La carne dell’immagine

Giuseppe Zuccarino

1. L’ammirevole racconto di Balzac Le chef-d’œuvre inconnu ha avuto una gestazione complessa, essendo passato attraverso tre diverse stesure. Appare una prima volta nella rivista «L’Artiste» nel 1831; la seconda versione, con modifiche al testo, viene pubblicata lo stesso anno nella raccolta Romans et contes philosophiques, mentre la terza, molto ampliata, si legge in Études philosophiques nel 1837, come pure nell’omonima sezione della Comédie humaine nel 18451. Nel racconto agiscono sia personaggi storicamente esistiti – gli artisti François Porbus (si tratta del fiammingo Frans Pourbus il Giovane) e Nicolas Poussin –, sia personaggi di fantasia, come il pittore Frenhofer, cui spetta il ruolo di maggior rilievo.

La vicenda è ambientata nella Parigi del 1612 e si apre mostrandoci Poussin, artista esordiente, che con timidezza si appresta a far visita per la prima volta a un collega già affermato, Porbus. Mentre si trova davanti alla porta e non osa bussare, vede sopraggiungere un vecchio, che all’opposto di lui indossa abiti di lusso e presenta un aspetto, nel contempo, fascinoso e inquietante. Quando l’anziano bussa e viene rispettosamente accolto da Porbus, il giovane ne approfitta per seguirlo, come se fosse un suo accompagnatore. All’interno dell’atelier, sono presenti vari quadri, ma l’attenzione del vecchio si sofferma su un’opera di Porbus che raffigura Maria Egiziaca. L’osservatore, rivelandosi un grande esperto, evidenzia i pregi ma soprattutto i difetti del quadro. Trova in particolare che nell’immagine dipinta manchino il senso della profondità spaziale e una resa efficace della vita corporea. Per far comprendere quale elevato compito egli assegni ai pittori, sostiene che «la missione dell’arte non è di copiare la natura, ma di esprimerla. […] Noi dobbiamo cogliere lo spirito, l’anima, la fisionomia delle cose e degli esseri viventi»2. A suo giudizio, Porbus riproduce correttamente oggetti e creature, ma non sa penetrare nell’intimità della forma, dunque non raggiunge la vera bellezza. Poussin interviene in difesa di Porbus, pur ammettendo di essere soltanto un neofita desideroso di apprendere. Il padrone di casa lo invita a eseguire un disegno per dar prova delle proprie capacità. A sorpresa, il vecchio (solo in seguito il narratore ne svelerà il nome, Frenhofer) giudica benevolmente tale disegno. Poi, per evidenziare ciò che manca al quadro di Porbus, si fa prestare pennello e tavolozza ed esegue rapidamente su di esso molti ritocchi, che suscitano nei due spettatori sorpresa e ammirazione. Soddisfatto del risultato, Frenhofer invita gli altri pittori a pranzo in casa sua; inoltre, avendo notato le povere vesti di Poussin, gli dà del denaro in cambio del disegno che il giovane ha eseguito.

Una volta che i tre sono entrati nello studio di Frenhofer, il pittore esordiente scorge fra l’altro un quadro che a prima vista gli sembra un’opera di Giorgione. Il vecchio, però, dichiara con noncuranza che si tratta di un dipinto imperfetto, eseguito da lui stesso quand’era alle prime armi. Porbus chiede a Frenhofer se può mostrare loro l’opera a cui sta lavorando da dieci anni, La Belle Noiseuse, ossia «la bella scontrosa» (è il nomignolo con cui sarebbe stata designata la cortigiana Catherine Lescault, anche se in realtà si tratta di un personaggio immaginario). Il vecchio, però, si rifiuta di esibire il quadro, non avendo ancora finito di perfezionarlo. Si lancia poi in un altro lungo discorso sulla pittura, nel quale dà nuovamente prova della propria competenza in materia, ma anche del persistere, in lui, di alcuni dubbi riguardo ai risultati che ha raggiunto nel realizzare quell’opera, dovuti in parte al fatto di non aver potuto disporre di una modella di perfetta bellezza.

Vedendolo perso nei propri pensieri, gli altri due artisti se ne vanno. Il novizio è rimasto affascinato dalla figura e dalle idee di Frenhofer: «Per l’entusiasta Poussin, quel vecchio era divenuto, tramite un’improvvisa trasfigurazione, l’Arte stessa, l’arte con i suoi segreti, le sue foghe e le sue fantasticherie»3. Porbus, tuttavia, lo mette in guardia: ammette che l’anziano artista è esperto a livello di teoria, ma sostiene che sbaglia in quanto riflette e divaga troppo; dunque, a conti fatti, «è tanto pazzo quanto è pittore»4. Il consiglio che Porbus dà al proprio interlocutore è semplice e perentorio: «Non imitatelo! Lavorate! I pittori devono meditare solo con i pennelli in mano!»5. Il giovane non rinuncia al desiderio di penetrare, prima o poi, nella parte nascosta dell’atelier di Frenhofer, quella in cui è custodito il misterioso quadro ancora in lavorazione, ma per il momento deve rassegnarsi a tornare nel povero appartamento in cui abita. A ben vedere, l’unica ricchezza di cui dispone è costituita dalla sua giovane e bella amante, Gillette, che gli fa anche da modella. Egli pensa che forse potrebbe convincere la ragazza a posare per Frenhofer, ottenendo in cambio da quest’ultimo il permesso di contemplare La Belle Noiseuse. Gillette inizialmente rifiuta, ma poi – tanto grande è l’amore che prova per Poussin – finisce con l’acconsentire.

Passano tre mesi prima che Porbus torni a far visita a Frenhofer. Si accorge subito che il vecchio è stanco e scoraggiato, soprattutto perché, al fine di completare davvero il proprio capolavoro, avrebbe bisogno di potersi ispirare a una donna reale. Porbus, che è al corrente delle intenzioni del suo giovane amico, propone a Frenhofer un patto: gli offre la possibilità di disporre di Gillette come modella, a condizione che conceda a lui e a Poussin di vedere il famoso quadro. Il vecchio si indigna per la proposta, non volendo che sguardi estranei profanino la sua amata creazione. Tuttavia, quando sopraggiungono nell’atelier Poussin e Gillette, resta colpito dall’aspetto della ragazza e finisce con l’accettare la proposta. Dopo essere rimasto per breve tempo da solo con Gillette nella parte segreta dell’atelier, permette agli altri due artisti di entrare, dicendosi convinto che la bellezza della figura femminile da lui dipinta sia superiore a quella della ragazza viva.

Porbus e Poussin si guardano attorno. Notano e apprezzano molto un quadro che raffigura, a grandezza quasi naturale, una donna seminuda, ma Frenhofer sostiene che quello è un lavoro di poco valore, per nulla paragonabile a La Belle Noiseuse, e li invita ad osservare piuttosto quest’ultima opera. I due artisti, però, nella tela che viene loro additata con orgoglio da Frenhofer, vedono solo «un ammasso confuso di colori delimitati da una quantità di linee bizzarre che formano una muraglia di pittura»6. A un esame più ravvicinato, riescono nondimeno a scorgere, in un angolo del dipinto, «la punta di un piede nudo che sbucava da quel caos di colori, tonalità, sfumature indecise, quella specie di nebbia informe: ma un piede delizioso, un piede vivo! Restarono pietrificati d’ammirazione davanti a quel frammento sfuggito a un’incredibile, lenta, progressiva distruzione»7. Del tutto diversa è la visione che della propria opera ha Frenhofer, il quale, estasiato, ne indica e commenta alcune parti che gli sembrano perfettamente riuscite. Gli altri due pittori si rendono conto che egli è in buona fede, ma restano interdetti di fronte a una simile allucinazione. Poussin esclama, rivolgendosi a Porbus: «Finirà pure coll’accorgersi, prima o poi, che non c’è niente sulla sua tela»8. Udendo questa frase, Frenhofer dapprima si infuria e insulta il giovane pittore, poi, rendendosi conto che anche Porbus non osa pronunciarsi a favore dell’opera, viene colto dal dubbio. Tuttavia si riprende presto: accusa i due colleghi di essere invidiosi, ricopre con un drappo il proprio quadro per sottrarlo alla loro vista, e li congeda freddamente9. Si giunge così all’epilogo del racconto, condensato da Balzac in un’unica frase: «L’indomani Porbus, preoccupato, tornò a cercare Frenhofer, e apprese che era morto quella notte, dopo aver bruciato le sue tele»10.

È interessante notare che, nel passaggio dall’una all’altra delle versioni del testo balzachiano, le modifiche non sono state soltanto di ordine formale, ma anche di significato. Uno scrittore del secolo successivo, Italo Calvino, le ha chiarite in questi termini: «Le chef-d’œuvre inconnu, a cui Balzac lavorò dal 1831 al 1837, all’inizio aveva come sottotitolo “conte fantastique” mentre nella versione definitiva figura come “étude philosophique”. […] Il quadro perfetto del vecchio pittore Frenhofer nel quale solo un piede femminile emerge da un caos di colori, da una nebbia senza forma, nella prima versione del racconto (1831 in rivista) viene compreso e ammirato dai due colleghi Porbus e Nicolas Poussin. “Combien de jouissances sur ce morceau de toile!” (Quante delizie su questa piccola superficie di tela!). E anche la modella che non lo capisce ne resta in qualche modo suggestionata. Nella seconda versione (sempre 1831, in volume) qualche battuta aggiunta dimostra l’incomprensione dei colleghi. Frenhofer è ancora un mistico illuminato che vive per il suo ideale, ma è condannato alla solitudine. La versione definitiva del 1837 aggiunge molte pagine di riflessioni tecniche sulla pittura, e un finale in cui risulta chiaro che Frenhofer è un folle che finirà per rinchiudersi col suo preteso capolavoro, per poi bruciarlo e suicidarsi»11.

In realtà, nel redigere la stesura finale del suo racconto, Balzac si proponeva di mostrare cosa accade quando «l’opera e l’esecuzione vengono uccise dall’eccessiva abbondanza del principio creatore»12. Ai suoi occhi, dunque, Frenhofer non era da considerare come un pazzo, ma piuttosto come un artista che aveva commesso l’errore di voler produrre un’opera di perfetta bellezza, e proprio per questo irrealizzabile. Tale errore aveva causato in lui una perdita del senso della realtà; pertanto, quelli che il pittore riteneva fossero ritocchi successivi apportati all’opera al fine di migliorarla, lo avevano portato, di fatto, a trasformare inconsapevolmente il quadro in un insieme caotico di linee e macchie di colore. Così egli aveva finito col distruggere il proprio capolavoro, dapprima sul piano visivo e poi incendiandolo al pari degli altri suoi quadri. Il suicidio di Frenhofer può certo essere inteso come l’effetto di una tardiva presa di coscienza del fallimento non soltanto di una singola opera, ma anche di un’intera esistenza. Tuttavia è agevole scorgere in Balzac una certa stima nei riguardi del personaggio che ha ideato. Frenhofer, infatti, possiede grandi doti intellettuali e artistiche e manifesta una totale dedizione alla pittura; quindi, nella sua ricerca dell’assoluto (e nello scacco che ne consegue) è pur sempre ravvisabile qualcosa di eroico.

Una conferma indiretta di quest’ultima interpretazione viene dal fatto che il Frenhofer balzachiano ha suscitato un’imprevista ammirazione, e persino una sorta di identificazione psicologica, in esponenti di primo piano dell’arte moderna, come Paul Cézanne e Pablo Picasso. Su questo argomento esiste un interessante libro di Dore Ashton, a cui si rimanda per maggiori approfondimenti13. Possiamo però ricordare almeno qualche dato di fatto, partendo appunto da Cézanne. Risalgono al periodo 1866-69, quando il pittore era quasi trentenne, alcuni documenti che confermano quanto fosse rimasto impressionato dalla lettura di Le chef-d’œuvre inconnu. Pensiamo ad esempio a un questionario da lui compilato: si trattava di una specie di gioco di società, diffuso all’epoca, nel quale si veniva invitati a rispondere per iscritto, in maniera sintetica, a varie domande su se stessi. Al quesito relativo a quale fosse il personaggio romanzesco o teatrale preferito, il pittore replica indicando, senza ulteriori chiarimenti, il nome «Frenhofer»14. Negli stessi anni egli realizza due significativi schizzi a matita: l’uno raffigura il protagonista del racconto balzachiano mentre è intento a dipingere, in presenza di una modella vestita, un ritratto femminile; l’altro un anonimo pittore in abiti seicenteschi (potrebbe trattarsi di Rembrandt o, anche in questo caso, di Frenhofer) dedito alla medesima occupazione, ma in questo caso l’opera a cui sta lavorando senza modella è un nudo di donna15. L’aneddoto più importante resta però quello riferito da Émile Bernard nei suoi Souvenirs sur Paul Cézanne, editi in rivista nel 1907 (dunque l’anno successivo alla morte dell’artista di Aix-en-Provence). Scrive Bernard: «Una sera in cui gli parlavo dello Chef-d’œuvre inconnu e di Frenhofer, l’eroe del dramma di Balzac, si levò da tavola, si piantò davanti a me e, colpendosi il petto con l’indice, confessò, senza una parola, ma con quel gesto ripetuto, di essere lui il personaggio del romanzo. Ne era tanto commosso che i suoi occhi si erano riempiti di lacrime»16. Anche se è possibile segnalare delle analogie fra le idee sulla pittura espresse da Frenhofer e certe affermazioni reperibili nelle lettere di Cézanne, a colpire quest’ultimo dev’essere stata soprattutto la personalità dell’artista immaginato da Balzac. Come nota Dore Ashton, «la hybris di Frenhofer costituiva per lui un terribile avvertimento, e tuttavia egli provava un profondo rispetto per le ossessioni che avevano condizionato quel personaggio»17.

Qualcosa di simile deve aver pensato Picasso leggendo il racconto, come attesta una tardiva confidenza da lui fatta al mercante d’arte Daniel-Henry Kahnweiler nel 1959: «Che cosa meravigliosa quel Frenhofer… Alla fine nessuno può vedere nulla all’infuori di se stesso. Grazie a quella interminabile ricerca della realtà, è finito nell’oscurità più nera»18. Ma la familiarità del pittore spagnolo col testo di Balzac risale a molti anni prima. È infatti nel 1926 che egli riceve la proposta – da parte di un altro celebre mercante d’arte, Ambroise Vollard – di illustrare un’edizione di Le chef-d’œuvre inconnu. Non a caso, lo stesso anno Picasso dipinge una grande tela, dal titolo Le peintre et son modèle, che sembra ispirata al racconto balzachiano: infatti «rappresenta un marasma di linee in cui, oltre alla confusa sagoma del pittore, si distingue appunto un piede»19, peraltro ingrandito e situato in primo piano. È chiaro che Picasso si sente chiamato in causa da quel testo, visto che in tutta la propria carriera artistica ha affrontato intenzionalmente – e non in maniera involontaria, come nel caso di Frenhofer – il problema del rapporto tra pittura figurativa e pittura astratta, anche se le sue opere non rientrano mai per intero nella seconda categoria.

In ogni caso, il lavoro commissionatogli da Vollard avrà una gestazione lenta, visto che il libro vedrà la luce solo nel 193120. L’apporto dell’artista è però imponente sul piano quantitativo, visto che si tratta di tredici acqueforti e sessantasette xilografie. Mentre queste ultime includono fra l’altro dei disegni (datati 1924) composti solo da segmenti, linee e punti, le acqueforti presentano un aspetto più tradizionalmente figurativo21. Tuttavia neanche in questo caso si tratta di illustrazioni direttamente riferite al testo balzachiano, bensì di variazioni su un tema carissimo all’artista spagnolo, quello del rapporto fra il pittore e la modella22. L’unica acquaforte che, non senza ironia (o autoironia), pare alludere alla vicenda di Frenhofer, mostra una modella vestita, poco avvenente e intenta a sferruzzare, mentre il pittore che dovrebbe raffigurarla sta tracciando sulla tela un groviglio di linee senza alcuna somiglianza con la donna che siede di fronte a lui23.

Un’ulteriore conferma dell’importanza, per Picasso, di Le chef-d’œuvre inconnu, viene dal fatto che l’artista spagnolo ha deciso di insediare il proprio atelier in un antico palazzetto parigino situato al n. 7 di rue des Grands-Augustins. Scelta per nulla casuale, come risulta dalla testimonianza del fotografo Brassaï: «In quella dimora, che prima della Rivoluzione era il palazzo Savoia-Carignano, Balzac faceva incontrare il maestro Frenhofer con François Porbus e Nicolas Poussin; là l’eroe del suo romanzo, allontanandosi sempre più, nella sua sete d’assoluto, dalla rappresentazione del reale, creò il proprio capolavoro, lo distrusse e morì […]. Commosso e stuzzicato dall’idea di prendere il posto dell’illustre ombra di Frenhofer, Picasso affittò immediatamente l’atelier. Era il 1937. E nello stesso luogo di Le chef-d’œuvre inconnu I, egli aveva dipinto il suo “notissimo capolavoro”, Guernica»24. In verità, nel testo di Balzac a trovarsi nella rue des Grands-Augustins non era lo studio di Frenhofer, bensì quello di Porbus25. Tuttavia il rapporto che, anche sul piano biografico, Picasso si è sforzato di stabilire col protagonista del racconto resta molto significativo, e rientra a pieno titolo nella «favola dell’arte moderna». (…)

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Note


1 Su tutto ciò, cfr. Marc Eigeldinger, Introduction, in Honoré de Balzac, Le chef-d’œuvre inconnu – Gambara – Massimilla Doni, Paris, Garnier-Flammarion, 1981, pp. 15-16.

2 Le chef-d’œuvre inconnu, cit., p. 48 (tr. it. Il capolavoro sconosciuto, Firenze, Passigli, 1983, p. 31; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche).

3 Ivi, p. 57 (tr. it. p. 45).

4 Ivi, p. 58 (tr. it. p. 47).

5 Ibidem. Balzac riprende qui tacitamente un celebre detto di Annibale Carracci: «Noi altri dipintori habbiamo da parlare con le mani».

6 Ivi, p. 69 (tr. it. p. 65).

7 Ivi, p. 69 (tr. it. p. 65).

8 Ivi, p. 71 (tr. it. p. 67).

9 Nel frattempo Gillette, che solo con vergogna e ritrosia ha assecondato la volontà di Poussin, dichiara di non poterlo più amare come prima, anzi di provare per lui un certo disprezzo.

10 Ivi, p. 72 (tr. it. p. 69).

11 I. Calvino, Visibilità, in Lezioni americane (volume edito postumo nel 1988), in Saggi, vol. I, Milano, Mondadori, 1995, pp. 711-712.

12 H. de Balzac, lettera a Madame Hanska (Ewelina Rzevuska) del 24 maggio 1837; la frase è riportata in M. Eigeldinger, op. cit., p. 15.

13 Cfr. D. Ashton, La favola dell’arte moderna (1980), tr. it. Milano, Feltrinelli, 1982.

14 Anzi, «Frenhoffer», visto che per distrazione lo scrive in questo modo. Cfr. P. Cézanne, Mes Confidences, in AA. VV., Conversations avec Cézanne, a cura di Michael Doran, Paris, Macula, 1978; 2011, p. 180 (tr. it. senza titolo in Cézanne. Documenti e interpretazioni, Roma, Donzelli, 1995, p. 111).

15 I due schizzi, conservati al Kunstmuseum di Basilea, si possono vedere riprodotti in D. Ashton, op. cit., illustrazioni 6 e 7 fuori testo.

16 É. Bernard, Souvenirs sur Paul Cézanne, in Conversations avec Cézanne, cit., p. 122 (tr. it. senza titolo in Cézanne. Documenti e interpretazioni, cit., pp. 69-70). La lettura di questo episodio ha impressionato Rilke, che lo ha riferito a sua volta, con qualche imprecisione, alla moglie Clara Westhoff (cfr. Rainer Maria Rilke, missiva del 9 ottobre 1907, in Lettere su Cézanne, tr. it. Milano, Electa, 1984, p. 49).

17 D. Ashton, op. cit., p. 54.

18 P. Picasso, cit. ivi, p. 141.

19 Elena Pontiggia, nota senza titolo nel catalogo da lei curato Picasso illustratore, Milano, Skira, 2007, p. 55.

20 H. de Balzac, Le chef-d’œuvre inconnu, Paris, Ambroise Vollard Éditeur, 1931.

21 Le si veda riprodotte nel citato catalogo, alle pp. 56-71. Conviene precisare che anche i disegni di linee e punti si ispiravano a un modello concreto. Ha dichiarato infatti l’artista: «Ammiro molto le carte astronomiche. Mi sembrano belle indipendentemente dal loro valore scientifico, e una volta mi sono messo a disegnare un insieme di punti riuniti da linee e macchie che sembravano sospese nel cielo» (P. Picasso, Lettres sur l’art, in «Formes», 2, 1930; passo riportato in E. Pontiggia, op. cit., p. 55).

22 Sul ruolo svolto da questa tematica nell’opera picassiana, cfr. il saggio di Michel Leiris, Le peintre et son modèle (1973), in Écrits sur l’art, Paris, CNRS Éditions, 2011, pp. 353-370 (tr. it. in Il pittore e la modella. Scritti su Picasso, Milano, Abscondita, 2003, pp. 11-61).

23 Immagine riprodotta in Picasso illustratore, cit., p. 61.

24 Brassaï (Gyula Halász), Conversations avec Picasso, Paris, Gallimard, 1964; 1969, p. 65 (tr. it. Conversazioni con Picasso, Torino, Allemandi, 1996, p. 61).

25 Cfr. Le chef d’œuvre inconnu, cit., p. 43 (tr. it. p. 23).

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Il saggio di Giuseppe Zuccarino, La carne della pittura, sarà pubblicato integralmente in “Quaderni delle Officine”, vol. CXXXIV, marzo 2024.

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