La casa bianca

Elio Grasso

Nota di lettura a:
Emanuele Andrea Spano
La casa bianca
Pasturana (AL), puntoacapo, 2018

Sul pianeta Terra il bianco è il colore dell’invenzione creatrice e il colore della zona temperata sopra il Tropico del Cancro, dove lo sguardo si affaccia sul Mediterraneo a Nord delle coste africane. Al di là dei recenti cambiamenti climatici, a quelle latitudini le popolazioni hanno da sempre conquistato la calce per le loro case, per i muri, per il destino delle loro esistenze. Il bianco della calce non dà scampo, assorbe in sé i segni animali e i segni umani, i loro pensieri e le aspirazioni, e le gesta di tutti. Per questo il sangue sparso sulla piana di Troia prometteva più terrore sulla base calcarea: non è un’invenzione ma il film in technicolor della storia, e del mito che la circonda come aura indelebile. I villaggi mediterranei sono inclini ad avvolgersi di riverberi destinati, lasciando fare agli uomini quel che più desiderano e sentono ineluttabile. Ne abbiamo esempi millenari, nelle arti e nella poesia: ancora oggi giungono di tanto in tanto sciabolate coloristiche, gradazioni sature contenenti ogni frequenza e, per estensione, ogni cosa. Un poeta alla sua opera prima, seguendo questa attitudine e la vena primordiale, uno degli ultimi esempi a me noti, è Emanuele Andrea Spano con il libro La casa bianca: compagno dei vivi che, in tempi e luoghi diversi, si sono contesi la “pietra più bianca”, affinché l’azzurro invernale maggiormente risaltasse sopra le balze del mondo e le nicchie ospitanti le minuscole dimore di fronte alla Grecia madre. Salpa da qui un destino in attesa di essere scritto, e consegnato dalla memoria alle ombre dei morti e al loro peregrinare lieve. La lingua accolta dall’autore – viatico lo studio di Sereni viaggiatore e di Luzi indagatore d’anime – è data dalle geografie native, sostanza concreta di strade e sentieri polverosi ma perfetti per le suole arcaiche assunte nel nostro presente. Il discorso poetico avanza nei giorni principali della vita del poeta, dopo la discesa dalle logge sul terreno originario di un’intera famiglia. Nessun timore d’essere accecato da tutto quel bianco, quel ronzio racchiudente la somma di parole secolari. Parole irriducibili, che hanno avuto bisogno di un figlio della migliore poesia italiana (possiamo dire del Mare nostrum) perché ancora oggi fossero concesse all’intreccio difficile dell’epoca. Dice bene Salvatore Ritrovato nell’ottima introduzione: l’appartenenza, a qualcosa o a qualcuno, è il tratto distintivo del libro, segno che si è compiuta un’azione di volontà non solo letteraria: l’indefinito oggi si affronta per attraversarlo e poi allontanarsene. Spano sa bene che occorre collocarsi e sradicarsi, per uscirne vivi. Il senso di realtà e le topografie aiutano a stringere gli occhi, a mettere nel corretto campo le cose vocianti, le radiazioni luminose giunte a frotte dal vastissimo spazio. Non si tratta soltanto del potere del bianco diventato pietra, abile nel catturare l’anima, ma del fianco distruttivo insito nelle memorie generazionali. Leopardi è andato a morire a Napoli, non dimentichiamolo. Sud è orgiastico talvolta, occorre orientarne l’intensità. L’avventura dentro la pietra archetipa, sotto la calce – vale a dire stare nell’efficacia della tradizione poetica – è una grande possibilità per la poesia contemporanea. Esattamente al centro del libro permette di volgerci all’attualità con sensi almeno più placati e fiduciosi. Il rischio di addentrarsi in una sorta di posto di vacanza viene presto tolto di mezzo dalla percezione di un male antico, di smarrimenti che non si vorrebbero capaci di influenzare la ricerca. Spano si guarda dalla pesante materia del tempo, non si lascia risucchiare da retoriche familiari probabilmente rimaste conficcate nei conglomerati tettonici. Dunque, troviamoci inseparabili dalla Casa bianca confluita dentro di noi da tempi remoti, dal Mediterraneo personale che alberga nell’urto delle nostre parole comuni, non restiamo solitari di fronte al libro che abbiamo davanti.

 

Testi

 

I vivi qui non hanno nome, scelgono
la foto, il taglio della cornice,
si contendono la pietra più bianca
che brilli nell’azzurro vuoto
dell’inverno, si comprano a rate
il posto, l’affaccio sulla strada
maestra, la nicchia da cui guardare
il farsi del mondo, anche dopo.
E il paese cresce intorno, getta
mattoni oltre la linea dei cipressi,
affossa la polvere nel cemento
finché la vita non seppellisca
la morte, o morte e vita non siano
una cosa sola, una resa muta alla terra.

 

*

 

Restare qui, aggrappati a un muro
di vento, sospesi alla vertigine
grigia dei tetti, alla pietra nuda
che trasuda muffa e resiste
nella primavera degli acquazzoni
e sapersi vivi nella stradina
buia dietro il campanile, dispersi
tra le voci che si fanno mute
nei rintocchi, nell’ansimare acerbo
delle mani che cercano carezze
oltre la notte, mentre i lampioni
inventano strade di luce bianca
tra le case e l’ombra si riprende
le parole.
Essere lì senza più memoria,
vuoti, e non sapere il gelo
dei lampioni all’alba,
quando le ombre tornano
ai morti e i muri non hanno
voci da consegnarti, oltre
quelle acquose di un altro
mondo che non sanno risalire
la terra.

 

*

 

Se un confine esiste è lì
nei campi arsi, dietro la cisterna
che tracima, nel gorgo che inghiotte
alberi e case e risputa l’autostrada.
Qui tutto è traccia, terra da dissodare,
solco nella polvere. E che alla polvere
torni anche la lamiera, il volante,
la stretta delle mani che appena
tremano a un passo dall’asfalto.

 

*

 

Il rosso della terra

1.
Sapessi la disciplina della pietra
lo spazio certo tra vuoto e vuoto
il profilo esatto del muretto,
saprei la misura del salto,
il margine che attende muto
oltre il delirio del fosso.

2.
Se la topografia non mente è qui
il campo d’ortiche, il quadrato
rosso di terra spaccato dal sole.
Tenterò il tracciato a ritroso,
passo a passo, come per mano
rivedrò la salita e mio nonno
in abito grigio, anche d’estate.

 

*

 

Il bianco dei muri

1.
Rifare l’intonaco una volta l’anno,
che la superficie sia liscia, intatta,
senza un segno che racconti l’usura
o la morte che s’annida dentro.
Ma l’inganno non tiene se la collina
si slabbra, se si gonfiano d’acqua
i muri, se le crepe squarciano
la calce e il bianco non è più bianco
e resta la pietra nuda a confine
del cielo, come la cummersa
che spacca l’azzurro dentro l’estate.

2.
Per rifare l’intonaco dentro
si aspetta che qualcuno muoia
per lavare la malattia dai muri,
rinfrescare le pareti, stanare
la muffa che sale dal pozzo chiuso,
quello murato sotto la camera,
che ho scoperto troppo tardi.

 

*

 

Il male nei muri

1.
Fingevi di credere a quella fede
da poco, a quella superstizione
di paese, al rito dell’acqua
e dell’olio, al malocchio, alla forbice
arrugginita che ti protegge
dalle chiacchiere degli invidiosi.
Sapevi che non t’avrebbe salvata
dalle ingiurie del tempo, dalla sorte,
che un oggetto non ti riporta
indietro, ma resta a dire il gesto,
la tenacia dell’esserci.

2.
Lo dicevi che la casa sarebbe
passata di perdita in perdita
fino a smarrire il suo sangue, che le foto
sarebbero state di qualcun altro
e la terra tutto avrebbe sommerso,
anche le lenzuola col ricamo
da sposa sepolte nell’armadio.
E ora non c’è che qualche rosario
fluorescente, di quelli da mercato
cinese, per pellegrini in saldo,
qualche madonna straniera da turismo
di massa, e non un briciolo di quella
religione da raccontare la sera,
in silenzio, quando nessuno sente
quando, se chiudi gli occhi,
i morti sono vivi, per il tempo
d’un saluto.

 

*

 

Le mura di sale

C’è un accordo tacito tra la linea
dell’orizzonte e la sigaretta,
sospesa nell’aria, tra lo scafo
bianco della barca e le righe blu
del suo costume. C’è una vita che
lievita lenta nel fumo azzurro
inghiottito dall’azzurro più fondo
del mare, nello sguardo che fruga
nell’acqua alla ricerca di un senso.

 

*

 

Domenica delle Palme

                      (con malagrazia fu calato giù
                      e un banco di nebbia ci divise per sempre)

                      Vittorio Sereni

Sapersi ancora nel ventre d’una corsia,
tra i letti gonfi di corpi da tagliare,
nell’ingorgo delle vie biliari
che impazziscono, nel cancro che
ti sale dentro e annega i respiri,
è forse un supplizio più sordo delle
voci che squillano al cellulare
che si è fatto macchina di morte,
anzitempo.
E poi la mitografia vuota dei malati,
degli andati, per un colpo di freddo,
per un accidente, per un male subdolo
che cova sotto, l’elenco malsano
dei sintomi, pur che ci sia qualcosa
da dire, quando si tornerà, se non
c’è rimasto nulla da vedere.
E intanto si sceglie l’agnello
da sacrificare alla mensa della
domenica, si attende la palma
impacchettata che ingiallisca
e faccia i visi meno gialli,
nel neon che vomita la luce
intermittente e parla d’altre
attese, perché gli ulivi sono
finiti, i tronchi lasciati soli
nella terra rossa giù al paese
dove si andrà con altre chiavi
e, forse, si troverà il camino
murato, la tavola imbandita
per la festa, una nuova pasqua
che ci parli d’altre resurrezioni.

 

*

 

Altrove

E alla fine siamo rimasti noi a dirci
quanto la vita sia avara per chi resta
quanto il vino non invecchi mai
abbastanza e salga aceto per un conto
di notti che non torna, di come
la città racconti altre vite a chi
impara il respiro del cemento,
la solitudine bianca degli incroci,
il farsi asfalto dell’erba nelle aiuole.

1 commento su “La casa bianca”

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