(Immagine fotografica di Stefano Bernardoni)
Giorgio Bonacini – Ritmi d’insonnia
(Tratto da: L’edificio deserto, Bologna, Edizioni di Parol, 1990)
Il mio portamento in levare
disanima tutto- passai per quell’uscio
e nessuna sorpresa
la forma del sonno
I.
Il passato delle lacrime
è deciso – un ologramma intenso, inesplicabile
disteso come un albero
alla luce dell’infanzia
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Tutto poi sembra cambiare
con gli uccelli – anche la forma, l’illusione
e gli animali
espressamente ricordati
II.
Corpo allora –
e dimembrata insenatura di ogni corpo
estesa a gioia
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Spenta luce e segretezza
argentiforme – ogni riflesso schiuma in corpo
e porta un segno – in te
le confidenze
in me le esitazioni
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Arsa di luna
sera – è notte, è nebbia
i nostri corpi solitari
III.
Un’ebbrezza tremolante
mi ragiona – il corpo libero è dissolto, sradicato
e l’innocenza che scopriamo
è nel tragitto di una stanza
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Eppure lei vive in un occhio
mandorlato e mi rispecchia – è l’apertura
al sonno
un’attitudine alla vita
IV.
Ma gli uccelli senza specie
i migratori, gli animali inopportuni – che diranno
che scompiglio penseranno
i corridori dell’estate
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Uguali osservazioni
e vaneggenze uguali – dove la morte dei ricordi
è stagionale, anche il colore
delle cose, i vocalizzi
e l’intrusione
biancogemma delle foglie
V.
Perciò mi volteggiano i ritmi
finissimi, a granuli – ma tu, somiglianza
di mondo, se mai riciclabile
in me
di che mondo sei fatta
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Ogni volta è il ricambio
del sole, l’alzata – un concerto rollio
che sventaglia
e crescendo m’infatua
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Ti piace la luna –
assomiglia al mio dito piegato, alle mie
sopracciglia
mi piace
VI.
Poi guarda – i miei occhi
incastrati lì in basso non pensano nulla
ridendo – tu e la tua bella
figura sdraiata
e non tutto
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Così arriveremo noialtri –
così, quasi noi, in bella forma e rigore
un cartoccio di suoni
per gli occhi, i colori
VII.
Di giorno sollevo
atmosferici tratti – ne scorro le virgole
i punti, i concerti pulvurei
e in un lembo i fogliami
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Ma la pioggia, casuale
puntella per me
abilmente formando
VIII.
Sei il genio di un’ombra
totale – musetto che ispiri, a vederti non sai
che io credo si mormori tale
una cosa di veli
che formano in viso
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E pensando di scrivere
poi mi rannicchio – richiamo a sorpresa i miei
libri, le pagine molli, interdette
raccolte
dal vento, da un topo
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Una volta flosce le dita
sono il corpo del risveglio – un’attenzione
invalicabile e felice che divarica
i pensieri
le tinte in spaccature
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Il mattino è innumerabile con l’aria della sera
e l’estinzione della notte più abbondante del chiarore
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Il manifestarsi inquieto: sulla poesia di Giorgio Bonacini
(di Stefano Guglielmin)
Teneri acerbi (Anterem 1988, premio “L. Montano” per l’inedito), raccoglie poesie scritte tra il 1979 e il 1987, una ventina di testi brevi in cui l’intricato paesaggio (spesso insulare e deformato dalla memoria) incontra il turbinio interiore di un adolescente, che assiste meravigliato al proprio incipit vita nuova. E’ l’amore infatti la spinta affettiva del libro, raccontato per flash back, a partire dai suoi effetti sul corpo, che diventa in tal modo un laboratorio alchemico dove tatto, vista e olfatto regolano la metamorfosi. Tale mobilità silenziosa trova nella scrittura la sua voce mimetica, metaforicamente offerta sul piano della lingua fondendo la lezione di differenti scuole. Da Emily Dickinson, Bonacini ricava l’uso frequente del “trattino lungo”, capace di stratificare l’enunciato, di moltiplicarne l’effetto e, al tempo stesso, di assolutizzare quanto il trattino tiene; dal primo Montale, egli assorbe il timbro, l’impasto dei suoni e quel sentimento di decorosa pudicizia nei confronti dei propri simili, ai quali preferisce tacere l’orrido vero, malgrado sia chiaro il nulla a cui siamo tutti consegnati (penso, ovviamente, a Forse un mattino andando…); dallo sperimentalismo degli anni Sessanta e Settanta, egli riprende infine l’incompiutezza sintattica, la reticenza, la paronomasia e quant’altro evidenzi la “trama impossibile” della poesia contemporanea.
Con questo bagaglio e con quello – estetico e linguistico – già accumulato al D.A.M.S. di Bologna (dove s’era laureato con una tesi su Roland Barthes), Bonacini inaugura gli anni Novanta, licenziando L’edificio deserto (Edizioni di Parol, 1990; nota critica di Niva Lorenzini): qui, la metafora del corpo reale e del corpo testuale s’incrosta e unifica in quella dell’“edificio”, grazie alla combustione della sposa duchampiana con le costruzioni labirintiche di Escher, così da ottenere un “corpo-scala” narrante che si frantuma e irradia nello spazio, in perpetuo e precario movimento. Citando Barthes (“fare della ringhiera di una scala una sbarra incerta”), Bonacini anticipa la dichiarazione programmatica che uscirà di lì a poco su “Poesia” (n.38, marzo 1991): “L’insicurezza, il dubbio, l’oscillazione, le incompletezze di una manifestazione inquieta, sorreggono la poesia”. Un inquietudine che, ne L’edificio deserto, leopardianamente cerca la propria “siepe”, quel limite oltre il quale “smarrire ogni legame, ogni indugiare, / ogni sfrusciare delle palpebre / e ogni esplodere sornione…”.
Pio desiderio, in verità, giacché, capovolgendo di segno il dolce naufragio dell’Infinito, egli non trova che l’inautentico o ciò che addolora: “stranezze, illusionismi / paramenti d’intestino innanzitutto/ e la demenza…”. Entro queste coordinate, nelle quali regna l’insubordinazione lessicale e, spesso, la “semplice propagazione verbale” (Niva Lorenzini) normalizzate in sestine, trova di nuovo spazio il tema amoroso, trattato apparentemente con la vibratile leggerezza della pioggia dannunziana, mentre invero la pineta versiliana qui diventa un “giardino” traditore, che precipita sulla donna “fibrosamente”, mentre la sposa stessa si sfoglia, si squama, s’impasta con “lo strame”.
Il panismo rovesciato si attenua fino a scomparire nel libro successivo, scritto a quattro mani con Giovanni Infelise e intitolato Sotto la luna (Book Editore, 1991), libro nel quale Bonacini pare essere uscito dal “corpo-scala”, dalla croce e dal martirio che quella condizione implicava, per offrirci un dettato limpido e dal forte impatto analogico, dipanando un fregio zoomorfo di creature striscianti (insetti, rettili), di pesci mutanti sul “fondo del torrente”, d’uccelli indifferenti a quanto in terra si agita, e di mammiferi, infine, capaci di vivere lontano da “stelle e sbeccature”. Desiderio, quest’ultimo, che invece perseguita l’uomo, mammifero magno eppure inutile in questo brulichio animale che silenziosamente si muove “sotto la luna”, impassibile anch’essa al dolore umano, eppure, agli occhi del poeta, madre di gioia: “luna che sporgi / che stai nella luce / chiunque tu sia / io mi fido”. Affermazione che ritroviamo identica ne Il limite (Book Editore, 1993; nota critica di Lucio Vetri), inserita tuttavia in una più complessa orchestrazione governata dalla “destrezza”, dall’accadere repentino sia del fraseggio che degli eventi narrati, secondo il dettato già sperimentato ne L’edificio deserto e questa volta ripreso a partire dalla mobilità ineffabile della luce e dell’ombra.
Ne Il limite, la voce narrante si muove dolorosamente in un paesaggio minaccioso (“l’ala dura e incattivita / il passo corto / nero / del tramonto”), cercando tutto ciò che ha “l’andamento / impreciso” e “quel poco di vuoto sensato”. Questa intenzionalità ci conduce davvero nel cuore della poesia di Bonacini, giacché, a suo dire, proprio in questa permanenza ai bordi dell’io e del mondo (nel margine e in bilico, appunto, d’ogni volgare certezza) risiede il senso della scrittura, quel suo diventare aletheia, forza che disvela, che focalizza il vero quale luogo del fecondo cercare: “La poesia – ha scritto recentemente l’autore (“Capoverso” n.7, gennaio-giugno 2004) – esiste qui, ma ancora non sappiamo se qui sia effettivamente il suo luogo, vero e reale, di scorribanda o di meditazione. Qui c’è la nostra visione, il nostro sguardo finito che, proprio in virtù di questa sua limitatezza, riceve e avvalora”. Il medesimo concetto lo troviamo a p.21 de Il limite: “giocare ai bagliori / all’asfalto sonoro / ai confini / di un verso / e trovarsi.”. Tale viandanza, oltretutto, ha molto a che fare con la scelta di marginalità dai luoghi del potere (cfr.”Anterem”, n.47, dicembre 1993), progetto a cui Bonacini effettivamente si attiene anche in Falle Farfalle, suo ultimo libro edito (Anterem, 1998).
Si tratta di una plaquette ‘in volo’, dove la scrittura asseconda le movenze acquerellate di Alberta Pellicani, artista visiva dal tocco orientale, aprendo scorci densi di senso, alla maniera di Sotto la luna. Questa volta ad essere madre, col suo metaforico librarsi e moltiplicarsi, è appunto lo sciame di farfalle, macroscopia della materia con il suo pullulare quantistico già sempre imprevedibile, oppure, per riprendere il volo degli “storni” in un romanzo di Italo Calvino, “corpo in movimento composto di centinaia e centinaia di corpi staccati ma il cui insieme costituisce un oggetto unitario” (Palomar).
Bonacini, di questo eventualizzarsi della verità fattasi carne, sottolinea il carattere d’impermanenza: “Falle farfalle / è difficile dirlo / ma partono / e vanno / e si incontrano / al volo / si disfano al buio”. Ecco allora che le farfalle-madri assolvono “un dolore”, lo riscattano, non portando “con sé / nessun vuoto / nessuna follia”, a differenza di quanto accadeva nell’Edificio deserto, dove la conoscenza s’esauriva nella molteplicità sempre insoddisfatta dello sguardo (che valica, scruta, corre al passato). In quest’ultimo libro, invece, essa ha raggiunto il suo centro, quella impermanenza che non è mancanza, bensì la verità sulle cose e sull’io. A questo punto, attraversato il deserto e la complicazione dell’esercizio scritturorio, il poeta di Correggio può finalmente ricominciare da capo, mettendo in movimento, come scrive altrove Giovanni Infelise, “un pensiero primitivo”, nel quale “confessioni e ricordi” assumono il carattere dell’universalità, coerentemente con l’intenzione barthesiana, già presente ne Il limite, di “comunicare l’interiorità senza concedere l’intimità”. Tuttavia, e paradossalmente, le successive e più mature prove poetiche di Bonacini sono, nella loro interezza, inedite; per leggerle parzialmente bisogna dunque attingere a quell’incredibile osservatorio sulla poesia contemporanea costituito dalle pubblicazioni “Anterem”. In particolare, l’antologia Verso l’Inizio (curata nel 2000 da Andrea Cortellessa, Flavio Ermini e Giò Ferri), contiene alcuni testi bonaciniani tratti dalla raccolta inedita Stelle inseguitrici, mentre di Un corpo estraneo, abbiamo notizie soltanto a partire dal n. 67 della rivista omonima (dicembre 2003). Di conseguenza, essendo necessaria la forma-libro al progetto del nostro autore, il quale ha sempre ordinato i singoli testi in una scansione precisa, a sottolineare un ritmo interno al sistema e una determinata tonalità affettiva, non ritengo utile una disamina parziale delle due ultime raccolte, auspicando che sia presto possibile leggerne l’esito conclusivo.
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il saggio di Stefano Guglielmin è tratto da Nabanassar del 16 novembre 2004.
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“richiamo a sorpresa i miei / libri, le pagine molli, interdette”. Sempre, in Giorgio, avverto questi lampi visionari che mi portano oltre la stessa scrittura poetica. Che mi fanno pensare a strani luoghi, assediati, remoti, deserti. A quelli che, da psichiatra, chiamerei “rifugi della mente”. A quelli che, da scrittore, chiamo “fughe della mente”.
Grazie, Marco
Caro Marco,
è vero, i miei luoghi sono “fughe” e “rifugi”, ma non nel senso di scappare o di nascondermi, ma perché credo che la voce della poesia (la mia in particolare) abbia bisogno e crei essa stessa nel suo andamento in avanti
(fughe) e nelle sue pause (rifugi) la vita ulteriore che percorre una doppia esistenza: quella della scrittura poetica e quella di chi scrive.
Ci sarebbe anche quella del lettore (che può anche essere il poeta stesso), ma il discorso sarebbe molto lungo: bello ma complesso.
Ti ringrazio per la tua sempre sensibile lettura dei miei versi
e ringrazio Francesco per la disponibilità e l’accoglienza.
Ciao. Giorgio
Al di là del valore dei testi di Giorgio, mi piace anche rimarcare l’attraversamento critico operato da Guglielmin col suo saggio: attualissimi gli uni e l’altro.
fm
Caro Francesco,
Stefano Guglielmin, qui e in altri luoghi (vedi il suo ultimo libro “SENZA RIPARO – poesia e finitezza) ha letto e analizzato la mia opera poetica
con una capacità di approfondimento critico che è il dono di chi sta dentro la poesia con tutta la sua persona: da lettore, da interprete, da poeta. E per me è stata fonte di nuove conoscenze sul mio stesso fare poetico. Non lo ringrazierò mai abbastanza per questo e per la sua amicizia.
Ciao. Giorgio