Risonanze VII – Massimo ORGIAZZI

Quello che resta dei giorni

Quello che resta dei giorni, è un reale intravisto, scoperto per caso tra margini in ombra; poi esplorato, afferrato, stretto forte tra le dita, riportato alle labbra per dare nuove svolte al respiro. Quello che resta, è l’attimo in cui anche la tenebra diventa chiarore, risplende nella conta delle sue ferite e si dispone al silenzio, si acquieta, in ascolto della vita che scorre, del mondo di sempre che pianta le sue radici d’aria in terre di memoria. E’ quello il tempo in cui la lingua si rivela a se stessa, e il suo alfabeto segreto aspira a farsi segno e senso, la traccia che rimane nella dimora di un verso. E’ allora che i passi si arrestano, e le mani iniziano a frugare il cielo delle immagini superstiti, per estrarre “giorni splendidi di rame / da questo vento”, tutte le cose, i volti, i gesti, le ore che mancano all’appello, quelle “cui accenniamo da sempre / col morso / nella notte, tra i denti”. Sono specchi franti di esistenza che si ricompongono a ritmo di voce e di echi lontani; sono vertigini arborizzate di assenze, evase, in forma di spasmi trattenuti, nell’opera di semina che guarisce l’oblio, il bianco della pagina muta che le accoglie. E tu sei là, è là che ritrovi il filo dei giorni, la trama di ogni dire, “dove parole / dimenticate morte / hanno un nuovo nome”, cantano l’opera che urge di tutti gli astri possibili, la riva che si nega e si propone a ogni naufragio, il destino della rosa che argina il tracimare di tecnica e metallo, gli occhi che vi si adagiano, come manti, per riscaldare d’ali l’ombra che il lessico geometrico inchioda alle croci della terra. E tutto ciò che emerge, e scampa al rogo delle sabbie, è la cadenza antica delle zolle, l’orma sul sentiero, la neve che invita le stagioni a farsi spazio, la corrente dell’erba che traghetta oltre l’infanzia: è “la terra di qui”, un altrove che è il presente mobile di ogni ricordo, pronto a farsi filo aguzzo di spina e carezza di linfa, una mano notturna o solare che serra nel palmo il presagio di un altro amore, una purezza che “taglia in due tutta una morte” e si desta, si offre a nuvole di fertilità, “concima cieli a se stanti”, inviolabili, inviolati.

Allontanarsi dalla consuetudine, dall’abito sdrucito che deforma volto e profilo; deporre la maschera quotidiana, per concedersi a un lampo d’incanto, al chiarore di un mondo restituito alla sua infanzia, ai segni della terra, ai suoi glifi che parlano lingue oggi inudibili, perse per sempre, arrese ai deserti senza oasi di prolungati silenzi: non per evadere, e vivere l’attimo di sogni che hanno consistenza e durata di scintille, ma per armarsi della forza di rifiuti più grandi, fare ostacolo e resistere a ogni minaccia: solo per procurarsi argilla, acqua e voce, per riscrivere il cammino dei giorni, riplasmarne i passi, affinché si tendano, come fa la fonte verso la sete che la fa esistere, al richiamo fraterno e dolente delle nostre labbra. E’ un sogno che si insinua tra le pieghe, e le piaghe, del reale e si fa materia vivente, anima, soffio che protegge il pozzo della vita, tra “alberi – impianti / che custodiscono pioggia” pronta a spegnere ogni arsura, così come il cielo custodisce lacrime per farne lumi, e la più piccola foglia la sapienza antica delle stagioni per ricamare albe. E’ a quelle distese da navigare che la pupilla guarda, specchiandosi come una vela sopra l’onda che la travolge e la sostiene: per “cercare nello spiovere del mare / il fronte aperto / la speranza delle cose”, senza dimenticare che noi siamo, e saremo, sostanza di voci ferite, che “noi eravamo – ricordi? – la scelta / lasciata smagrire per sbaglio / in una lesione di cielo”.

E’ la speranza la linfa dei giorni, una speranza che si alimenta di memoria: perché anche quando “non c’è verso che satura a spiare / la perdita di fiato della sera”, anche quando si può soltanto guardare il solco, sempre più profondo, che le cose lasciano, come una ferita, scivolando via dalla mano, rimane il dire sotterraneo che regge lampade su corpi d’insonnia, nella veglia che non si appaga, e freme, come acqua sospesa tra porto e deriva: è in quello spazio, labirinto che custodisce ogni somiglianza, che si affronta la notte; è allora che “un volto lo si sceglie / ed è le doglie di via: la frontiera”; è un passo che si allontana, insieme ai giorni, senza dimenticare le carte naufragate che bruciano alle spalle, quando “scriversi versi era vivere bene / dovunque, sedersi nel mare / di prati e farne cancrena”. Ora, invece, rimane solo il tempo di dare vita alla vita, lavare ogni delusione, ogni oltraggio, nella sorgente inesauribile dei fiumi di ieri: è tempo di rimettersi in cammino, negare l’aiuto agli inverni che costruiscono lacci di gelo, raccogliere in volo tutto ciò che a quelle catene si rifiuta, fosse solo una parola taciuta, refrattaria al dire che ne fa sonno impaurito. E’ tempo di andare, stabilire la rotta, le stazioni di sosta: per quando “occorre /… / fermarsi dall’alto a guardare / nevicare l’estate”.

***

Da RELIQUA REALIA

HoursSwap

Ho estratto giorni splendidi di rame
da questo vento, agli spigoli di ombre
da sciami di montagne,
dal Sesia arroventato di distanze
rovesciate: abitati da bambini
sulla ghiaia, a fatica chini,
manager di ore:
rimangono ridetti tutti
i passaggi finiti di un’opzione
che si scioglie: che io faccio – albore per albore.

Miopia

Abbiate cura degli argini,
se ancora lo potete. Custodite
i muri, i confini fragili.
Oltre è paura, è furia.

(Fabio Pusterla, Bois de la folie)

Ci affezioniamo a colori di copertine,
accarezzandole: a cellulari,
promettendo loro di non ucciderli mai.

Poi aspettiamo che le cose perdano
il loro intorno, si smontino piano,
diventino il bordo di un’allusione,
il labbro spaccato, il dorso d’incontro
cui accenniamo da sempre col morso
nella notte, tra i denti: la paura
con infiniti proventi sbagliati di sonno.

Eileen

L’antichità è lunga:
simula il tuo sorriso, spunta
nel giorno steso vivo sugli infissi
d’un ospedale.
Questa notte sei stata dove parole
dimenticate morte
hanno un nuovo nome;
un battito d’ali che asciuga il sole.
Tiri su con il naso
da farti venire il batticuore:
però il consorzio agricolo, il caffè
riarredato, i tuoi occhiali da vista
e il ricordo del tatto sulla tua mano
lacrimano la sera su una scritta:
email me asap, con un fuoco lontano.

Orli

Abbiamo linee addosso
io e te, linee di fondo –
ed estraiamo da grida di corvi
gli orli di un volto,
biforcazioni di un unico sonno.

La terra di qui, che s’allunga,
schiena frontiere di anni
taglia in due tutta una morte,
concima cieli a se stanti,
prendendo a se i due estremi della notte
faina.

Tu sola che spingevi appena
sfiorandola – la carrozzina.

Ritratto di noi stessi

Un sole largo si rigira in acqua:
ha un peso in pagine
che smonta fino alla grazia
ben oltre la fiacca
a conferma dei crolli nelle estati
di tutti i silenzi d’ufficio, pomeridiani, spaiati;

fa passare ai capi elettrificati del cielo, alianti
di carovane, convogli di ricorrenze
in cerca del muscolo, delle cose, tra le pietre,
le ostriche e i nostri inquieti
martìri gemelli – infranti di spalle;
riesuma ombre di pròtesi,
batteri maturati come ipotesi di amianto.

L’aria – lei – migra sul filo più stabile del mondo
in sciami di frangenti minuscoli, proiettili
di formule e cervello
tra pozze cadute dal cielo e zone più povere di realtà.

E come ci stavamo sopra, noi
sorridendo,
è un semplice ricordo: come su una diga di coltello
contro crampi di ferie, attualità;
le ottiche centrate in pieno dallo scopo
in un feedback di orizzonte smerlato da poco
su cui se ne vanno rimorsi
come fabbriche distanti
nella calura; alberi – impianti
che costudiscono pioggia.

Tre, le miriadi di croci intraviste
sul cemento:
noi siamo otturazioni di ritardo,
bancarotte del tempo.

Electio dierum

Sono belle le tre del pomeriggio
ed è un disastro l’essere chiamati
a credere nel pianto che viene a piovere
tra i tempi, come un incrinarsi di bicchieri.
Ci sembreranno sacche, stupidi orbitali
di labili facciate rase al sole;
ci sembrerà dolore
di ottima qualità
sentendolo migrare come masse
d’alghe in profondità
color dei funghi morti, delle micce spente;
oppure splendere di inerzia propria
dagli urli più importanti crepati per capriccio.

Sarà per una volta una questione
di travisamento della descrizione,
di cercare nello spiovere del mare
il fronte aperto
la speranza delle cose
le ferite membranose, le attese, i crampi
del rumore, il punto dove
si toccano le curve delle pagine
in mezzo ai libri,
la cuspide parola. Una voragine.

Vedi, ecco: una follia da poco sventola
sul fondo, sbandierando l’universo
magro, si vede dentro, bene aperto:
spicca ogni mia domenica ridicola.

Resa ad una sera virale

E’ già uguale a tutto – e ne vuoi dire
della notte che attracca
ai campanili e stacca
brevi parole suicide; uccide
le tracce, le spore del pianto anteriore
succhiandone copie precise
quanto malfatte
e fallaci, sfiancandosi dentro
spingendo nei timpani, intasandone il tempo,
il comunque limato, onesto, in fondo imparziale ed offerto
disossato, attraverso.
E pure dura delicato, pizzica
appena e si conserva nel fiato,
nell’orlo al fondo radioso di cosmo insufflato,
nello stare domenica
sempre.
E cresce – sembra – in un riso
rifatto, semplice, cavo
d’ingombro, a cucchiaio:
poco più in là spunta esatto e preciso
il buio: dalla sua schiena possiamo
vedere tutto il secolo scorso,
un sorriso scassato, un rimbombo
solare di dopo pranzi in un torpore già morto.
Noi eravamo – ricordi ? – la scelta
lasciata smagrire per sbaglio
in una lesione del cielo, un cifrario
d’intraducibili, minimi strilli.
Ed ora stiamo ad ascoltare fasci
di settembri incastrati nel sonno leggero,
le desinenze del fresco, le classi
di senso tra le migliaia di nuche del testo.
Ma è l’altra la vita: è aspersa
di fianco, ravviva a poco a poco lucore
al limite d’angolo di visuale. Sarà diseguale,
crollerà nei giri dei camposanti. Negli aerei al sole.

*

Non c’è verso che satura a spiare
la perdita di fiato dalla sera
dalla fionda di pose strane
in questo tuo locale che condensa

bore violente e dance da madrigale

::

Non c’è forza che sia più forte e spanta
di questa aorta dentro il sole
che si pianta con un secondo solo
di ritardo nel profumo

del tuo, del mio vasto tatto

::

Hai mai saputo il nome di qualcuno
facendoci l’amore ?
Te lo dico io mentre ti bacio
tra le luci allungatesi nel cuore

di questo male che è ripetizione

::

left realities dal conto errato di colore

Quindici candele

Ironia della sorte averne storia
libera da mali aperti mentre la si compila
– tu insistevi – nel lampione vecchio, la si sbroglia
dal nocivo, dall’odore di riviste e scale
in legno, dal profumo stellare di mia nonna
dal buio enorme, dal latrare
di ringhiere e della torma
di tempeste e grandine di due giorni fa.

Ironica, la lampadina a quindici candele
vela debole un bolide di scuro
schiantato qua da millenni, ere
gonfiato a dismisura nella terra, a rinculo
dei ricordi che si scontrano

tra noi, che eravamo
soliti salire insieme la mulattiera
rimane l’alone sotto il cerchio di ceramica
tu che parli al bisbiglio, un fiato
che può bastare, ora
alle corse notturne per paura,
per l’occhio solo che hai mentre ti bacio,
per un mazzo di carte, quindici cicale,
alla briscola di questo squarcio di mondo
che ‘stanotte non ferisce, non prevale.

Hell in repeating

Eccolo l’inferno, libro chiaro:
l’ho allineato amaro
goccia a goccia, di pioggia
di selciato estivo
di schiene morte in pietre
di enormi vomeri animali in selce
e vivo, di fuoco umido, d’odore
spento, di recedere e ridarsi sempre
in circolari cecità irredente
di gole aperte e schianto.

Eccolo: a me presente,
figlia: il tuo fiato d’occhi d’osso
segue un padre storto
malandato. Certo: lo era.
Lo è nel muoverti, le medicine
in mano: un volto lo si sceglie
ed è le doglie di via: la frontiera.

I quadrati di sole lasciati a veleggiare dalle cime

Valsesia è ombrosa di nuvole esplose
gloriosa di luce radiata dal retro del sole
punta da ore
nuove, mediane
e gradate di cuore, d’inflazione
di scheletro, ossa di cose.

:

Ma sono molti a capire
con precisione il meriggio,
il confine del giallo
dove è durata un sorso
di vetri, una boccata di lago.

:

In un’intervista
colloquiale il pastore
lamenta l’umore
dell’erba, un agosto di rogge,
lumache fattesi esplodere piano
nel nocciolo curvo di un temporale
agendo contro l’inverso
procedere corto, un tonfo di tempo
capovolto.

:

Serve urgente un passaggio
giudica un matto
che ha lasciato deserto
il passeggio restando,
colophon d’un miraggio
nel pizzico elettrico
azzurro, pomice d’aria, di pianto.

:

Era la fine d’agosto,
un ciclo sfrangiato di limiti,
tuoni, larghe scoperte:
scriversi versi era vivere bene
dovunque, sedersi nel mare
di prati, farne cancrene.

:

Il commerciante ricorda:
i nobili del posto erano al fondo,
in equilibrio nel centro del vomito
forti avanguardie del rombo
di vuoto nelle valli
tra ragazzini
sicari di capriole, di salti.

:

Le montagne contrarie
non sono che screzi di malattie
dell’acqua nei laghi
screensaver della sera, del ponente
nell’autorità di tutti i crinali,
estesa per androni, sistemi stellari,
battente.

:

Aveva imparato infine a patire
i nomi, le loro frontiere,
schiudere il sonno tra le porte,
gli ombrelli, le saliere.
Ora vendeva i suoi mali
ai battiscopa rigonfi, alle prese,
abbandonati villaggi
di soli caduti inesplosi, fondali.

:

Occorre introdurre più cauti
quadrati nel sole,
fermarsi dall’alto a guardare
nevicare l’estate di stanche, l’odore
di banchi salati
tra le piaghe più ampie dei monti.
La libertà da lassù non compare:
sta nel volere l’agire,
la vita a riverberi
trilli di spazi, di anni, frontiere oltremare.

4 pensieri riguardo “Risonanze VII – Massimo ORGIAZZI”

  1. massimo è un poeta. a volte è un poeta che nega la tenerezza infinita del ricordo di dove cullato a favore di un verso più angolato, facile da controllare.
    ch euna curvo in cui il poeta si perde vuo dire la fine d’ ogni morte da scrivere.
    ecco, di massimo – incrociato pochissimo in rete ma seguito – mi chiedo l’osare quanto possa impaurirlo nel suo cesellare.
    ci sono sprazzi crepe porte di cui lui forse non si avvede in cui sensualità e paura ne fanno umano peso e umana fascina fascinosa. ma se si lascia andare. se la sua bocca sorride come quella di un bambino.
    non so ben spiegarmi…
    ne approfitto qui, francesco, un abbraccio stretto e caro per questi giorni che si spera siano silenziosi di intimità riflessione forma di preghiera per quanti dentro di noi urlano in altri continenti che in apparenza non ci “toccano”, almeno io mi auguro di impararci qualcosa dal mio predicare (paola che non ubbidisce a paola)
    difficile restare immune dal buonismo ma so che con te so di essere vista esattamente come sono.
    e auguri anche ai tuoi lettori e ospiti
    (sto cercando di racimolare qualcosa)
    grazie sempre
    paola

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