Nevica e ho le prove – di Franco Arminio

[FRANCO ARMINIO]

E’ in uscita per i tipi della Casa Editrice Laterza di Bari, nella collana Contromano, il nuovo libro di Franco Arminio, Nevica e ho le prove. Cronache dal paese della cicuta. Lieto di poterne presentare qualche pagina in anteprima, ringrazio l’autore e l’editore per la cortesia.

A luglio i campi gialli delle stoppie,
il nero a settembre,
il verde stempiato e basso di novembre.
L’inverno a marzo finisce la prima volta
ma dovrà finire molte volte ancora
prima di finire veramente.
Il vento soffia ovunque sei,
il bianco della neve è ancora quello
del Cinquantasei.

NEVICA E HO LE PROVE
Cronache dal paese della cicuta

     Al mio paese l’inverno dura migliaia di giornate.
Ho quarantanove anni e ne ho passati almeno quarantacinque nell’inverno. Quasi mezzo secolo in poche centinaia di metri, esposto come un lenzuolo abbandonato allo stesso vento, alla stessa neve. Quella che viene ogni tanto, sempre da un lato, sempre da oriente, una neve che non cade mai calma, mai lenta, la neve che non si posa sui tetti ma s’incolla alle finestre.
Sono rimasto per credere alle nuvole, alla luce, al grano che sale.
Ho provato e comincio a trovare scampo e sollievo nei dintorni, ma per lungo tempo ho visto anime inerti, cuori senza punta, pronti a rotolare in ogni direzione. Paesi senza popolo, dove i muti in genere sono i più generosi.
Questo mio paese ha nelle vene sangue di mulo, ma nessuno sa mettergli ai piedi il ferro che serve a camminare. E allora si sta fermi dentro un dolore cattivo, dentro una gioia piccola e sottile come gli asparagi di bosco.
Il paese di cui si parla in questo libro è un teatro. All’inizio c’è un solo attore, poi prendono la parola in tanti, parole che si accavallano, fiati che rubano altri fiati. Siamo al mormorio dell’autismo corale, all’agonia ciarliera di un’epoca che ha reso poco credibile perfino il suo disastro.
Non è un paese vero, se così fosse sarebbe finto, come tutti. Il paese della cicuta è il luogo dove dio, la morte e la poesia si danno convegno perché altrove non li vuole nessuno. Stanno qui, ospiti clandestini della piazza: alberi, lampioni e panchine a cui nessuno fa più caso.

LA VITA ESPOSTA

     Quando penso alla vita mi viene sempre di accompagnarla con questo aggettivo: esposta. Quando penso alla vita penso sempre che è esposta alla morte. Come una casa che ha il pavimento squarciato da una faglia e da sotto spira il vento nero, il vento del thanatos. In effetti noi possiamo costruire muri e tetti per riparare la vita, ma non possiamo costruire pavimenti. Dovunque andiamo, anche sulla Luna, rimaniamo sempre appoggiati sulla Terra. Appoggiati fino a quando siamo vivi.
Anche quando penso alla scrittura mi viene sempre di accompagnarla con questo aggettivo: esposta. Penso sempre che la scrittura che non si espone è profondamente inutile. Sembra strano che una scrittura non si esponga, ma è una cosa che accade molto spesso. Comunque non si può impedire a nessuno di scrivere giocando a nascondino. In effetti anche chi si espone si nasconde, per il semplice fatto che appena ti fai vedere, immancabilmente gli altri chiudono gli occhi. Io credo di aver fatto questa esperienza con le donne. Con loro ho puntualmente registrato questa mia condizione di invisibilità. Mi ricordo certi discorsi fatti dai sedici ai vent’anni. Ogni donna che incontravo era occasione per un lungo discorrere. Parlavo per farmi notare, e questo parlare piano piano o velocemente mi sgretolava. Direi che l’unica variante era proprio il ritmo con cui avveniva la sparizione, sul fatto che sparivo ai loro occhi non c’era dubbio. Non ero corpo, ma una voce. Allora ancora non lo sapevo, io non parlavo di me stesso, ma di un caso, il caso Arminio. Esponevo la cosa più intima come fosse la cosa più distante. E dunque per nessuna donna era possibile capire chi era la persona che chiedeva intimità: la persona che parlava o quella di cui si parlava.
La faccenda tra me e le donne più che erotica è sempre stata semiologica. Tra me e loro c’era sempre la scrittura. Arrivavo a una donna portando la scrittura a cui mi avevano portato le donne precedenti. Invano chiedevo che fossero loro a scrivere, a parlare, lo chiedevo così fittamente che non c’era spazio per interrompere la mia richiesta. Non ci sono mai state novità in questi incontri. Alla mia esposizione seguiva il loro nascondersi e sparire. Io non ho mai lasciato una donna e non sono mai stato lasciato. Semplice dissolvenza. Destino normale per un dissoluto.

ADESSO

     Adesso sono le cinque del mattino, è stata una notte dal sonno superficiale, bucata da sogni cattivi. È chiaro che il sonno dipende da come abbiamo attraversato il giorno.
Adesso sto qui davanti al computer, aspetto la luce scrivendo. Ieri sera ho sentito nella casa che il buio si è fatto maligno, nella mia casa illuminata e col televisore acceso ho sentito il buio che sta in tutte le case chiuse di questo paese, case piene di ragnatele e di damigiane sfondate, con la carta da parati che si è scollata, con una bottiglia piena di polvere sulla fornacella, ho sentito che non c’è riparo da nessuna parte, che nessuna vita può difendersi da niente, siamo esposti, irrimediabilmente esposti a tutto, tranne che alla gioia, questo sento adesso stando qui, non so se è una situazione che riguarda tutti i luoghi o solo i paesi, non so se riguarda solo il mio paese o solo il mio corpo in questo paese. Ieri mattina all’edicola c’era un barista in pensione che aveva attaccato il suo disco sulle cose che non vanno, qui tutti parlano delle cose che non vanno, siamo tutti dei recriminatori, io mi illudo di essere un recriminatore poetico, ma non cambia niente. Ogni tanto ricevo qualche complimento, sempre uno alla volta, perfino qui adesso ricevo qualche complimento, ma ho capito che nemmeno questo mi serve. Neppure se mi eleggessero sindaco sarei molto contento. Credo che avrei semplicemente molta paura. Paura di morire per la fatica di dover sopportare tante critiche. Sarei un bersaglio facile. In effetti adesso mi sembra che non posso sostenere nessun compito impegnativo. Ieri sera spogliandomi per infilarmi nel letto ho pensato al sesso e al fatto che se incontrassi una donna che mi piace veramente ci sarebbe comunque il problema di poter morire nel momento del massimo piacere. Lo penso adesso, magari quando sei veramente dentro il piacere non lo fai più questo pensiero, scivoli dentro la tua vita e muori semplicemente quando devi morire e non come adesso che ogni occasione ti sembra quella giusta per morire. Non è che alla fine di novembre e al mio paese si possa pensare a molto altro. Stanotte ho dormito male anche perché ho sentito il dolore esausto di mia moglie. Lei non si mette a scrivere, ma ieri si leggeva sulla sua faccia la stanchezza di ripetere sempre le stesse cose, la stanchezza di sentire i miei lamenti e adesso anche quelli di mia madre. Adesso c’è una novità nella nostra vita ed è la presenza a casa di mia madre. Non ce l’ha fatta a stare nella casa grande da sola, in quella casa che era un ristorante pieno di gente e adesso è chiusa come le altre in una strada che serve solo a parcheggiare le macchine. Non era facile rimanere lì dentro per una come mia madre che pensa sempre di essere un’ammalata grave e che giorno dopo giorno mi ha insegnato questo pensiero della malattia e me lo insegna anche adesso che avrei bisogno di altri insegnamenti. Lei prima non si godeva la vita perché era impegnata a lavorare, adesso non si gode la vita perché il corpo funziona male e lei pensa solo al corpo che funziona male. Comunque questa faccenda di mia madre è la prima vera situazione stressante della mia vita. Nel senso che è una situazione senza uscita. Io mi sono spostato di due chilometri dalla casa in cui sono nato e lei mi ha raggiunto. Non deve essere un grande spettacolo per la mia sposa badare a due figli adolescenti e vedere questa coppia di separati in casa che siamo io e mia madre. Sicuramente non soffre di gelosia. Tra me e mia madre non ci sono effusioni che potrebbero fare ingelosire un’altra donna, c’è semplicemente questa mia insofferenza di essere rimasto qui, dentro un utero elastico che non si sfonda mai. Proprio in questi giorni mi veniva il pensiero che io con le donne non riesco mai a mettermi d’accordo perché faccio una richiesta enorme. Non chiedo di entrare in loro. La mia non è una richiesta di penetrazione, ma di inclusione. Io voglio entrare nelle donne per poi uscirne. Non voglio essere amato, voglio essere ripartorito. Come se nascendo una seconda volta potessi finalmente espormi alla vita, al suo vento, al suo calore. Sono infinitamente, penosamente avvilito da questa mia vita al chiuso, vita da fantasma che si nutre ormai solo delle sue stesse parole. Forse non sono mai stato partorito e forse non sono mai stato neppure concepito. Io sono il frutto di una gravidanza isterica che avrà fine solo con la mia morte o con quella di mia madre. Questo penso adesso, alle sei del mattino.

DISCORSO SULLA TERRA DELL’OSSO

     Il paese è esposto a nord. È un paese di cattivo umore. Contadini costretti a zappare controvento. Due ore di cammino per arrivare a una “mezza cota” piena di pietre. Prima ancora era un esilio di pastori, dunque una terra di gente abituata a passare molto tempo in solitudine. Solitudine, malumore. Infine la scontentezza e la paura tipiche di questo tempo. Ai mali suoi il paese della cicuta ha aggiunto quelli degli altri, quelli della piccola borghesia urbana traslocata qui dagli stipendi: gli insegnanti, gli impiegati al Comune o all’ospedale. Alla durezza, all’ostilità di sempre, all’attitudine a scoraggiare e a scoraggiarsi, si è aggiunta l’ipocrisia, la stitichezza emotiva. Vivere in un posto del genere significa consegnarsi all’infelicità. Poi si può solo decidere come sfruttarla. Sfruttarla per scrivere o per incentivare l’infelicità degli altri. Sfruttarla per circuire con un robusto anello di noia la propria infelicità in modo da non sentirla. A ciascuno il suo. L’insieme delle scelte o delle non scelte costruisce un luogo che è insieme secco e viscido, aspro e melmoso. Non ci sono spiriti tiepidi, accasati in una vita operosa e tranquilla. Tutti sembrano affaccendati, chi a costruire un fallimento già costruito, chi a salire una cima che non c’è. Infatti il paese è in alto, ma non ci sono montagne.
Il vento non muove solo l’aria, ma anche la terra. Il sottosuolo cammina, è fatto di argille sciolte, tegole informi che navigano in una cupa deriva geologica. Dunque, essere qui vuol dire essere in bilico, averla nel sangue l’idea del precipitare, l’idea di spaccarsi. Ecco il triangolo. La frana e il vento i due cateti. La miseria come ipotenusa mobile. Non più la miseria dei contadini, la fame fascista, non più il paese delle coppole e delle mantelle nere, ma la miseria spirituale di un popolo che non è più tale. Il nichilismo contemporaneo incrociato con la tragedia greca. L’autismo corale tagliato con l’accidia meridiana. Il pessimismo del Nord associato al vittimismo del Sud. Ecco la frontiera, il meticciato psichico e architettonico. Ogni casa esibisce un suo sgraziato stile, ogni anima una pena indefinita. C’è molto da studiare, molto da osservare e capire. Luogo d’avanguardia, luogo di capolavori dell’accidia, luoghi in cui la vita si sciupa nell’inerzia, nel passo millimetrato di chi non crede a niente. L’ebbrezza che ha lasciato il pianeta qui non si è mai vista. Al massimo si ride con cattiveria, si ride delle altrui disgrazie. Si parla dall’amaro, dal mal di fegato. Artrosi che storce anche gli umori verso una piega di perenne rancore. Nessuno è incolume e chiaro, nessuno è amato. Su questa base caratteriale è appoggiata un’economia postdemocristiana, un misto di pensioni, sporadici commerci, imprese senza slanci. L’emigrazione dei giovani da Sud a Nord, l’emigrazione dei vecchi dalle panchine al cimitero. La vita non scorre, si aggroviglia in una stanchezza agitata, in una sequela di giornate deluse e deludenti. Una severa condizione di disagio glocale, prodotto dalla mestizia antica della civiltà contadina e dalla cialtroneria spirituale della modernità incivile. Non siamo nell’alienazione urbana e neppure in quella rurale. Una condizione in cui convivono il mondo di De Martino e quello di Augé. La terra dell’osso di Rossi Doria e la terra liquida di Bauman. Strani incroci di un luogo che non è più retrovia, ma laboratorio della nuova epoca. Un’epoca allo stesso tempo sfinita e affaccendata. Un’umanità postuma e infantile. I vecchi diventano decrepiti e i giovani non diventano adulti. Le strade dell’agonia sono infinite, quelle della salute sono vicoli ciechi. Ci si ferma, ci si addormenta appena cala il tasso di dolore. È sempre la solita storia: la vita se non è terribile ti sfugge.

***

26 pensieri riguardo “Nevica e ho le prove – di Franco Arminio”

  1. grazie francesco. con questo post inizia la navigazione pubblica di un libro che per anni e anni ho tenuto in grembo. a un certo punto ho temuto fose una gravidanza isterica e invece è uscito….

    1. Grazie a te Franco ,hai partorito questo prezioso libro, lho letto e mi ha emozionalto . Anni fa sei venuto a Caivano nella biblioteca comunale dove hai presetato terracarne in cui scrivi alcune impressioni del paese. Ciao Franco

  2. A Franco: A di là del sensoriale, sarà forse l’ ultimo respiro a rivelarci il mistero del senso checi fa vivere, desiderare e morire ..di desiderio?
    Dopo il viaggio di una vita nello spazio- tempo del corpo, è questo il destino della libido maschile e femminile?
    Lo sapremo mai?
    E perchè la nostra esperienza umana non potrebbe essere una battuta a vuoto, come quella che si scandisce prima di cominciare un’ esecuzione musicale?
    A questo proposito,

  3. ( chiedo scusa, è la connessione che fa da intrigante..voyeur ! ) continuo..-

    Tutta la nostra vita segue la misura dei nostri condizionamenti agli altri, strettamente implicati nella comunicazione, agli altri in accordo o meno; noi l’abbiamo scandita, questa musica interiore, le abbiamo scandite, le nostre parole espressive.
    Al momento di lasciare il corpo forse siamo come il musicista che depone lo strumento che suonava- musica per le orecchie degli uomini e le sue.
    E’ in una musica mai ancora ascoltata, in parole non ancora scritte o mai dette-lette che il nostro intelletto comincia allora a sperare, in sentimenti al di là di quelli che il nostro cuore inerte ha potuto farci conoscere, e che si sono tutti originati dalla sofferenza delle nostre separazioni e- o congiungimenti.
    Dopo che il nostro corpo sarà ritornato alla terra- essendo costituito di una combinazione dei suoi elementi- quale parola sgravata di segni, sgravata di sentimenti, quale parola impronunciabile dalla nostra laringe umana sentiremo, a sigillo della verità di questa lunga vita, la lunga vita di un istante nell’ eternità? E INTANTO, CADE ANCORA LA NEVE…. Marlene

  4. Ritorno per un pulviscolo di istanti: ho dimenticato di congratularmi con Franco per il..come chiamarlo? Lo chiamo BELLO, MISTERIOSO, GLACIALE e SANGUIGNO “INSIEME” …
    e come dimenticare il Re-Mida Francesco? Grazie all’ AUTORE ed a colui che sa vedere sempre l’ oltre. Marlene
    PS. intrigante?! ..Giò io lo sento così..

  5. Franco, non era una gravidanza isterica, il libro è veramente notevole, all’altezza del “Circo” e di “Vento forte”. E, forse, anche con qualcosa in più…

    Marlene, grazie, come al solito, per i tuoi contributi.

    fm

  6. Arminio, io ero e resto innamorato della tua scrittura e del tuo mondo.
    Sei una delle poche voci autentiche di questo paese sgrammaticato e insulso che sono le Lettere italiane.

  7. Avrei avuto gran piacere di analizzare, e tentare di ricomporre, insieme agli ospiti de la DIMORA tutti i tasselli che compongono l’ insieme di questo racconto di Franco Arminio. L’ho trovato estremamente interessante sotto diversi aspetti, riconducibili al tema vita- morte ed incapacità di trovarne il senso, perfino nella carica erotico-amorosa.
    Arminio afferma che il rapporto col pianeta Donna, viene da lui affrontato in chiave semiologica, più che erotica.
    La Parola dunque, riconducibile alla modalità del linguaggio che ci proietta aldifuori del solipsismo neonatale.
    * Il paese della cicuta* (erba velenosa da ingerire per i suoi effetti letali) è quello in cui F. A. fa “vivere ” dio, la morte e la poesia. “Qui si danno convegno- scrive- perchè altrove non li vuole nessuno”.
    Però nel contempo afferma che “stiamo attaccati alla terra in questa ” vita esposta alla morte”. E le parole si rivelano inutili anche se ” esposte” perchè non godono dell’ interesse altrui.
    La paura della fisicità, dunque, della parte antica del cervello che
    la re-clama. Ed allora la compensazione attraverso la parola, inutile chè non realizza tuttavia il desiderio, rimasto inappagato- irrisolto.
    Situazione stressante: “la separazione in casa con la propria madre”.
    Ed ecco di nuovo l’ erotismo fa capolino e-o il sesso? Arminio dice- fa dire al personaggio ” io non voglio essere amato, ma Ri- PARTORITO”.
    Non vuole -vuole entrare nella parte femminile della donna-madre.
    Ma non tiene conto che la situazione anagrafica rende ardua l’ impresa.
    La madre attraversa lo stadio estremo della vecchiaia regredita, in cui uno stato di bisogno paterno- materno viene passivamente espresso sotto forma di fobia generalizzata per ogni forma di vita, ogni movimento, ogni emozione; di un’ insicurezza di vivere, come se vivere non potesse che affrettare l’ arrivo del termine della vita! Drammatizzare, lamentando la malattia e profetizzando catastrofi che coinvolgono l’ intera famiglia, ma sopratutto se stessa la madre, ed il figlio.
    Il fine è quello di diventare con tutti i mezzi la preoccupazione maggiore;mettersi in competizione;fuggire un’ assediante angoscia di morte: questa è l’ essenza della vita inconscia di questa madre.
    Che l’ ha trasmessa al figlio.
    Che spera , attraverso la rinascita di trovare ampi spazi;non vivere più al Chiuso di questo Regno Naturale in cui i colori Giallo, Nero, Bianco sono dominanti. Nevica sempre nel paese di Arminio.
    la Neve immobile e gelida è la cornice.
    E non servirebbe rinascere, pechè la Vita sarebbe comunque esposta alla Neve, cioè alla Morte. Ciao, Marlene

  8. in effetti questo libro raccoglie testi scritti, me ne accorgo solo ora, in una condizione emotiva molto particolare. una condizione da cui forse sono uscito e nella quale non potrò più tornare. la combustione che c’è in certe pagine di questo libro credo che non mi sarà più accessibile. voglio qui ringraziare marotta per l’attenzione che dedica al lavoro altrui, attenzione veramente eroica in questi tempi di autismo corale.

  9. Sembrerà paradossale, forse, ma penso che Arminio, tra gli scrittori che conosco, sia il meno autobiografico di tutti, a dispetto di ciò che una lettura superficiale, o frammentaria, dei suoi testi può immediatamente suggerire. La tensione etica e conoscitiva che anima la sua scrittura, infatti, utilizza il dato personale (anche in riferimento al paesaggio e alla sua lettura tutta interiorizzata) in una funzione particolarissima, una vera e propria, incessante, “somatografia radiante”: la centralità del “corpo esposto”, con tutte le ferite ben in evidenza, caricate di un surplus di voce che vorrebbe compensare e colmare il “vuoto” di parola e di senso che le ha prodotte, agisce come una parete riflettente, che prima ingloba e assorbe tutti i dati della realtà esterna ed interna che vi si specchiano, e poi li rimanda sulla pagina come “figure” di un perpetuo peregrinare di natura ermeneutica e con finalità demistificante. La rete di rimandi – di voci, suoni, grida, vertigini, silenzi, immagini – che si inseguono, si cercano e si compenetrano attraverso i vari testi, come tessere di un mosaico che sembra rifuggire il centro unificatore a cui incessantemente aspira, è un potentissimo “connettivo” di chiara matrice allegorica (nella più piena accezione dantesca del termine).

    Di una ideale trilogia comprendente le due splendide opere precedenti – “Circo dell’ipocondria” e “Vento forte tra Lacedonia e Candela” – “Nevica e ho le prove” rappresenta il vertice, umbratile e luminoso nello stesso tempo, sicuramente superiore sul piano del controllo formale della materia. Messa da parte una certa indulgenza liricizzante e la propensione antropologica (la “paesologia” come “antropologia dell’anima”), a tutto tondo, ad attraversare il “paesaggio” in funzione di un recupero possibile dei “materiali umani” superstiti (possibilità che si trascina, pur sempre, il rischio di uno “sguardo nostalgico”), in quest’ultimo libro Arminio opera una sintesi stringente, necessaria e “feroce”, di tutti gli elementi del suo immaginario e della sua poetica, dandone una rappresentazione “sacrale” che è puro disvelamento, senza concessioni, della sostanza tragica di cui è materiato il presente.

    Un libro grandissimo.

    fm

  10. Concordo. Davvero grandissimo questo Autore a me , dapprima, sconosciuto.
    Che ” DISVELA, SENZA CONCESSIONI LA *SOSTANZA* TRAGICA DI CUI IL PRESENTE E’ *MATERIATO*. “.
    Autobiografico o no, gli spunti di riflessione sono molteplici, in una scrittura che avvince. Grandissimo! Marlene

  11. Marlene, se clicchi sul nome in rosso, in alto a destra in parentesi quadra, ti si apre una panoramica su tutti i testi di Arminio presenti nel blog.

    fm

  12. caro francesco
    la tua è la prima recensione al libro. mi ha scosso!
    e mi conferma nell’idea che il lavoro non è mai inutile, che qualcuno alla fine ci raggiunge….
    veramente dovrei scrivere un libro sulla storia di “nevica e ho le prove”.
    sono arrivato al libro che hai visto dopo centinaia di versioni, dopo anni e anni di prove. adesso non mi aspetto niente. so benissimo che non è di libri come il mio che si può nutrire la pagliacciata a cui si è ridotta la nostra nazione

  13. Caro Francesco, l’ ho già fatto.
    Credo di non aver mai abbondato con le parole come su questo INSIEME di F: Arminio e su un altro racconto precedente…Quello di Ivano.
    Mi stai drogando! Me che non ho mai fumato neppure uno spinello.
    Suonavo e cantavo Dylan ( Hey mr. Tambourine man..) per chi li fumava, però…Marlene

  14. Le parole di Francesco sono perfette. La “somatografia radiante” di Franco fa di ogni sua opera una “mise en abyme” del biografico in un vortice che ci compenetra tutti – “corpo esposto” nell’arcipelago delle sue pulsioni.
    Leggerò con gioia il tuo nuovo libro, Franco.
    Marco

  15. Grazie Marco, mi sono inventato un’espressione che potesse rendere, in un colpo solo, ciò che la commistione poiètica arminiana mi ispira ad ogni lettura. E’ stato un lampo, ma non ti nascondo che ho avuto paura che qualche critico di mestiere, passando, si fermasse a raccogliere pietre per lapidarmi. :-)

    fm

  16. Da quello che leggo, da queste particole, sono d’accordo con quello che scrive fm nella sua nota.
    Forse De Luca direbbe che questa è poesia che non va troppo spesso a capo.

    ft

  17. Una vita esposta a nord:
    fatta di vento,
    che scava solchi,
    come trincee
    che scrutano la vita,
    piena di battiti inutili
    nascosti
    dentro un vestito
    muto.
    Siamo un’agonia collettiva
    e Tu, Franco, ne hai le prove…

  18. “Non voglio essere amato, voglio essere ripartorito.”
    per questo penetri il lettore. che poi ti fa l’amore-
    mi ha molto affascinata questa anteprima, questo assaggio che fa desiderio.
    Avverto un passo epico che mi piace molto.

    Il gelo comunque ispira, sarà per via del bianco che trascende
    penso ( “Ecco il triangolo. La frana e il vento i due cateti. La miseria come ipotenusa mobile..”) a Cartesio, che proprio quando restò isolato dalla neve in una cittadina della Germania iniziò a filosofeggiare.

    complimenti
    ciao

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