
*
Yves Bergeret
Chi è che guarda?
Qui regarde?
Tratto da Carnet de la langue-espace.
Traduzione di fm.
E’ una semplificazione risibile l’affermazione secondo la quale il “paesaggio occidentale” e la sua conseguente rappresentazione siano il risultato di un’elaborazione intellettuale dell’età del Rinascimento (la finestra di Leon Battista Alberti, del 1435), del platonismo, della separazione che tiene ben distinti una coscienza razionalistica e il mondo reale sul quale essa eserciterebbe il suo dominio: una coscienza che, in qualche modo, osserverebbe il mondo e lo valuterebbe “dall’alto”. Verso quest’ultimo, essa manifesterebbe una disposizione di tipo padronale. A ciò si aggiunga che questa coscienza orgogliosa e dominatrice diventerà, senza alcun dubbio, quella del successivo colonialismo. E’ in ragione di ciò che un dizionario in lingua francese può redigere questa grottesca definizione: “paesaggio = parte di un territorio che la natura mostra a un osservatore”.
Questo, in effetti, è quanto si vende in formato cartolina turistica nei luoghi di villeggiatura, dove non si punta ad altro che a trasformare il tempo libero in una merce. Un scorcio di “paesaggio” fissato in un rettangolo, cielo azzurro con tre o quattro nuvole, vegetazione inondata di luce, acqua immobile o corrente, un vago orizzonte e un accenno di antropizzazione, culturale, patrimoniale o altro, che ci rassicura del fatto che è l’uomo a dominare la realtà.
È proprio per questa ragione che l’acquirente della cartolina compra e invia per posta la sua “finestra sullo spazio”; egli dimostra al destinatario che la riceve, ad esempio i nonni rimasti in città, di aver effettivamente “guardato” questo panorama (etimologicamente, questa “visione globale”); invita gli stessi ad affacciarsi a loro volta a quella finestra di cartone stampato, vagamente esotica e rassicurante.
Questa tipologia di “paesaggio” è davvero un’elaborazione razionalizzante quando una volontà sovrana, apollinea, e in seguito positivista, organizza lo spazio in un “giardino alla francese” il cui miglior architetto paesaggista si chiama Le Nôtre. Questo architetto dello spazio naturale pianifica e lavora per il sovrano Luigi XIV, che fece disporre i suoi cortigiani e la folla di servitori in pose armoniosamente teatrali nei viali piantumati incorniciati da modelli in pietra, le statue.
In definitiva, questo paesaggio è visto dal Re Sole con l’occhio del “padrone”, come nella favola di La Fontaine o nella città utopica di Nicolas Ledoux alle Saline Reali di Arc-et-Senans. I cortigiani e gli altri osservano questo paesaggio per imparare a conformarsi all’utilizzo ordinato del mondo, della realtà, del “buon gusto” e delle “buone maniere”. Si può allora effettivamente parlare di un paesaggio dominato, finalizzato all’autocompiacimento estetico e morale di una piccolissima parte della società occidentale in un determinato e breve periodo: esattamente alla fine del XVII secolo a Versailles. Ma già mezzo secolo dopo Rousseau, nella sua Nuova Eloisa e poi nelle sue Fantasticherie, spazza via questa organizzazione sistematica dello spazio.
Tuttavia l’organizzazione dominante, estetizzante, etica e politica dello spazio in forma di “paesaggio” è ben lungi dall’essere prerogativa di una “coscienza occidentale platonico-rinascimentale”.
Nell’Europa occidentale il Giardino dell’Amore Cortese, con i suoi rigidi parametri, precede di qualche secolo il parco di Versailles. Inoltre, un po’ più a Oriente, il giardino fiorito dove mormorano la delicata fontana e i suoi raffinati passeracei popola con rigore ogni raffigurazione persiana e sufi dello spazio tre secoli prima del Rinascimento.
Quanto all’utilizzo dominante dello spazio di stampo idealistico, presunto fiore all’occhiello del pensiero razionalistico, esso rimane, anche dopo il Rinascimento, davvero a livelli minimi. Perché l’uso effettivo dello spazio è anche pastorale, agricolo, venatorio, sacro, antropologico; e soprattutto, come vedremo più avanti, è animistico. Il pensiero occidentale dello spazio e del paesaggio è comunque lontano dal ridursi a una visione, che risulterebbe caricaturale, dello spazio osservato, sordo e pieno di una brillante supponenza: va ben oltre un’ingenua emissione di ordini o dell’imposizione di un Ordine. L’idea di uno sguardo dominante che valuta e governa lo spazio in modo solipsistico è davvero un artificio di scarsa qualità. Favorisce uno sguardo unidirezionale. Da una coscienza superiore all’infima realtà. Un unico orientamento vettoriale. Che suppone e implica una distanza tra osservatore e osservato.
In ogni luogo e in ogni cultura, invece, l’utilizzo dello spazio è tanto sonoro quanto visivo: si provi a chiedere a un cacciatore in che modo percepisce il suo paesaggio, o addirittura in che modo lo costruisce. Nei miei due saggi dedicati all’Ascolto ho analizzato in dettaglio le ricchissime varietà della percezione dello spazio sonoro e della sua formazione, anche nel cuore del pensiero occidentale (cfr. L’ Ascolto): il nostro spazio e il nostro paesaggio sono un “tappeto sonoro”, come pure, in parallelo, un “tappeto vegetale”; e il cuore sempre pulsante di questo “tappeto sonoro” è la geofonia.
Inoltre, l’indistinguibile mescolanza di spazio visivo e spazio sonoro si arricchisce talvolta anche dello spazio olfattivo e dello spazio tattile. Se è vero che, per evitare una visione offuscata, lo spazio visivo presuppone una certa distanza tra l’osservatore e il reale osservato, si potrebbe privilegiare, molto superficialmente, un unico asse di percezione e di pensiero: dall’occhio all’oggetto guardato. Ma questo asse unidirezionale non esiste. Infatti, sonoro e visivo si mischiano, non è l’orecchio, inseparabile dalla vista, che crea il suono; al contrario, lo riceve. L’asse della percezione è quindi rovesciato. O meglio, diventa bidirezionale. Sostenere che lo sguardo stesso sia unidirezionale è una stravaganza.
Poco più di un secolo fa, Victor Segalen ha ribaltato la nozione di esotismo e l’esperienza visiva del paesaggio. Ricordo quanto scrisse nel 1915 in Equipée: “è il momento, attraversato il fiume che da lì proviene, di drenare tutta la Cina; è là che, stupito, meravigliato e pieno di tanti paesaggi minerali, solo per molti giorni con me stesso, e senza uno specchio, avendo davanti agli occhi solo le fronti equine dei miei muli o il paesaggio conosciuto degli occhi piatti della mia gente abituale, mi sono trovato improvvisamente in presenza di qualcosa che, pur legato al più magnifico dei paesaggi della grande montagna, ne era così distante e così omogeneo che tutti gli altri indietreggiavano trasformandosi in ricordi concreti. La mia vista, abituata agli enormi massicci, si innamorò subito e ardentemente di quello che vedevo davanti a me e che a sua volta mi guardava, perché aveva due occhi in un viso bruno dorato e una chioma di capelli, nera e selvaggia, intorno alla fronte. Ed era tutto intero il volto di una ragazza aborigena, nata lì, piantata lì sulle sue forti gambe, e che, meno stupita di me, guardava passare lo strano animale che ero, e che, per riguardo verso l’inaspettata bellezza dello spettacolo, non osava voltarsi per rivederla ancora. La seconda esperienza avrebbe forse potuto rivelarsi deludente. Non è dato vedere con ingenuità e innocenza per due volte in una tappa, in un viaggio o nella vita, né riprodurre a piacimento, il miracolo di due occhi che, impegnati da giorni a cogliere soltanto la grande montagna, i versanti e le cime, improvvisamente si trovano alle prese con lo spettacolo stupefacente di altri due occhi rispondenti”.
*
Entro nella chiesa neobizantina di Saint-Pierre a Montrouge, nel sud di Parigi. L’interno di una chiesa o di un tempio è iperbole sacrale del paesaggio ordinario. Su una serie di pilastri dell’incrocio del transetto, pilastri indispensabili per reggere la struttura del grande edificio, è sospesa un’enorme copia di icona ortodossa, di argomento canonico: un Cristo risorto, vestito di bianco, circondato da una mandorla chiara, che rovescia le assi di legno delle bare, rimuovendo le pareti rocciose alle sue spalle. Niente a che vedere con la “finestra” dell’Alberti e il suo punto di fuga verso la lontananza. Al contrario, il punto di fuga è lo spettatore verso il quale avanza il Cristo, pulcino che rompe il guscio del suo uovo. In questa scena centrale della narrazione cristiana, lo spettatore non sovrasta un paesaggio che osserverebbe con sguardo dominante; è dal cuore di questo paesaggio figurato che un dio drappeggiato di bianco guarda lo spettatore, lo domina, gli va incontro e lo ingloba in questo processo fisico e teologico di nascita.
Il paesaggio spirituale di questa chiesa parigina è tutto una contraddizione: l’architetto neobizantino conferisce una forza ascensionale visiva ai suoi pilastri per proiettare il fedele osservante verso l’infinito celeste che la sua preghiera implora. Ma il copista dell’icona spinge l’atto teatrale della resurrezione verso il fedele, centro dell’attenzione del risorto che rovescia e spinge via gli elementi della scena-paesaggio e dissemina nella parte inferiore di questa “non-finestra-paesaggio” i chiodi e altri piccoli oggetti della scena.
Eppure, come si vede, questa chiesa neobizantina non crolla. Nonostante tensioni contrapposte. Una verso l’inaccessibile punto di fuga all’infinito dello sguardo dell’orante, l’altra verso il cuore commosso in fondo al suo petto. Lo sguardo sul paesaggio può essere considerato naturalmente e culturalmente bidirezionale.
Ogni icona ortodossa, ogni affresco ortodosso funziona in questo modo: l’uomo occidentale cercherebbe dunque ingenuamente un punto di fuga nell’icona o nell’affresco? No, è il suo Dio, dietro l’icona o dal fondo dell’icona, che lo guarda, lo incalza, lo valuta, lo attira nell’energia della sua grazia. La metà orientale dell’Europa lo sa da un millennio; e quindi pratica questo pensiero e questo utilizzo dello spazio.
Avanzo verso il fondo di questa chiesa parigina abbastanza comune ma significativa. La volta dell’abside presenta, canonicamente nel programma iconografico di questo tipo di edifici, un Cristo potente. Pensate di guardarlo o addirittura di osservarlo? È vero il contrario. È lui che vi guarda. La scintillante luce soprannaturale, dorata, luccicante, abbaglia dietro il drappeggio bianco che ricopre il suo busto. La figura si china su di voi, quasi vi minaccia, subite tutta la pressione del divino, da cui deriva la vostra ansiosa preoccupazione: siete l’intimo punto di fuga di ciò che è rappresentato sulla volta dell’abside.
Quante chiese ortodosse, dalla Georgia all’Ucraina, da Cipro alla Sicilia settentrionale, mostrano, dipinto o in mosaico, all’interno della loro cupola, questo terribile Cristo onnipotente, che blocca completamente il punto di fuga verso o nell’infinito celeste; e che, al contrario, preme con estrema forza sul debole petto del credente che, a terra, vorrebbe salmodiare ed elevare la sua preghiera. Lo spazio sacro è dunque orientato verso la creatura inappagata, sofferente, peccatrice, in cerca di salvezza e di assoluzione. Il sacro lo afferra; l’umile “osservatore” non domina niente.
Molte sono le situazioni di percezione dello spazio nelle quali è lo spazio o il paesaggio a guardare la persona e ad agire su di essa, piuttosto che la persona a guardare il paesaggio di fronte a sé in modo sistematico e dominante. E’ il caso di tutte le vetrate delle chiese gotiche dell’Europa occidentale, fin dalla costruzione delle prime nell’XI e XII secolo. Oggi un pensiero accademico dominante apprezza, dal punto di vista estetico, l’azzurro delle vetrate di Chartres; un estetismo attualmente largamente diffuso e praticato, compiaciuto, raffinato e gaudente, che non comprende affatto la funzione di ciò che davvero anima e protende questo paesaggio mistico: questo specifico paesaggio si rivolge al credente e anche al turista, la divinità di Maria madre di Dio accarezza con benevolenza il fedele ansioso che vaga in questo triste e grigio “mondo quotidiano”.
Lo sguardo estetico dominante e unidirezionale è, senza alcun dubbio, particolarmente incoraggiato a sciorinare il suo sapere nei Musei, figli di quel razionalismo occidentale radicato nell’idealismo platonico.
Ma anche sulla parete del Museo, i piccoli ritratti di Fayum, dipinti a cera sul legno dal primo al quarto secolo, sfuggono con disinvolta ironia alle manie classificatorie di un “osservatore” dominante. Quegli occhi, fissi sul visitatore, lo chiamano, dalla cornice del quadro e soprattutto dall’aldilà della morte, e gli dispensano consigli, protezione, intensità di affetti, di pensiero e di rito: quegli occhi afferrano il visitatore, lo dominano, forse lo incantano, e dilatano il tempo presente, in cui questo visitatore respira, verso un tempo più vasto e misterioso: questi piccoli ritratti sono fari che striano la penombra della vita quotidiana. Lo spazio attuale del Museo o quello privato delle case dei primi secoli agisce, si muove, afferra chi ci si ritrova. Come nel paragrafo in prosa di Segalen che ho citato sopra, sono gli occhi di Fayum, rivolti verso l’osservatore, ad attrarre quest’ultimo e non il contrario.
Ricordo questa quartina di Baudelaire, all’inizio del sonetto Corrispondenze:
La natura è un tempio dove pilastri viventi
A volte si lasciano sfuggire parole confuse.
L’uomo vi passa attraverso una foresta di simboli
Che lo osservano con sguardi familiari.

Questi occhi, esterni all’osservatore e che lo richamano con forza, vivono in molteplici situazioni: sono là, di fronte, imperiosi. Organizzano o riorganizzano il mondo indebolito o vulnerabile in cui l’osservatore si dibatte.
Nell’Etiopia popolare, il cui paesaggio è una sorta di meticciato tra l’antichissimo animismo degli ‘Zar’ e l’ortodossia, il terapeuta iniziato cura il paziente sofferente ascoltando a lungo la sua storia; quando avverte il punto in cui attraverso la parola emerge il nodo di dolore del malato, egli riscrive in caratteri amarici su un lungo rotolo di pergamena la parte alterata del racconto mitico, essenzialmente biblico, che è la spina dorsale del paziente, di qualsiasi persona e del mondo: il terapeuta ricompone il paesaggio dell’oralità dove, cadendo, il paziente si è dolorosamente ferito. In un certo punto del suo “rotolo magico” disegna la figura del genio Zar responsabile della disfunzione che provoca dolore; il centro di questa raffigurazione, e quindi della narrazione del mondo ricostruito, è la coppia di occhi neri, intensi, affascinanti, seducenti, che fissano il paziente. In questa terapia il paesaggio vitale e, di conseguenza, il corpo che vi ha sofferto vengono guariti dopo diverse ore di ascolto e poi di scrittura e disegno sulla pergamena. Il paziente guarito riceve la pergamena, la arrotola e la porta per alcune settimane, se vuole, alla cintola, in piena salute.
Nel nostro paesaggio urbano, suburbano e rurale, occhi severi, confortanti e protettivi sono costantemente puntati su di noi mentre ci spostiamo da una parte all’altra. Soprattutto quando viaggiamo in auto su strade asfaltate. Questi occhi, ognuno dei quali è un vero occhio ciclopico del genio etiope Zar, sono i cartelli segnaletici. In un formato geometrico molto semplice, un cerchio, un triangolo, ecc., contornato da un vigoroso bordo monocromo, essi costringono la vita del viaggiatore alla protezione della salute. Chi non “rispetta” gli occhi fissi di questi cartelli e ne trasgredisce l’ingiunzione può incorrere in lesioni, morte o punizione. Il paesaggio è l’osservatore di chi si muove in esso.
Nel nostro paesaggio urbano, suburbano e rurale, molte grandi “finestre su” sono aperte davanti ai nostri occhi. Le guardiamo e quasi subito vediamo un altro paesaggio, fatto di felicità (secondo una certa concezione di felicità), fatto di simboli di potere, fatto di affettività consolante che racchiude un godimento intimo. Finestre nel cuore del paesaggio urbano e non. Sono i cartelloni pubblicitari. Se viviamo in una grande città, il nostro paesaggio quotidiano abbastanza opprimente viene riequilibrato non tanto dagli occhi di Fayum o di un genio Zar, quanto dalla nostra immersione visiva nei cartelloni pubblicitari ai lati delle banchine della metropolitana. A Parigi, il loro formato di tre metri per quattro costituisce una perfetta finestra dell’Alberti.
Si tratta, comunque, di un processo di assorbimento della nostra persona. La totalità di questa “finestra” ci sprofonda per anestesia e ammaliamento, come per magia, in un mondo di salute, in realtà non di salute psichica ma di infantile immediato godimento materiale: ingozzamento consumistico.
Incassata nel paesaggio urbano o extraurbano, la finestra pubblicitaria inghiotte tirannicamente colui che si crede “osservatore”, lo risucchia in una compulsione di acquisti ritenuti piacevoli. Il cartellone pubblicitario sulla banchina della metropolitana o sul ciglio della strada è un paio d’occhi voraci di iena, ovviamente predatrice, particolarmente attenta, che non aspetta altro che la nostra imminente cecità.
Vermeer, con la sua coraggiosa Veduta di Delft del 1660, e così i suoi colleghi olandesi, che ci spingono a guardare nella lontananza attraverso una finestrella raffigurata sullo sfondo del quadro; Canaletto un secolo dopo a Venezia, e i suoi numerosi colleghi vedutisti, tutti costoro realizzano un paesaggio dipinto brillantemente antropizzato. Oggi la loro maestria è ammirata sia a livello accademico che museale. Ma Vermeer e Canaletto non aprivano finestre per turisti colti che, nutriti di idealismo platonico, avrebbero visitato un museo che comunque era ancora ben lontano dall’esistere. Dipingevano per i loro clienti. L’armatore o il mercante olandese aveva bisogno di un’immagine murale forte che si imponesse al collega che riceveva, e che mostrasse a costui che in quella bella casa borghese di Amsterdam si era così potenti da dominare il mondo: si intimidiva con una tranquilla sicurezza dal pugno d’acciaio. I dogi, efficientissimi mercanti importatori-esportatori di Venezia, fanno apparire sulle pareti dei loro Palazzi, in mezzo a una nebbia indefinita e in mezzo alla palude informe della laguna, il loro contro-paesaggio commissionato, un paesaggio fittizio e molto preciso che si impone anche al mercante che arriva dal Mediterraneo orientale. La negoziazione commerciale, l’esatto opposto della dialettica socratica, brillantezza sofistica che Platone rifiuta risolutamente, inventa lo scenario dipinto in forma di falso paesaggio con vasti cieli dove il valore della parola svanisce in vapore di prestigio e pressione.
Con vista diretta sul paesaggio, effettivamente platonizzante, del suo ammirevole parco, i saloni del castello di Versailles presentano, sulle pareti o sul soffitto, i loro virtuosistici e ridondanti dipinti di paesaggi altri, espressamente mitologici: tutti finalizzati a imprimere negli occhi e nel cervello dei cortigiani, degli ambasciatori stranieri, dei visitatori attuali, l’esaltazione della potenza militare del Re Sole e della sua traboccante ricchezza. Il paesaggio dipinto, artificio pittorico ad ampio raggio del salone immerso nel più vasto artificio vegetale del parco, avvolge, anzi schiaccia, l’ospite della nazione rivale e marchia con ferro rovente l’anima del figlio o nipote d’aristocratico il cui genitore aveva preso parte alla Fronda, qualche decennio prima, nel tentativo di abbattere il potere accentratore e assolutistico del giovane re.
Il Museo non è esattamente il luogo dove vedere dipinto un paesaggio con il suo orizzonte; è una deviazione specifica della raffigurazione di uno spazio naturale o antropizzato: la sua specificità consiste in un certo idealismo platonico che genera estetismo. Ora, questa Idea del Bello è un artefatto locale e temporaneo; non è né universale né eterna, per quanto qualche potere accademico pretenda che lo sia.
Ma quello che sembra rimanere permanente sia nel “paesaggio” o spazio quotidiano che nella raffigurazione dipinta su tela, carta o muro, è soprattutto un potere d’azione di questo paesaggio, reale o fittizio.
Rimando il lettore al mio articolo del 2017 L’immagine sul muro agisce. La natura stessa del “paesaggio”, e quindi dello spazio e dell’immagine, è che hanno sempre una funzione performativa, perché la loro sostanza appartiene irriducibilmente all’animismo. L’immagine sulla banconota o in un libro a fronte della pagina di testo stampato o su un grande manifesto pubblicitario o sulla volta dell’abside, è sempre performativa; il paesaggio naturale o urbano è sempre performativo. È il paesaggio, è l’immagine, che guarda colui che, in modo buffo e superficiale, viene chiamato “osservatore”. L’immagine del paesaggio e il paesaggio vibrano di intenzionalità polifonica. L’incessante interazione tra spazio-paesaggio-immagine e “osservatore” è sempre bidirezionale. Si chiama animismo.
È così che il dialogo del poema calligrafato può essere concepito e poi creato, sempre in uno spazio esterno, nel mormorio di un “paesaggio”, all’aria aperta, un’opera che è la sedimentazione dello sguardo del paesaggio su di me e del mio su di esso.
***
1 commento su “Chi è che guarda?”