Tirar su con le mani tutta l’acqua del mare – Cristina ANNINO

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(Cristina Annino, Lina in giardino con Koko, 2005)

Ottetto per madre

“Cristo santo! a chi può importare
se uno ama la propria madre o no!”
(Céline, Viaggio al termine della notte)

1
Il Panda

Senza pace, con pena e senza girarmi
mai, pestando
mica pepe o caffè ma gardenie, io amo
la mamma e i topi; li metto insieme chissà
perché. O ancora perché voler bene a quel
modo spezzato così in due, collo in giù,
polvere senza cerniere, bottone, qualcosa.
Sempre
senza girarmi. I Perché chiarendo la vita ai
tramvai, alle piante. Lei, pura,
mi dà
questa riserva di bambù. Nient’altro.
Poi via. Io
su, ché l’ho addosso oramai e non posso
schivarla, pestarla nemmeno, mettendo con
cura ogni piede tra l’erba.

2
Si fa sabbia così

Si fa sabbia così, si sfalda
al vento di casa mia. Accusa
altre cose deboli, la cecità, per
esempio. Io non so
cosa dire quando siede su me come
fossi cemento. Oppure
vola, ci credo, va via, si stende
altissimamente e in largo. La
guardo con quella
paura dei nani per un monumento.

3
Lei ora elegante

Lei ora elegante, vistosa come le madri, si stacca dal
niente e ride. Qualcosa
dei venti, d’urgente, una fuga, un ritorno, mi lega
a lei che darei
tutto il corpo per quella risata.
È salita
col petto in su verso l’estasi delle nubi a
quella distanza più nere che altro; poi
è scesa; pioveva. Ha
saltato la corda coi piedi fiammanti di santa e al collo
perle vere.

4
La vecchia Lina è caduta

La vecchia Lina è caduta, cantando, di
schiena, com’una forza muta d’un tratto
cedesse, togliendo le staffe dietro. Era a cavallo e
sbatte in terra. Si prende
al viso tirando invano le cataratte. Eccola
lì, la vecchia canina mamma.

5
Una donnina tutta lepre

Una donnina tutta lepre, sveglia,
s’accontenta della giornata e beve acqua
com’una spugna. Ehi, non ho mica cent’anni
per aspettare che te ne vada. Sembri Lazzaro!
Più tardi
sfoneremo i capelli alla sera. Rivede
tante case crollare per un capello, saranno
persone, cose, non sa, ma non meraviglia
che resti il sughero ancora sulla bottiglia
del fumo. Ce la passiamo
a vicenda. Anche la
città s’incendia ai suoi piedi ora
ch’è buio e lei evapora sulla
pira, entrando in me con gas
letale. Siringa. Chiudo
in tempo col tappo il foro e
niente è più bello qui: lo
sguardo di lei sull’anello al dito, su
me, poi qualcosa di buono, la stufa, quel
caldo oramai più fratello d’un uomo.

6
Potrei tirar su con le mani

Potrei tirar su con le mani
tutta l’acqua del mare. Anche più. E
attraverserei il fuoco da qui a lei in questo
oggi frocio. L’hai
vista l’altro giorno com’era? Piccina. Tutto il
mondo è piccino. Le rotaie del destino oramai
fanno clic. Ma lo sai
quanto costa un’ochetta così? Che
sotto terra, dopo le cene, il quadrato di tanta
insonnia, con lei persino
lì starei bene.

7
Volano

Volano
gli spiriti affettivi di qua e di là su
noi paurosamente soli, salvati
allora dalla coltre c’ha parato
il salto. Quel
cinema o quella morte la ribeviamo in
piedi nei ricordi di lei ogni sera. Ossessivi.
È per me esplosione
sull’intera linea di fuoco, perché
troppo volano gli spiriti affettivi, bruciati
come cera dal fosforo.
Penitenza
vera quei canti della mamma al suolo che
cantilena ginocchioni senza memoria.

8
Richter

Ancora
scale Richter. Fuori il sole fa foia. Ma qui! Muore la
mamma com’un uccello. Pari dignità. Bisogna
dirlo, che sta andando via. È tutta
nel becco, tutta lì, tutta vecchie
penne senza più cervello.

Non vi capiti mai d’essere misurati,
tanto
è l’ardore tra noi. Più
liturgia di dolore sacro, con scranni
cerebrali e vesti da cerimonia, chiusi
sempre tra le pareti come mosconi.
Sono
poco e troppo le cose che vi posai con le mie
ali: tappeti celesti e candelabri vuoti. Anche
dentro l’esilarante Richter che assuefà
perdio, metà
come sono, ho sete, ma non
bevo io disegni divini mai
innocui.

NOTA

Ottetto per madre” è stato pubblicato sulla rivista Pagine (maggio-agosto 2005) e conseguentemente nell’antologia bilingue (italiano/inglese) “InVerse Italian Poets in Translation 2006” (Roma: John Cabot University Press, 2006) a cura di Brunella Antomarini, Berenice Cocciolillo, Rosa Filardi.
Farà parte del libro Casa d’aquila, di prossima pubblicazione, così come gli inediti che seguono.

Altri inediti

L’APPUNTAMENTO

Non avrò futuro che essere
pesante: le premerò le costole
con l’aggeggio ferroso, da
tagliare le gambe a chiunque.
Mai saputo quanto
debba durare l’amore o un
incidente di strada: stessi
dati di ferro sonoro. Allora, come si
scappa da questi due sensi?
Non so
usare l’amore, madama, non lo
vedo, non lo spezzo in due, non lo stacco
dal muro, non ci ragiono. Non reggo il
peso soprattutto di questo volume.

COMPOSIZIONE PER CITTA’ E ORGANO

Lui ama la città; ne dice
tante cose. Che ha gambe, soprattutto, e ci
squassa i mobili di casa sua. Che ripulisce
tutto ma fa strage e lo chiama per nome, lo fa
nitrire, dà
appuntamenti e lo mette in ginocchio. Certe
prove gelano il sangue quando fissa l’acqua ed
esala – capite? – tutta una storia grande di
strade. Anche nel fango lui solleva la rete
di saracinesche. Ha sempre
fedelmente odiato l’acqua, fiume o recipiente
di casa, ovunque la vede, nel freddo
burroso dell’alba che apre cerniere di cemento.
Poi
la storia lunghissima quando
insieme si spazzano dal tegame alla
brace, convento, infelici e tutte le gambe del
regno. Dice
massacrazione. Dice
certe cose piangendo, sbrana la casa, sta
dentro e spacca stanze come zucchero.

SCRITTURA

Per natura metallica scrivo; per la
stanza che prende il volo convulsamente; per
l’identità totale dei tovaglioli e per mio
nonno. Per cielo, terra, e il senso di me sui
braccioli delle poltrone. Per l’ozio
infinito capolavoro che brucia cicche dicendo
d’essere buono. E fingo, in
termini generali, pillole, paradiso. Per il
Bingo scrivo, magari!

***

Mi parli dei temi delle tue poesie? Su cosa giri attorno, prevalentemente? Da cosa sei ossessionata? Io un’idea ce l’ho, ma vorrei che fossi tu ad aprire il varco.

[…] quand’ero bambina, mia madre, per gioco, mi dava foglio, penna, e poco tempo, dicendomi di guardare qualunque cosa e di scriverci sopra una poesia. Io guardavo il muro, per esempio, e scrivevo di quel muro; e così via. Senza “committenza”, e fino ad oggi, per rispondere alla tua domanda, posso dire che mi interessano soprattutto le persone, qualunque individuo con cui anche casualmente entro in contatto. Ascoltare le loro vite. Vi intravedo, come penso accadrà a tanti altri, la storia dell’ intera umanità, flora, fauna comprese. Ecco, prendo quella parte di mondo della gente che mi interessa e la stravolgo col mio mondo. In certo qual modo, continuo ancora a fare ritratti, nel senso che rispetto sempre la verità dell’individuo, anzi, è quella che mi dà il via. Per dirla più seriamente, e allargando un discorso di poetica, ritengo (e mi è capitato di dirlo più volte) che si possa scrivere raggiungendo un certo livello, solo se abbiamo dentro un universo già poeticamente strutturato. Mi spiego. Se uno non convive, nel proprio quotidiano, con lo stesso sistema metaforico che poi immette nella comunicazione diciamo sociale della scrittura; se non riesce a parlarlo, anche dentro casa, il suo “latino”, non diventerà mai un gesuita né un poeta vero. La propria visione del reale spesso può aver poco in comune con quella visibile, ma se il poeta riesce, nei limiti di una certa comunicabilità, a sostituire l’ universo suo a quello reale, a rinominare ciò che tocca e condividerlo con più individui, egli avrà fatto poesia. Altrimenti si tratterà di cultura, letteratura, o bravura solo tecnica che non genera niente. Tutto è già stato generato, basta raccattarlo per strada, tanto per intenderci.
L’io, quando è troppo presente, mi infastidisce, preferisco non parlare di me stessa in maniera diretta; spesso succede, è ovvio, e in questi casi, cerco di rendere il mio io il più possibile corale o ironico. Può accadere poi che sia la strutturazione di un libro a presupporre componimenti biografici. Una cosa è certa: non uso mai il tu generico, tipico della tradizione, e non solo ermetica. Lo trovo di una facilità banalizzante, troppo musicale, quasi ruffiano. Se mi interessa un certo individuo, o assumo in prima persona la sua situazione psicologica, o faccio parlare la persona stessa, mettendone a volte anche il nome. Tutti gli uomini o donne sui quali ho scritto e scrivo esistono, non invento mai nulla.
Per quanto riguarda le mie “ossessioni”, dopo l’individuo, c’è l’altra realtà parallela, per me di grande significato morale e spirituale, quella cioè rappresentata da ciò che volontariamente e con commovente stima, chiamo le bestie.

[Dall’intervista di Franz Krauspenhaar a Cristina Annino pubblicata su Nazione Indiana del 27 dicembre 2007]

***

Da L’udito cronico, in Nuovi poeti italiani 3, Torino, Einaudi, 1984

Caos

Premettendo
ch’è sempre doloroso impalare
l’anima in un discorso, scrivere
un diario, lettere, versare
iride nella tinozza di un colloquio.
A quest’età e con i tempi che corrono,
io siedo al bordo dell’orecchio
universale; dico
«biondo, marziale cieco ciclo
dove il tempo è rotondo: la verità
è orrendo cannocchiale».
Poi mi rivolto, ascolto chi parla,
annuso odore di vero nel parziale
gesto di chi mi appaia. Credo
a tutto; a quest’età si è un cimitero
abbastanza paziente.

Allarme dell’artista

Ho mal di denti e mi duole la vista;
Dio mio, marcisco sul mio piede come un cactus;
e spino, spino, il cane che mi viene
vicino, si muove a zampe in su, allarmato.
Gioco
col mio male; l’infernale malessere
cittadino è oltre il baratro delle persiane.
Sale qui in tessere di gas, polvere e buccia
di strade.
I0 sto male in pace.

Ma quassù, non crediate, c’è il cane che si lamenta,
il pelo gli cresce, il tempo
pone la sua palla di pietra
come uno sparo a un centimetro da me.
È un dolere cortese, di carta. Inattivo,
il tempo si liscia la barba
giovane e, oscenamente, rizza le gambe.
Io scrivo cose che nessuno
sente, oltre me.

L’essere e la morte

Poiché VU è una donna strana,
perfettamente cattiva,
io voto
per l’inferno di lei, nell’intento
di qualche valore.
Credo nello squallore quotidiano
di VU. E ci esco insieme;
dobbiamo scontarlo il tarlo dell’esistenza;
e sia. Del resto
mi piace il cattivo, lo sporco,
mi tuffo a corpo morto nell’inganno
di VU. Le parlo e la detesto.

Le case sono scimmie d’acqua pomeridiana;
VU è magra sotto l’ombrello,
ha dita d’artrosi e fama di generosa.
Piove, e mi scarica addosso la lingua
di pescecane; i suoi dolori non sono
spirituali. C’è gente
che si sdraia negli altri
uccidendoli di parole: VU ed io
siamo una sagoma riconoscibile
da dietro. Siamo l’essere e la morte.

Ho momenti di forte panico,
quando mette lo sguardo nel mio
e gioca con l’anima fosforescente
dicendo che attende una risposta.
Giacché mi sento esistere
sempre
e quel che voglio non è mai lontano,
è una piazza tutt’al più
d’acqua da superare,
dico a VU sciocche cose che beve.

Le mie pretese d’essere che sono?
In fondo
fumo sigarette che mi sfondono il cuore.
Non sarò mai buono.
Azzurra giraffa, la strada, passando
ha un curioso galoppo; ascolto
VU con smorto viso di plastica.

*

Sedere “al bordo dell’orecchio universale”, sentirsi “un cimitero abbastanza paziente”, amare il verso che cade con un leggero tonfo, godere del corpo dalle cui lacune nasce l’ordine del testo, la certezza d’essere soli eppure il desiderio di scarnificare tale distanza, al punto da preferire la dissociazione alla perfetta rotondità dell’io: sono questi alcuni elementi che mi fanno amare la sua poesia.
(Stefano Guglielmin)

***

Da: Madrid, Milano, Corpo 10, 1987, ristampato in e-book da Biagio Cepollaro Edizioni.

La casa addosso

Ci sono volgarità anche qui da pagare. Non si può
mica aspettare ore, papavero, che un evento
ci tocchi il cervello, la sua coscienza, i nervi
ottici e il resto. Bisogna capire
svelto come una bomba senza consigli, e scendere
dal tetto. Anni luce essere felici, quasi fosse
una cosa pratica, e noi utili al mondo. Per bene.
Ma non le voglio
bene mai, mai bene; c’è da dirlo, nel più
semplice modo, che poi sarà una bomba che passa
sul capo, una vergogna non so per chi, forse
storica, quella calma di lasciarla andare con la sua
crocchia fatta a rotonda
cassa armonica. Così è dare
tempo al tempo, un fischio quasi, peggio, si toglie
speranza alla gente. Pensando
così obliquo da labbropesce, la terra
è più d’un tramonto col piombo, da spezzare
il capello in due. Una piena. Lei
m’ha fatto venire qui, son venuto; m’ha ordinato
di sedermi, m’ha dato le spalle, è
volata via. Al principio credevo d’essermi portata
la casa addosso tanto il peso era inutile. Poi
ho detto “è così che si toglie la speranza”.

Poema in auto

Oggi e ieri strizza
in macchina le mani a conchiglia; pare una lavandaia,
un’ostrica e che mi lanci addosso il suo fisico dicendo
“noi e anche tu che sei
cinico”. Dice proprio noi; vola dal vetro, niente
corpo, certo non lo è, dalla terra al cielo è quel
volante nel mondo, o un germoglio che non contengo
più. Con orrore medico riconosco
il mio stomaco stare bene, poi in pena, stringersi
a chiave e scardinare la porta: Chagall e lo spirito
dell’arte.
(Quando
avrò voglia di guarirvi da dicerie e mostrare
ai bambini come si scrive un poema; allora se sarò di questo
mondo, verrò in una scuola che odora di talco o alla radio,
e in cima al vento d’una tranquilla verità. Starò
per diventare vecchio: il taglio
va fino alla fine, all’attimo vegetale, al pellame
ultimo dell’iride. Tutto vola, esplode come sa
fare luce. Il cervello
non può granché sulla terra, neanche a pensarci. Solo
credere all’immortalità, giova; e agli
animali tranquilli.)
Finisce. È passato
il vento, ogni parola; la testa risiede
sul collo, le mani in avanti, e la sera ci dà
cattive notizie: Dragutin è morto non ucciso dalla moglie ma
dai maiali che vedeva sempre nel sonno, cioè loro
gli hanno meglio invaso la vita. Nera regola,
questa notte faremo i bravi tacendo. Din Don sentirsi
i capelli a posto; è finita. Ora può venire
il bello (non avere abitudini regolari perché se
possono capirti fuori, non possano mai tenerti
il cervello). Pace
di camminare, non stare più in casa.

Adesso

L’abbiamo detto in cucina. Lo dice col muso riccio, dalla
testa al piede liscia invece quanto un capello: Sarenco
le esce di dietro, sborra. Dolce,
tanto. Comincia
l’inverno in cui
le mosche intrecciano le zampe, vanno di lato come
granchi, si mettono a vomitare. La sanno già
tutta, la vita, e quella anche dei
capelli, dove cascano per errore. C’è
da preoccuparsi che diventano umane, per non
pestarle. Così lei, pura di vino, ride, ma nel collo
casca: una casa storica del centro, la
buttano giù. Finita. Tutto
ciò che ci tortura è piccolo, freddo, andante. Però
su lui non sa mica scherzare. Gli
perdona ogni giorno che passa.
Nel grande mondo non sa più
stare bene. Si capisce
che arriva l’inverno. Forse
ai salmoni piace il dolore, alla saliva ai
piatti, ai Russi. Spostano il tempo come un bicchiere
e le nere foreste di sborra quanto un’oliva nell’olio
l’hanno davanti, nel secolo d’ora in cui
parlano. Ma le mosche loro
adesso muoiono. Io
me le porto via, al mio indirizzo, sediamo e domani ci
porterà il più bel giorno diverso.

Consigli a una pittrice svedese con cane san bernardo

Riesco a immaginare anche
un uomo: non vuol soffrire, chiude gli occhi per non vedersi
il dito rotto; gli va di non piacere e, giorni
igienici, mette su una biblioteca da specialista. Sa
d’essere un mucchietto di cenere ma è orgoglioso
lo stesso e, sennò, chiude ancora gli occhi. Tira
avanti duro.
Poi, più indietro o sotto, altro esempio: Ida scorda
dov’è il ditale nell’agoraio (termine sinfonico quanto
la morte) ma dopo una settimana, eccolo lì. Allora
capisce almeno tre cose: il proprio nome, quindi l’età, terzo,
in generale, la miseria del mondo. In altre
parole che il collo le sta mangiando la testa.
È rapida la cultura.
Monica, Monìka, non è vero? La Svezia
ha fatto solo nevrotici di buon calibro, ma
se non spari abbastanza come e quando, se dura
troppo l’apnea, o non sei marcia quanto le foglie e più
bassa della terra e ancora in uno solo mille fatti (è possibile:
con l’ispirazione polmonare diventa visibile l’interno
anche d’un gatto). Gloria
a chi ci rende fragili come guanti.

Madrid

Una città ed io
ci capiamo: si fa a chi sovrasta di più, e ammazza
ed è colpevole. Nei numeri
infiniti c’è la nostra coscienza. Siamo più – perdendoci
e stando muti e somigliandoci come guanti – umani
che le stelle. Per essere
poeti non si deve mica fare granché. Io lascio che le cose
vengano a me e tutto finalmente si somigli.

Sono molto solo davvero, ma va
bene. La testa a volte sale le scale indipendente da buon
cane, io coi piedi in ascensore. Poi, in cima,
ci rimettiamo a posto; e i casi sono tre. Poniamo: mi hai
dato il nome esatto, chiedo di te, mi fanno
entrare. Secondo: non mi lasciano, allora aspetto
sotto. Terzo: il nome non è vero e il giorno
che ti trovo io t’ammazzo. Esempio d’amore urbano, né
indirizzo né mani, ma è grande per questo.

Credo che in un altro, diverso, ci si debba
spazzolare a vicenda da ciechi, essere come si dice
in grazia. Due cecità. Soffrire per i mobili e temere
il silenzio, la vastità di non sedersi.
In effetti
non so se sia ansia, ma è igiene. Il mio
amore no. Mi libero
dal gelo a volte ma mai dalla libertà cui
sbatto la testa ad elastico. Il lutto
di capire va più in là della morte. Assodato.
La porterò
nel mio cervello intimo: Madrid. Come si dice al cinema, tu
puoi aspettarti tutto da me.

Nella stanza mi dicono “Victor”. Già lo sapevo, ma il chiasso
va sopra lo zenith eppure siamo
solo tre su un divano. Da che frigorifero viene
tanto bianco freddo e spuma e un ridere surgelato
e amore? Da Victor marinaio che lascia Lama
per Chelo, vino bianco e pesci del bar, per la casa.
Macellaio! ancora mi dico, che cuore però e che polmone,
che orecchio. Ecco un uomo.

Si crede d’amare bene se si sa
molto, la qualità ad esempio, balle simili. Il mondo
non è cattivo abbastanza e per fortuna
è cieco. Victor
con spalle da incrociatore eppure è basso, tanto
breve che lo tengo in mano se voglio: un essere
vale per la luce, nient’altro. Poi,
più in là di tutte le cose, sorprendente, tira
su dalle calze un modo di tenersi in piedi che dà
l’idea d’un attore.

Vedo Chelo nell’aldilà, già morta prendere
qualcosa per la coda, mettersi ferma, farsi nuda girarsi
come una penna a sfera e scrivere. Quante
firme, e quel collo di zebra classica più lungo, più
nero finché Victor
la ferma sul bianco da giocatore. È calmo
lui, anche in foia.

Salirò dalle pompe dell’intestino, lo prometto, come un bravo
marinaio al torace. Giacché finché non avrò un ricordo saldo almeno
quanto la matematica non sarò, poniamo, un uomo.

Nel sogno il mio cane seguiva due globi lucenti: a tre zampe
per camion e prati era tutto lui, tubo in fuori o cannone, le belle
labbra sui denti. Poi, finalmente cadde e disteso gli crebbe
la quarta gamba. Scordo
la psicanalisi alla porta del corridoio: è la memoria
a ossessionarmi, non l’orma della mente.

Dovrò farmela quella tavola pitagorica ch’è
il passato. Javier ad esempio. Scuole andare così una vita, non dà
carattere. C’è chi arriva a incontrarsi di schianto ma si mette
da torero di lato; poi sta lì, senza guardarsi nemmeno. Javíero
sembra una cosa uccisa da venti anni, quanti ne ha. Non so
ricordarlo, neppure i tanti amici che ci fissiamo un metro dietro
noi stessi. E poco, eppure in quel metro si casca
col difetto delle pernici.

Non trovo me stesso negli altri; se vedo è solo
il cavallo nero di Madrid, nel parco d’arte contemporanea. Lo guardo
dal cancello e sono l’unico a farlo. Alto quanto
una fonte ha il cervello all’aria, ferro, morto più ancora di Trinì
che si trincia l’ovale in due se le parlo. M’ama, in un bar, mi dà
ditate con fronte di carbone grezzo e io divago in mezzo a tutto,
in mare, con biblioteche che per fare bene davvero vanno ereditate.
Mica storie.

Così divago e giuro su altro: sui cannoni, imprese, sulle strade.
Per essere al passo compro il quadro d’una balena col corpo
aperto. Pare la più buona ghiacciaia del mondo, il fegato uranio,
e pompe e isolatori d’acciaio. Digerisce tutto, quel corpo, anche
fermo: gli occhiali dell’ottico Ochoa, le reclam sui muri, persino
un bottone vi vedo o l’ottone della memoria che credo importante
per un uomo. Sbaglierò?

In calle Prado 31 c’è un bracciale nella vetrina d’antiquario:
lo compro da sette mesi, gli dico ciao, sono bello nel dirlo. Allora
scordarmi della cultura m’ p are il più sublime segno d’essere
spietato. Me stesso. Per questo le biblioteche sono gole artiche che ho già
visto, forche; vi passo addosso mentre tanti pazzi dicendo “Musil”
o “rettorica” o, quel che è peggio “Borges”.

Sarò uomini in fila, sarò oggetti, niente individuale. Mi vedrò
distante al cinema, mai al centro. Tante strade, gente
che scordo. Sarò lo scordiere, il visiere, il marinaio che perde
acqua e in tasca si mette balene come ancore. Non si scorda certo
il mestiere. Questo almeno.

Davvero le idee globali non sono
molto, come dire essere rivoluzionari
non vedendo il contrario. Le chiameremo allora fedi ferme.

Se entro
in casa di Chelo, io
mangio. Ma chiunque può farlo, lo fa Guisando
che è un paese, lo fa il mondo e la radio, le malattie
e le bestie, qualunque idea giacché lei dice
che si ama in totale. E non sceglie.

Mi chiedo
se sia felice e anche altro. E perché
penso al gas di cucina sempre che odora fino a un metro e
potrebbe uccidere, ma l’hanno
così reso umano fino al silenzio. Di ogni
cosa dunque fanno tutti
il contrario. Allora?

Chelo non mi crede né capisce; ballano
le cose in tondo. Io non ho che un pensiero, niente
fede, chiodo magari: che l’amore
è parziale sempre e per sua
misura supera di poco l’altezza d’un cavallo ed è
solo ma uccide, per stare al mondo e fa bene,
chiunque altro.

Nota biobibliografica

Cristina Annino è nata ad Arezzo, si è laureata in Lettere Moderne a Firenze e ha esordito nel 1968 con Non me lo dire, non posso crederci, edito da Techne di Firenze. Del 77 è Ritratto di un amico paziente, edito da Gabrieli. Nel 79 esce per Forum di Forlì il romanzo Botler. Poi, nell’ 80, Il cane dei miracoli, Bastogi, Foggia. Nell’84 esce L’udito cronico in Nuovi Poeti Italiani n.3, per Einaudi. Pubblica in Spagna La casa del loco nell’87, per Huerga e Toda la ciudad al teléfono per le Edicciones Arràyan. Dell’87 è Madrid, Corpo 10, Milano. Poi, dopo parecchio, Gemello Carnivoro (2001) Faenza, e Macrolotto (2002) Prato, con Ronaldo Fiesoli.
Tante partecipazioni in antologie, con Garzanti, Einaudi e collaborazioni con riviste italiane e estere.
Di lei si sono occupati, oltre a Fortini, Almansi e Giudici, Elio Pagliarani, Walter Siti, Milo de Angelis, Franco Loi, Luigi Baldacci e molti altri. Nei primi mesi del 2008 uscirà l’ultimo libro di poesie, dal titolo Casa d’aquila.

20 pensieri riguardo “Tirar su con le mani tutta l’acqua del mare – Cristina ANNINO”

  1. Il mio grosso difetto è che mi sfuggono i nomi. dovrei sempre prendere appunti. ecco che mi fa piacere ritrovare qui Cristina Annino le cui poesie mi avevano colpito già quando le lessi su NI. Ne apprezzo la leggerezza con cui usa una lingua poetica moderna, scarna ma nello stesso tempo intensa.
    bravissima.
    lisa

  2. Un grazie a Francesco per questo panorama sulla poesia di Cristina!

    Ogni libro di Cristina è un mondo vivo, autobiografico, che si trasforma quasi come in certi sogni, dove ci sono le cose che conosci con un ordine completamente nuovo ed inusuale. Di tutto forse ciò che più mi colpisce è la presenza animale – una continuità fra i personaggi umani della poesia (la madre, Chelo, Pepe…) e i compagni silenziosi, le bestie che qui sono riconosciute sia nella loro identità animale, che in quella simbolica, di archetipi, di guide, che esprimono l’ineffabile.
    C’è una grande fisicità in queste poesie, data anche dal vocabolario semplice, ma continuamente reinventato. Forse, viene da pensare, Cristina Annino non scrive i suoi libri: li abita.

  3. grazie Francesco per aver confermato la mia impressione su questa poetessa incredibilmente troppo poco letta dai “signori dell’editoria che conta”.

  4. Grazie a Lisa, Francesca e Stefano.

    Sono contento di quello che scrivi, Stefano, e curioso di leggere il “seguito”…

    Penso (già dai tempi di “L’udito cronico”) che i testi di Cristina Annino contengano, in dosi massicce, la traccia evidente dell’autenticità, dell’unicità e della assoluta necessità: ciò che ne fa, ai miei occhi, scrittura essenziale di una grandisima voce poetica.

    fm

  5. dunque un viaggio che riprende; avevo lasciato Cristina su NI e su qualche conversazione privata, mi fa piacere ritrovarla qui. La sua poesia mi conferma un’idea di energia sorgiva, che scorre sotto il derma delle parole e ne modula segretamente le campate. E’ una poesia totalmente estranea alla dialettica classico/non classico-avanguardia, e tutta immersa nel proprio corpo per ricavarne il massimo di preziosa esattezza. Madrid è un testo molto bello. Pochi altri aggettivi da aggiungere

  6. La poesia di Cristina Annino è fra le migliori e voglio dire quanto sono lieta che «la nazione indiana» colmi il vuoto dell’editoria italiana offrendo la possibilità di leggerla. Ne vale sempre la pena: per la forza della sua intonazione, il modo insolito in cui vengono accostati oggetti, animali, persone, insomma per il suo linguaggio.

  7. Grazie Luigi, e grazie Daniela.

    La scrittura di Cristina parla e si presenta da sola, questo è certo. E allora grazie, sicuramente, a Nazione Indiana (in particolare a Franz Krauspenhaar); ma grazie, soprattutto, al lavoro, forse meno “visibile” ma “essenziale”, di Stefano Guglielmin e del suo blog. Solo i poeti veri e coloro che amano davvero la poesia sanno cercare e (ri)portare alla luce ciò che ha valore ed è destinato a rimanere. Contro l’editoria e contro il tempo.

    fm

  8. Conoscevo poco – pur apprezzandola – la poesia di Cristina Annino! Qui ho avuto l’occasione di colmare un po’ la lacuna e concordo con Daniela Marcheschi nel sottolineare come spesso la rete sopperisca a mancanze dell’editoria cartacea.
    La lista è lunga e Cristina è una di queste…
    Complimenti a Francesco per averla postata.

    Un caro saluto

  9. Una delle voci più assolutamente originali della poesia italiana. Una cifra insolita che nasconde un mistero. Come di ogni poeta autentico
    Grazie a Francesco e a Stefano per essersene occupati con tanta cura
    lucetta

  10. Ringrazio tutti per i commenti, ciascuno dei quali dà all’autore più di quanto chi li scrive possa supporre. E, senza retorica, ringrazio soprattutto persone come Francesco, Stefano, Franz, che si dedicano a questo lavoro di “trasmissione” della poesia con competenza e passione rigorosamente alte.

  11. Grazie Francesco per questo importante rilancio di Cristina sul tuo blog. Ringrazio anche l’amica poetessa Francesca Matteoni per avermi fatto conoscere questa straordinaria artista, Cristina Annino.

  12. Franz, hai fatto un gran bel lavoro coi tuoi post su NI dedicati a Cristina, che saluto e ringrazio, dandole un appuntamento qui, spero presto.

    Un caro saluto anche a Francesca.

    fm

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