Speranza

Raffaella Terribile

Gustav Klimt
Die Hoffnung I, II
(1903, 1907)

La presentazione al pubblico di Speranza I avvenne in occasione della Kunstschau del 1909, a sei anni dalla sua realizzazione: la Vienna benpensante avrebbe difficilmente accettato un soggetto così scabroso, e questa considerazione dissuase l’artista dall’esporre l’opera alla sua mostra personale organizzata nel 1903 dalla Secessione, una prudenza evidentemente giustificata, dato che il suo primo proprietario, l’industriale Fritz Wärndorfer, finanziatore delle Wiener Werkstätte, la teneva coperta per evitare scandali. Klimt ci ha abituati a personaggi femminili inquietanti, ad atmosfere morbose, ma in quest’opera spinge in maniera evidente nella direzione di un sovvertimento dei valori positivi tradizionali, attesi dal titolo stesso e dal soggetto. La Speranza viene allegoricamente rappresentata nella figura di una giovane donna incinta, completamente nuda, teoricamente piena di promessa e di futuro, immagine che al contempo allude all’incontro intimo avvenuto dentro e fuori di lei. Incontro d’amore da cui è sorto quel corpo che ora lei contiene nel suo, che la tradizione vorrebbe morbido accogliente, opulento, una poetica esaltazione della carne femminile, soffice terra dell’attesa e del miracolo. Qui non troviamo nulla di tutto questo. La donna è di una magrezza e di un pallore malsani: sotto una massa di capelli rossi, il viso appare ossuto, gli zigomi sporgenti, gli occhi cerchiati, le labbra serrate. Il seno appare leggermente cadente e piccolo, braccia e gambe sono magre, i glutei addirittura scavati. Su tutto emerge un ventre sproporzionatamente prominente, esaltato dalla posizione di profilo, estraneo al resto del corpo. La donna raccoglie le braccia al seno, intreccia le mani in un gesto di protezione e di difesa e non nell’abituale posa delle future madri, che appoggiano le mani sul ventre in un atto di carezza spontanea. La testa è girata, lo sguardo ceruleo puntato sull’osservatore, l’espressione seria, la nudità del pube esposta, se non esibita. Una maternità che non conosce dolcezza, questa, ma che appare pervasa da un vago senso di inquietudine, denunciato dalle irregolarità che si percepiscono nel corpo, nel gesto, nello sguardo. Dietro di lei, sopra al serico ondeggiare di preziose stoffe colorate, aleggiano tre presenze, volti femminili, più o meno deformati, e un teschio all’altezza della nuvola rossa dei capelli della donna: “demoni della vita” per Ludwig Hevesi, oscure minacce alla vita del nascituro, ma non del tutto estranee alla stessa madre, che ambiguamente porta una corona di fiori bianchi, simbolo di purezza, su una chioma fiammeggiante, tipica delle donne-sirene di Klimt. Queste oscure presenze, che richiamano quelle di un dipinto di qualche anno prima, Amore del 1895 (una contaminazione tra il tema della Vanitas e quello delle età dell’uomo, affrontato nel 1905 con la celebre opera Le tre età della vita), potrebbero rappresentare le Parche, in posizione di ieratica attesa prima di iniziare a tessere il filo della vita del nascituro, una vita certo non facile, non di gioia, ma di angoscia e disagio. Ma ad attendere la nascita del bambino è anche un mostro nero, dalla coda di serpente, un “grande divoratore” che prende in un laccio le caviglie della madre, protendendo verso il suo ventre un’orribile zampa artigliata. Sulla testa del mostro una fila di fiorellini bianchi: una metamorfosi, un presagio di trasformazione della donna inconsapevole? In maniera piuttosto curiosa, questa figura sembra anticipare di qualche anno l’archetipo della Grande Madre di Jung (1912): da una parte il polo positivo della femminilità, che riassume in sé fecondità, nutrimento, protezione (madre buona), dall’altra il polo negativo: l’abisso, il segreto, l’oscuro, il mondo dei morti, ciò che seduce, divora, intossica (madre cattiva), simbolo dell’inquietudine e delle ombre dell’inconscio. Il teschio sospeso sulla testa della donna, con la sua stessa inclinazione, suggerisce un parallelismo inquietante, che non può essere casuale. Ludwig Hevesi, che conosceva da vicino Klimt e le sue idee, parla di “dipinto simbolico, moderna versione del motivo trattato da Albrecht Dürer in Il cavaliere, la morte e il diavolo, fra le opere più celebri e conosciute del Cinquecento tedesco, dove, seguendo un’idea di Erasmo da Rotterdam, Dürer rappresentò un monumentale cavaliere cristiano che procede ignorando la morte (con la clessidra in mano) e il diavolo che si avvicina da dietro tenendo in mano una picca. In ogni caso, concepita all’interno della Secessione Viennese in un clima di emancipazione generale, l’opera di Klimt potrebbe essere letta come un attacco alla mentalità conservatrice e perbenista della società viennese dell’epoca, scandalosa nel tema, angosciosa nella compressione – in un formato verticale – di più figure dai tratti inquietanti. Stilisticamente agli albori della fase “d’oro”, seguita al viaggio a Ravenna del 1903, il dipinto presenta un accento cupo che anticipa i tratti tipici dell’Espressionismo: nella testa deformata da una smorfia in alto a sinistra, un artista giovane e disperato, scoperto dallo stesso Klimt, troverà un motivo di ispirazione che sarà poi la sua cifra stilistica distintiva: Egon Schiele.

Quattro anni dopo, Klimt riprende il tema con Speranza II, accompagnata dal sottotitolo Visione, fecondità, leggenda. Una rivoluzione copernicana, una visione della maternità assolutamente antitetica, in apparenza. La tela è di formato quadrato, tipica degli anni della maturità dell’artista, come tipico è il fondo d’oro puntinato, che annulla la percezione dello spazio fisico reale ponendo la figura in un’ambientazione “cosmica” che verrà utilizzata anche nel celebre Bacio dello stesso periodo. La figura della madre è in posizione centrale, unica protagonista, in un atteggiamento di sospensione: il volto di profilo, lo sguardo abbassato sul ventre, i seni scoperti ma il corpo avvolto da preziosi tessuti arabescati, un mosaico composto di tasselli preziosi che denunciano l’incontro con gli ori e le paste vitree dei mosaici ravennati. La mano destra è leggermente sollevata, quasi a scandire con gesto misurato le parole di un dialogo silenzioso fra madre e figlio. L’oro dello sfondo, la cromia accesa, l’atteggiamento dolce e meditativo della madre sono quanto di più lontano possa esserci dalla prima versione di questo tema. Ma quando lo sguardo scende nella parte inferiore del dipinto scopre alcuni elementi che riconducono all’opera del 1903: fra gli arabeschi dell’abito tre figure femminili, in atteggiamento di dolente preghiera, a capo chino, ad occhi chiusi, con le mani alzate a prendersi il volto. E ancora, risalendo sul ventre della madre, ecco che si scopre inopinatamente un teschio sospeso, appena appoggiato, per così dire, ridotto a pura decorazione ma evidentissimo. La figura, costruita in gran parte dall’incastro di tasselli con motivi floreali stilizzati, non perde la sua solidità e soprattutto la sua dimensione psicologica, di meditazione compunta. Una visione della maternità dunque meno disperata, meno inquietante, ma pur sempre pervasa dall’oscura presenza di un destino ineluttabile, di un presagio incombente, di una bellezza malata e struggente in cui le “malinconiche armonie dei colori spenti, cinerei, perlacei” (Argan) si mescolano al vividi bagliori dell’oro, dell’argento, delle gemme, degli smalti. Arte preziosa, pagana, simbolica, quella di Klimt, che incrocia la splendida ed esangue arte bizantina in una stagione ai limiti della fine di un’epoca, dopo la quale saranno le Avanguardie a tracciare il percorso di una nuova civiltà. Esposta nel 1909 alla Kunstschau accanto ad alcune opere di Egon Schiele, Speranza II mostrò agli osservatori il suo apparentamento con le figure femminili di quest’ultimo, brune, pallide e smunte, evidenziando la forza del dialogo fra i due protagonisti indiscussi della Secessione Viennese.

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15 pensieri riguardo “Speranza”

  1. Speranza e minaccia, un confine sottile. Questa sarà, di lì a poco (dal 1908 al 1912), la Vienna dove il giovane Hitler si aggirerà come un’ombra e tenterà inutilmente la carriera d’artista, accumulando le prime incandescenti frustrazioni. E’ una città magnetica che attrae ricchi e poverissimi,un laboratorio multiculturale di idee, ma anche di spaventosi contrasti sociali. E’ la città di Kraus, Canetti, Zweig, dove in questi anni matura il senso terribile della “finis Austriae” della “Cacania” di Musil. E’ la città dove l’inconscio muove i primi passi. Chi meglio di un artista come Klimt poteva esprimere tutto questo, senza parole e con sguardo potentemente profetico?

  2. Adorabile Klimt. sensualità e inquietudine fuse in arte. le sue immagini lasciano sempre una sensazione ambigua, sibillina, eppure densa, che induce a cercare a lungo, a farsi domande sull’umano. qui
    sul mistero del femminile (lo sguardo della donna, potente.)

  3. secondo me c’è, come ben sottolinei nella tua lettura, una terrestrità: striminzita, smunta, contrastata, nella prima raffigurazione, in cui l’attenzione è concentrata sulla singolarità (in doppia chiave di lettura del termine) dell’evento. L’individualità dell’uomo, il tramite della donna, il coro delle presenze che non hanno forma,come collettività sono teschi,la storia è morta,il passaggio da un essere ad un altro è semplicemente quella stentata abnorme figura femminile esposta, il centro del suo ventre è il globo. Nel secondo, invece, la cosmicità, la completa immersione in un mondo che non ha confini ma è spazio, senza tempo, trova nella naturalità (letto anche questo come origine e come modalità) la continuità del tra: passo dal singolo al collettivo, dentro un solo seme da cui tutto scende,discende, come un albero cosmico in cui il frutto sono tutti gli esseri e la loro sorte, sia essa luminosa, lucente di futuro e vita, sia essa soggetta al trapasso della morte, poiché nulla finisce in questa nuove situazione, tutto è ora, nell’oro del quadrato, misura perfetta, fatta, fatale,fatata.
    ferni

  4. Splendido questo post, dettagliata e ammirevole esposizione di analisi e sentimenti ideatori. Cura nella ricerca estetica e ideale del periodo. La Wiener Werkstätte si ispirava alle Arts & Crafts inglesi, a Morris a Ruskin. Io custodisco gelosamente diversi numeri di The Studio ed ho quelli del 1909 che si riferiscono alla Kunstschau. Simbolismo, la parola chiave, Simbolismo del ventre prominente che vince la scena e guarda verso la sinistra del confine visivo, guarda al passato…la fonte di ispirazione, l’inconscio, Dante Gabriel Rossetti e i Preraffaelliti…Un onirismo lirico e poetico. L’interpretazione dei Sogni di Freud fu pubblicato in tedesco nel 1899, le ali nere del divoratore, il nero di Klimt potrebbero essere quelle della morte del becchino (anni 1890) di Carlos Schwabe..la poesia di Mallarmè e di Emile Verhaeren. Grazie per l’ispirazione.

  5. Certi poeti dovrebbero imparare a muoversi nelle cose della vita (dunque della poesia) come si muove la scrittura di Raffaella nelle cose dell’arte…

    (mi riservo ulteriori commenti perché poi mi si incolpa di perdere il senso “critico” quando leggo i testi suoi…)

    -elio

  6. Grazie a tutti per gli interventi, in particolare a Elio che mi ha dato la possibilità di scoprire questa eccellente scrittura che sa aggiungere nuovi colori e nuove forme agli oggetti che indaga.

    fm

  7. sono felice di leggere l’incontro di due persone che stimo molto e per le quali nutro affetto, francesco e raffaella. un abbraccio a entrambi, franz.

  8. affascinante lettura critica della dott.ssa r. terribile su capolavori assoluti della storia delle idee e una cosa in particolare mi ha colpito: la totale mancanza di retorica su pezzi sin troppo banalizzati da lettura manieristica anche un po’ morbosa.. scrive davvero con perizia, passione, intelligenza..

  9. Sono d’accordo con te, Roberto. Nei prossimi giorni uscirà un altro suo articolo – ancora più bello, per molti aspetti.

    fm

    p.s.

    Mi sono permesso di correggere il nome dell’autrice nel tuo commento.

    1. francesco correggi pure, con la tastiera resto un disastro cronico! pensa solo che, nello scrivere una cosa per il grande mario luzi, commisi un errore di battuta che, a leggerlo, sembrava idea… “PORNO”! mario luzi, da toscanaccio ironico, comprese la mia gaffe e ne parò con dolcezza in sede di incontro universitario a firenze tra mio rossore e imbarazzo e poi sorrisi complici! volevo morire però in quel momento!

  10. vedrai francesco, presto, nuove sorprese sue…
    raffaella ha una risolutezza verso certi aspetti dell’arte, priva appunto di retorica accademica, che ogni volta mi fanno riconoscere il volto delle cose finite – “finite” nel senso di venute al mondo.

    in qualche modo ti abbiamo “eletto” suo portavoce, e non potevi essere che tu… non ho mai avuto dubbi su questo.
    da me e da raffaella, soltanto grazie.

    elio

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