quale spesso la nostra identità stessa lotta perché la fatica di essere se stessi, quel se stessi che dobbiamo essere se vogliamo essere un Sé-Altro, un Sé autenticamente identitario, ci porta a resistere: si chiama insonnia questa lotta, e vince con l’età sempre più spesso.

98. Un uomo solo non può che raccontare la propria solitudine. Qualsiasi cosa scriva e pensi, fosse anche ontologia, finisce per testimoniare di questa sua condizione di solitudine. Ora, è possibile immaginare un uomo che pensa o che scrive che non sia essenzialmente solo con quel se stesso che gli apre gli altri dentro di sé? Certo, ne verrebbe che, ad esempio le ontologie della storia del pensiero, per quanto “oggettive” e universali si vogliano, per quanto vogliano manifestare la loro intenzione disoggettivante, di fatto si ritrovano ad essere scritte e pensate dalla solitudine di un uomo solo. Dove peraltro la dicitura “ un uomo solo” è portatrice di una doppia via di senso: una prima via ci dice di quell’uomo che il suo pensare non è circondato che virtualmente dal pensare degli altri, anche se in questa virtualità riposa il senso del pensare stesso, del pensare del Sé-Altro. Ma una seconda via ci avverte del valore avverbiale, a sua volta doppio, di quella dicitura, giacché quel “solo” vale anche un “soltanto”: è un uomo “soltanto” (non molti, non tanti, non tutti: di fatto, anche in questo modo si ribadisce che pensa in quel momento e che scrive è lui e non un altro), e anche è “soltanto” un uomo, non un Dio, una cosa, colui che pensa e che scrive. La condivisione degli altri fuori di me rispetto a ciò che scrivo e penso, reale o virtuale che sia, acquista allora il nome di “oggettività”: non fosse che perché, in quanto vado pensando e scrivendo, non viene difeso nessun mio interesse particolare, cosicchè il soggetto pensante può presumere di pensare a nome di tutti. A meno che il riconoscimento della bontà di quanto ho pensato, o l’ostinazione con cui viene ostacolato quanto io ritengo indefettibilmente vero, ovvero la sua evidenza, non mobilitino dentro di me una qualche forma “soggettiva” di autogratificazione che mi fa felice, che fa felice me e non altri, ricomponendo, dopo la fuoriuscita del me pensante in universale la verità e l’evidenza, quella solitudine quotidiana, essenziale e abitudinaria al tempo stesso che, grazie a quella fuoriuscita, avevo per un attimo sospeso e dimenticato con tanta fecondità.

 

Frammenti d’esilio, 4

 

17 pensieri riguardo “Frammenti d’esilio, 4”

  1. uno dei più interessanti frammenti questo, mio caro Gianmarco
    ( ho molta fame di certe scritture :-)

    “96. Alla fine la relazione si riduce ad una lotta senza quartiere tra due tipologie di narcisismo: quella che prevale e quella che soccombe”

    alla fine, che vince sulla parola, è sempre l’urgenza …essa spoglia anche narciso.

  2. “l’urgenza spoglia anche narciso”: mi piace, descrive in modo icastico quello che succede nell’inopinato, quando ciò che accade nell’immediatezza, momentaneamente (ma forse per un lungo momento, che non sappiamo temporizzare, la tragedia dell’istante), resta senza parole, Una sorta di verità terribile senza parole, e forse la terribilità sta proprio nel fatto che le parole, per quell’attimo, mancano. Che ne è allora di Narciso? l’assenza di parole è come l’intorbidarsi delle acque nelle quali, di solito, la sua identità sa di potersi specchiare quando si domanda il senso di ciò che gli accade, che accade a lui, all’Io che si riconosce tale nel doppio che l’acqua più o meno limpida gli rimanda. Ma ora? l’urgenza, appunto, lo ha spogliato della parola speculare, e non riesce più a dire Io a quel se stesso che non trova più l’immagine della propria ‘sperimentata’ identità.
    Al di là di questo rozzo tentativo di descrizione che ho fatto ora, io credo che ognuno di noi abbia prima o poi fatto esperienza di questo ‘mancamento di sé’, di questo esterrefatto mutismo, di questo stuporoso silenzio di fronte ad accadimenti (morte, amore, tradimenti, incidenti propri e altrui…) che, per un attimo non temporizzabile, hanno sospeso la nostra quotidiana percezione di senso.

    A risentirci

    gianmarco

    1. Il mancamento di sé che descrivi così bene fa desiderare ardentemente di tornare nella dimensione del sogno, di desiderare il *sonno* …(punto 97).

      Leggendo un altro punto, perchè ogni tuo frammento è la densità di un concetto da sviluppare, trovo molto interessante questo:
      “Ma ogni buon lettore sa che, mentre legge, egli è due persone: colui che interroga e colui che risponde, egli è lettore e testo letto al tempo stesso; solo così, infatti, potrà comprendere a fondo il testo, la scrittura scritta: dialettizzandola, rendendola dialogo interiore, sdoppiandosi in giudice e imputato. Il processo di lettura critica è il miglior tribunale della verità che possa rendere giustizia al pensiero.”
      A volte questo sdoppiamento succede inconsciamente ed è qui che, secondo me, entra in scena il terzo inquilino, ovvero il critico …il critico deve avere una visione d’insieme, deve poter ELABORARE correttamente ciò che legge con ciò che emerge.
      a risentirci!:-)
      c.

  3. Vien da chiedersi chi siano questi due, quelli inerenti allo sdoppiamento dell’io. La mia breve esperienza mi porta a dire che uno è maestro e l’altro è bambino. Lei, signor Pinciroli, saprebbe certo spiegarlo assai meglio di me. Io intendo per maestro il sorvegliante, colui che valuta responsabilmente quel che il bambino scrive, e che al tempo stesso lo incoraggia, lo sostiene; insomma, non lo perde mai di vista. Un super io ma ridimensionato, capace anche di qualche pecca, un alleato del poeta bambino. Mentre per bambino intendo colui, o colei, che sta letteralmente immerso nel parco giochi: massima libertà, intesa come messa in pratica della stessa. Chi crea e scrive è il bambino. E chissà che un giorno non diventi egli stesso un maestro. Il clima è dato dalla fiducia, nella pienissima solitudine che lei ha ben scandagliato.
    Grazie, con rinnovato piacere.

    1. Per Tosi: Forse, più del bambino, è la parte istintuale dell’individuo, che vuole emergere, che va a scontrarsi con il sé, talvolta. Una giusta sintonia sarebbe l’ideale. Il bambino, crescendo, si evolve.

      1. Mah, gentile Carla, siamo quel che siamo stati. La nostra è probabilmente una crescita stratiforme; poi selezioniamo e crediamo di dimenticare. Qualsiasi piccolo esercizio di ipnosi lo può dimostrare. Nulla va perduto, il bambino o la bambina che eravamo restano intatti. L’io è la coltre che ricopre ogni cosa. Lo dico per essermi sottoposto a vent’anni di terapie intensive: l’adulto si prenderà cura delle ferite del sé infantile, e da lì può nascere la giusta sintonia. In altre parole si tratta di un atto d’amore. Ma a ben vedere siamo folla, persone diverse nella stessa persona. Senza addentrarci scientificamente, possiamo paragonare la poesia ad una bolla di sapone che contiene, vivi, tutti i nostri ricordi, cioè la strumentazione che ci serve per scrivere. Non è esattamente come avere buona memoria; ah, ne avessi saprei avvalorare le mie argomentazioni con nomi autorevoli, ma io è da tempo che viaggio leggero. E un tantino sconclusionato. Mi scuso con Pinciroli per queste incursioni, forse poco attinenti, ma avvengono all’ombra del suo albero che sento alto e secolare.

  4. Caro Tosi, condivido questa ipotesi, che forse ricorda un po’ il tema pascoliano del ‘fanciullino’. Però, attenzione, sia il maestro che il bambino sono portatori possibili di radicalismi anche pericolosi: se il maestro diventa un Superego e il bambino una libido scatenata, la creatività bordeggia la follia. D’altra parte, l’abbinamento di arte e follia è una storia che ci è stata più volte raccontata (dal Platone del ‘Fedro’ a Jaspers, per far due nomi tra i molti), anche se, devo dire, non tutte le manifestazioni creative devono per forza passare di lì. Temo, in fin dei conti, che l’estrema complessità della questione oltrepassi la nostra possibilità di ‘razionalizzarla’. E forse, se si vuole continuare a scrivere, è bene che le cose restino così.

    1. Si fa bene ad essere coscienti dello sdoppiamento ( condivido i segnali di pericolo) ma chi ha coscienza del gioco che coinvolge entrambe le parti? Non sarà tra gli aboliti della sua introduzione, ma forse si trova qui, nell’ “esperienza profonda d’essere Sé, d’essere pensiero di Sé, narcisismo de jure che de facto cattura la propria immagine come la nave che fa vela verso l’orizzonte differisce il raggiungimento del porto senza comunque mai perdere la bussola del proprio viaggiare”. Pensiero stupendo.

  5. Anche Czesław Miłosz, in modo molto equilibrato, fece cenno al poeta-bambino; in un passo, probabilmente di una sua prefazione. Ora non ricordo, ma fu lì che iniziai a pensarci, e quindi a tentare coscientemente lo sdoppiamento. Ovviamente tutto questo accade nei retroscena del testo.

  6. In verità le ‘incursioni’ sono del tutto pertinenti, anche perché questi ‘frammenti d’esilio’ (come quelli del precedente ‘Maestri silenziosi’) costituiscono un’opera in divenire, e non è detto che questo divenire debba per forza portare la mia firma. Nel senso che ogni frammento può essere ampliato (e anche disatteso) dal pensiero (e dalla scrittura) del lettore (diventato scrittore), nel senso che ha inteso Carla, quando ha valutato ogni frammento come un grumo concettuale, che però attende il contributo del lettore per districarsi dalla propria immobilità dogmatica, e riprendere a vivere nel pensiero e nella scrittura altrui. L’ho imparato da compositori ‘aleatori’ alla John Cage questo procedimento ‘aperto’ e (mi sia concesso il termine) democratico, grazie al quale la parola non appartiene ad una soggettività singolare ma ad una soggettività plurale (come suggerisce peraltro Tosi nel suo intervento quando afferma che ‘siamo folla’). Perché poi siamo sempre lì: si tratta di fare i conti col tema dell’identità, che appunto è sempre un conglomerato di esperienze stratificate nel tempo, che la poesia (sono d’accordo con Tosi) salva non soltanto dall’oblio, ma soprattutto da una loro sistemazione ‘razionale’ a fini consolatori (il Proust della ‘madeleine’ ha teorizzato magistralmente la cosa, prendendo le dovute distanze metodologiche dallo sforzo inutile di un ricordare cosciente). Nella poesia emerge talvolta, come dicevo ieri, il lato tragico della vita, la componente crudele del nostro esserci; l’inconscio freudiano e gli archetipi junghiani sono dei tentativi di descrizione di quello che bolle in pentola quando ognuno di noi, fiero della punta dell’iceberg rappresentata dalla propria ragione, liquida come inutili fantasticherie tutto ciò che, come spesso la poesia, nella procedura del pensiero costituisce lavoro oscuro e laterale, dove forse non siamo più noi stessi in senso forte, ma siamo un luogo collettivo di riemersione esperienziale nel quale ognuno potrebbe specchiarsi, se accettasse, da lettore, di lasciarsi andare nello stesso modo in cui lo scrivente ha probabilmente fatto. Insegnare a leggere forse significa proprio questa sorta di paideutica all’umiltà, in cui l’Io ritrova un Noi comune, originario, e si può dire finalmente che la poesia, e la musica, devono poter essere di tutti.

  7. il punto 97 sul sonno mi ha fatto ripensare a questo bellissimo passo del Macbeth II di Shakespeare:

    “Il sonno che dipana le imbrogliate fila
    dell’affanno,
    morte di ogni giorno terreno
    sollievo alla dura fatica
    balsamo delle anime ferite
    cibo più di ogni altro prezioso
    che la natura offre al sontuoso banchetto
    della vita”.

  8. Certamente i versi che citi di Shakespeare riecheggiano la prima parte del frammento. E anch’io penso spesso al sonno come ad una soluzione provvisoria alla stanchezza di vivere (“le imbrogliate fila dell’affanno”). Ma il sonno è ambiguo, nasconde, con la produzione degli incubi, l’altra faccia di noi stessi, proprio come l’arte e la follia. Sto contemplando in questi giorni i quadri di Odilon Redon (su fotografia, ovviamente), grande maestro di ambivalenze oniriche. E devo dire che questa risorsa oscura che il sonno cela mi fa un po’ paura, certe notti, proprio perché, come giustamente sosteneva Tosi in un suo commento, il bambino dentro di noi non è mai morto, né oltrepassato, I quadri di Redon (i più ‘strani’ senz’altro) restituiscono questo orrore sacro senza veli (uno per tutti: il Ciclope che occhieggia la donna dormiente inconsapevole). Ma per fortuna l’emersione del rimosso non è poi così frequente; quando ho scritto quel frammento soffrivo palesemente d’insonnia, e questa esperienza non riuscivo a comprenderla, non riuscivo a darle un senso (positivo?, negativo?) né una causa che di quel senso fosse razionalmente responsabile. Forse non solo il sonno, ma anche la difesa ad oltranza della ragione, produce mostri…

    1. è veramente sconcertante osservare alcune opere di Redon, soprattutto a mio parere quelle raffiguranti facce umane con corpo di insetto, o anche solo le teste sospese nel vuoto …le proporzioni sono sempre smisurate ….ecco…paragonato a uno scrittore mi fa pensare a Kafka …c’è qualcosa di macabro, grottesco, tragico, in certe espressioni ….come nel pianto del ragno.
      L’espressione del Ciclope invece, la trovo addirittura buffa!

      Buon pomeriggio Gianmarco :-)

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