A Paola Febbraro

Massimo Sannelli
Paola Febbraro

“Cercavo una scrittura universale più che una lingua: una scrittura capace di essere letta e compresa da tutti senza bisogno che per questo si dovesse ‘saper leggere’ ma semplicemente ‘guardare’ le parole sulla pagina.” (Paola Febbraro)

Massimo Sannelli
«Dentro sono complessa». A Paola F. Febbraro

 

      1.
Chi sa scrivere «senza un obiettivo immediato» abbandona presto, per passione e per necessità, e con perfetta letizia, «il piano sul quale passo dopo passo si scava la propria vita percorrendola»: questo principio riguarda anche i due libri di poesia di Paola F. Febbraro (A fratello Stefano, La volpe e l’uva, Bologna 2000; La rivoluzione è solo della terra, Manni, Lecce 2002). Allora «si orientano i propri pensieri nella direzione della profondità o dell’altezza. Perpendicolarmente al mondo. Ma ci sono molte rette normali passanti per il punto di mondo in cui si scrive questo, direzioni ad angolo retto l’una con l’altra, e l’orientamento dei pensieri cade ogni giorno diversamente, all’incrocio fra una volontà di lucidità e l’umido di cose di cui i pensieri sono zuppi, e che sarebbe colpa tradire. È come gettare ogni volta i bastoncini per dire la fortuna, e tracciare ogni volta un fascio di sorti differenti: mai, però, lo sguardo che vede davvero, lo sguardo che sa seguire la curvatura della vita oltre l’orizzonte del respiro». Così la scrittura rigetta l’illusione del realismo puro e propone oggetti che non ci sono ancóra e un soggetto, uomo o donna, che deve ancora apparire compiutamente: «Si scrive per trovare un respiro più lungo. Ma ciò che si traccia è piuttosto il piano tangente a se stessi, la direzione in cui si sfuggirebbe se oggi ci si trasformasse all’improvviso in un essere di immaginazione e incapace di peso, un ens rationis»(1).
     Il realismo scritto incorpora i dati del presente e si infutura «oltre l’orizzonte», da creare, «del respiro» (La rivoluzione, p. 17: «davvero la costruzione dell’essere serve a qualcosa mi chiedo mentre riposa»). Questi passaggi avvengono intorno alle cose minori, con cui il soggetto e il suo corpo si relazionano: «il mio era come / un ritrarmi attorno / a fondi di bicchiere ad angoli di carta // i pugni nel cassetto» (A fratello Stefano), «lo straccio che dà frescura alla mia mente è di canapa ruvida / il lino degli asciugamani di Marsciano intatti quei colori / sembra per sempre» (La rivoluzione, p. 51).
     La scrittura di Febbraro è contemporanea, ma non simile, a modelli contemporanei. La sua poesia è purificata dalla letterarietà (compresa l’appartenenza ad un ambiente): «Cercavo una scrittura universale più che una lingua: una scrittura capace di essere letta e compresa da tutti senza bisogno che per questo si dovesse ‘saper leggere’ ma semplicemente ‘guardare’ le parole sulla pagina. Le parole dovevano essere così elementari e così attaccate a quello che ‘portavano’ da non poter essere mai fraintese. Quel tutti era: il ‘genere umano’ e anche, estremisticamente, la vita ‘fisica’ ‘chimica’ ‘biologica’ nell’universo»(2). L’abbandono delle tecniche, in nome di una «scrittura universale», non porta al disordine stilistico: solo – ed è fondamentale – all’inappartenenza e alla metamorfosi del soggetto che non fornisce più omaggi all’ambiente. Quel soggetto scrive qualcosa che non può non dire, e senza obiettivi esclusivamente letterari. Come non si volta chi a stella è fisso, chi si dedica ad una «scrittura universale» e onora il «lavorìo del mondo» (La rivoluzione, p. 9) non si occupa di microambienti.

     2.
Incorporare l’esterno e renderlo un film mentale significa una cosa ovvia: il film descritto in forma di parole non sarà realisticamente il fatto, ma la sua rappresentazione; e la rappresentazione sarà metalinguistica nel momento stesso in cui mostrerà i fatti, perché, con i fatti, avrà mostrato sé. La metalinguisticità è potente, in alcune scritture di donne: proprio perché la lingua vi si può configurare come una conquista del gender e un compromesso con le ambizioni dell’uomo. Chi scrive (bene) ha acquisito una capacità, anche tecnica, che stimola messaggi all’interno della sfera umana, che per sua natura inventa storie e discorsi per manifestarsi. In un libro non c’è più la sola confessione delle cose, ma la loro proiezione e il loro disciplinarsi come testo; nel libro di poesia di una donna, è possibile che vi siano anche la coscienza e la dichiarazione di un amore per la parola, il più possibile «universale»: per esserlo deve essere condivisa/condivisibile al massimo nei suoi contenuti, oppure ridurre la comunicazione dei fatti e musicalizzarsi (la musica è veramente ed essenzialmente universale).
     Le tre vie – condivisibilità, semplificazione, musicalità – coesistono, in alcuni casi: «fonda è un colore una tinta fonda / mio nome bifronte materia severa di una parte di me fonda è quel suono gong della sera / fonda solo adesso che la scrivo mi tiene compagnia / forse la scrivo perché l’ho sentita mia amica fonda: / un’amica» (La rivoluzione, p. 16: ed è quasi la traduzione in positivo dell’abiura di Amelia Rosselli dalla rima in -e, in una delle poesie più sconvolgenti di Documento).
     La vera filologia (amore per la parola) comporta due cose: l’autoriconoscimento (della donna) come funzione orale/orante e la metalingua insinuata nel corpo della lingua, con frammenti e interi testi sulla parola e sulla poesia.  Quindi, con forza, le funzioni del dire e la meraviglia di poter dire il mondo (di potere qualcosa, non nulla), e dirlo dall’interno del mondo, come producendolo: «nessuno ti dice perché custodisci / e se è l’opera a custodire se stessa allora ci nascono i figli / come lunghi alberi silenziosi» (La rivoluzione, p. 58). Viene prodotto un suo simulacro parlato e scritto, il più possibile fedele alle trasformazioni e ai nessi e al «lavorìo» del mondo: «contatti che curano l’evoluzione stessa, coerenza, che sarà coesione estesa a tutto il tessuto di informazione in accordo con le pulsioni stesse dell’individuo»(3).

     3.
Parlare di pulsioni dell’individuo e di «scrittura universale», di «diversificazioni nella materia vivente»(4) e di unghie (Elisa Biagini) (5) e piedi (Florinda Fusco) (6) significa – varrà, qui e altrove, come ipotesi di lavoro – «poter correre con il proprio corpo / avere il corpo»(7).
     Il corpo è luogo e argomento del pensiero, come mostra Rosaria Lo Russo nelle prime pagine di Comedia: «Se non pensasse il suo corpo non si penserebbe» (e infatti comedia viene legato a comedere) (8). Luogo e argomento, sia come cavità («Into the uterine heavy butterfly / There is a couchette») (9) sia come luogo della liquefazione – il corpo «si sfalda» (10) – e del sangue («liquefazione o madre mia liquefazione / sutura e condensazione / (una lattina aperta)» (11). Dove il flusso può implicare associazioni di idee che per il lettore-uomo saranno frustranti, perché irraggiungibili e inimitabili: l’engagement di Rosselli a partire dal corpo («quale nero profondo impegno nelle mie mestruazioni»: Diario ottuso, 25 marzo 1967) e il riposo/risposta di Febbraro (mestruazioni a notte fonda, in La rivoluzione, p. 45: «ogni volta anche nel sonno anche se dormo / questo mio sangue è una risposta a tante domande»).
     «Ho le mani il sangue / dentro sono complessa» (La rivoluzione, p. 35). La riapparizione poetica del corpo sembra più un elogio della materia («non mi sento ora oggetto tra gli oggetti ma carnale») che un caso di materialismo. Prima di tutto, e indubitabilmente, «i piedi poggiano sul pavimento» (12) e «lascio che salga dalla pianta dei piedi questa liberazione // è come se il tempo entrasse così dentro il mio corpo // e così cammino respirando ogni lento passo dei miei piedi» (La rivoluzione, p. 55). Il resto viene di conseguenza: «l’unica cosa che conta per cambiare lo stato di cose sono le cose concrete» (p. 14). Qui teorizzare è un atto che tende all’ibridazione. La teoria accompagna la creatività, come la metalingua accompagna e perfeziona la lingua: la teoria non ha nulla di astratto, quando si fonda sulla terra dei piedi e sulle «cose concrete». Di tutto il resto, che cosa poteva importare davvero a Paola?

 

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Note

(1) Le frasi virgolettate provengono da un post di Paolo Cavallo (1° dicembre 2004) in http://paolo-cavallo.splinder.com.
(2) Paola F. Febbraro, dell’io e del tu senza corpo nella poesia delle donne, in «Ulisse», 2 (2004), rivista elettronica all’interno del sito www.lietocolle.com.
(3) Alessandra Greco, Voc-Ali, autoproduzione, Firenze 2001, p. 10 dell’autopresentazione. Il frammento citato precede la conclusione (pp. 10-11): «Nel tentativo di comprendere questa struttura, di comprendere l’interazione, di consentire l’interdipendenza col tutto, attraverso questa sorta di “linguaggio emozionale” cerco risposte, che siano conformi a quella struttura, cerco di ravvisarne i segnali».
(4) ibid., p. 10.
(5) Giuliano Mesa, Note sul Sesto Quaderno, «Versodove», 11 (1999-2000), pp. 41-42: p. 42.
(6) Florinda Fusco, linee, Zona, Rapallo 2001, con una postfazione di Marco Berisso. Il tema del piede (e anche delle dita del piede) è un Leitmotiv della serie: cfr. pp. 3, 4, 5, 13, 14, 16, 20, 21, 22, 23, 26, 27. Insieme al piede, nelle linee appaiono passim la gamba, la scarpa, altri frammenti del corpo (placenta, rotula, ginocchia); e, come secondo Leitmotiv, il corpo come assoluto. Il piede cammina su una humus, diventando humilis; dove una debolezza deve esprimersi – e, come scrive Berisso a p. 31, «l’io è rintracciabile nell’accumulo di esperienze», e solo in questo – il piede può rappresentare, perché lo è, la figura dell’appoggio. Così il discorso fluisce a partire dalla posizione del corpo e prescinde dalla posizione intellettuale-individuale dell’io: stare con i piedi per terra è l’unica sicurezza non contestabile; sto, dunque sono.
(7) ibid., p. 14.
(8) Rosaria Lo Russo, Comedia, Bompiani, Milano 1998, p. 11. L’aforisma semplifica una frase del Montaigne (1963) di Thibaudet, citata da Gerard Genette in Figure. Retorica e strutturalismo, trad. di Franca Madonia, Einaudi, Torino 1973, p. 129. A p. 84 di Comedia la dichiarazione esplicita della paraetimologia di comedia da comedere, sulla quale gioca anche Elio Pagliarani nella prefazione (p. V).
(9) Alessandra Greco, 2001, autoproduzione, Firenze 2002, p. 16.
(10) Rosaria Lo Russo, Comedia, cit., p. 67: «Ma poi agilmente mi sfaldo in mestruo e vo al macello è tempo di mattanza»
(11) Florinda Fusco, linee, cit., p. 21.
(12) Gabriella Maleti, Parola e silenzio, Gazebo, Firenze 2004, p. 31. A parte questa citazione, l’intero libro è l’esperienza metalinguistica della dialettica data dal titolo e di quello che deriva da un «amore-scrittura» (p. 20).
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7 pensieri riguardo “A Paola Febbraro”

  1. Di queste intense riflessioni di Massimo sulla poesia di Paola Febbraro mi restano in mente “purificazione dalla letterarietà” e “inappartenenza”. Qualcosa che sento molto reale e forte. Anche se è, sempre, una strategia della scrittura. Chi scrive e viene scritto abita una “finzione suprema” (Stevens, certo) ma non sublime. Solo la finzione, bisbiglia Hillmann, separa la rappresentazione dal delirio. Chissà che la finzione non sia il “vero senso di sé”, appena si sente “la voce dell’io che è la voce dell’altro dentro una sfera di vetro” (Schopenahuer). Massimo e Paola ci dicono che la poesia non ci appartiene mai ma ci traversa, come una folata, un vago e ferreo pensiero.
    Marco

  2. sono a Roma, in strada – Roma che si forniva i formaggi da sé, come ha detto un’altra Inusuale; proprio in questi minuti vedo in un sito che un commento parla di “romacentrismo” [poetico]. c’è Roma e Roma. Paola era delicata. e Paola è uscita di scena come l’aria, leggermente, lascia libri di versi lunghi con molto bianco intorno – appunto: il bianco.

    e ripeto: di tutto il *resto* scemo, che cosa poteva importare *davvero* a Paola Febbraro?

  3. Uno degli aspetti per me più commoventi di Paola Febbraro era l’imprendibilità, la sfuggenza, che in altre persone avrebbe suscitato sospetto o sarebbe parsa disaffezione, in lei era “eleganza”. E la sua poesia è in qualche modo questo stare accanto alle cose con un pensiero però lontano da esse. Nulla sembrava appartenerle, ma per scelta, giaché in modo programmatico Paola tendeva a disfarsi delle cose terrene così come cercava di annullare la lingua (per quanto possibile), rendendola comprensibile a tutti. Non ho mai conosciuto una persona più francescana, orgogliosa del niente che si seminava intorno: più eliminava in sè e accanto a sé più aveva e dava l’impressione della felicità compensatoria del minimo. Ma non era una persona triste; nutriva, fabbricava, con profondo “lavorio” spirituale, una concezione gioiosa e orgogliosa di sé. Ironica, spigolosa, infantile, ribelle come pochi, altera nel bastare a se stessa, nell’essere uno più che unica, infilava tutto quel vapore delle tante amicizie nell’inbuto di un silenzio che spesso reclamava come diritto, chiudendosi in casa senza scuse, senza addurre pretesti, semplicemente, spavaldamente.
    Per scrivere.

  4. Ritratto splendido, Cristina. Questo “orgoglio del niente”, che trapela dalle tue parole potenti e accorate, lo sento come se lo toccassi. La rileggerò attentamente.

  5. Concordo con le vostre osservazioni e ritengo anch’io particolarmente significativo il “ritratto” che di Paola ci dà Cristina. Penso che Paola vi si sarebbe riconosciuta completamente.

    Un saluto a tutti.

    fm

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