Oratorio bizantino

Franco Arminio

La paesologia, la disciplina che Arminio ha messo al mondo un po’ per gioco un po’ sul serio, è una «scienza arresa», non mira a vendere, ma a far capire, non è seduzione, ma un gesto di amore doloroso e insieme inaffondabile. In questo Oratorio bizantino, che raccoglie scritti che attraversano più di un decennio, s’incontrano all’improvviso delle descrizioni commoventi, ci s’imbatte nell’Irpinia d’Oriente, una terra alta e battuta dai venti, una vera e propria «Mecca dei venti», uno dei pochi luoghi nei quali può venire in mente l’idea di un Museo dell’aria. Ma questi venti, che prendono la rincorsa da altre terre alte e arrivano da lontano, sono anche e soprattutto un luogo dell’anima, sottolineano la distanza dell’altura dai riti fescenninici della costa, dall’opulenza volgare e rumorosa di un mare fatto non più da marinai e navigatori, ma dalle plebi estive notturne e accaldate, dai terremoti sonori scagliati nel buio a decine di miglia di distanza, testimonianza di quella perdita del rapporto con i luoghi che li rende una discarica dello stordimento, un fondale dove il rumore annega in un solo colpo la bellezza e la coscienza, «una fossa comune dello spirito».
     Ma questa nobiltà dell’altura, questa diversità riservata e austera, non diventano mai in Arminio la caduta in una sorta di mitizzazione, perché il benessere pesante e volgare non è rimasto confinato sul mare, ma è arrivato fino sui monti dell’Irpinia, in una forma fredda, ma non meno velenosa, e ha trasformato l’antica ritrosia in un collettivo voltare le spalle non solo ai luoghi e alla loro cura, ma a tutte le storie collettive. È come se sulla comunità fosse caduta una bomba silenziosa quando sono arrivati prima il trauma del terremoto dell’80 e poi i soldi, che hanno ricostruito le case, ma sembrano aver seppellito nelle loro fondamenta anche le coscienze: «Quello che una volta era il popolo della sinistra è un informe ammasso di solitudini e disperazione guidate da larve di una stagione politica cupa e disfatta».
     I segni esterni di questa «disfatta antropologica» non sono clamorosi, ma non sfuggono al sismografo del paesologo, a chi possiede memoria di ciò che era e sa cogliere le differenze anche nei segni più piccoli, nei vuoti che si dilatano nelle strade, nell’estraneità che cresce anche nei paesi dove ci si conosce tutti. Oggi, dice Arminio, in questi paesi le porte sono chiuse, sempre chiuse. Ognuno sta dentro la propria casa, ha come unico dio il proprio utile privato, si è ritirato dalla comunità, le ha chiuso la porta in faccia, lasciandola fuori in preda ai venti. La bomba è esplosa dentro, producendo una mutazione delle anime. E quello che succede fuori scompare, sostituito dalla televisione, che ti fa abitare altrove, che ti rende cieco con un’orgia di immagini. Si incontra qui uno dei bersagli polemici privilegiati di Arminio, quella piccola borghesia che vive la propria casa come un rifugio antiatomico, che non riesce più a vedere i propri luoghi, omologata fin nel profondo dell’anima, arredata dai miti del consumo nel proprio immaginario, spenta nelle passioni collettive. E quando esce di casa, questa classe lo fa solo per esportare la chiusura dell’anima e la «planetaria fornicazione dei mediocri», per incrementare il suo bottino privato. È da questo grado zero della passione che inizia a prosperare una politica non politica, trasformata in affare da chi la fa, in carriera e compromessi, che presenta come sano senso della realtà la tecnica della spartizione del bottino. Ecco perché domina la vigliaccheria, quella tara dell’anima su cui i politici hanno costruito il proprio dominio, ecco perché in tanti, salendo di rango, sono arrivati in cima, ma non sanno più dire nulla.

(Dalla prefazione di Franco Cassano, Nobiltà dell’altura)

 

Franco Arminio, Oratorio bizantino
Prefazione di Franco Cassano
Roma, Ediesse, “Carta Bianca”, 2011

 

Contro gli estremisti della moderazione

     Siamo assediati dai moderati, dagli ipocriti, dagli animali a sangue freddo, coccodrilli mummificati che all’improvviso si sciolgono e spalancano le loro fauci. Siamo in un mondo di fango. Vogliono distruggere la bellezza e chi la ama, hanno ridotto il mondo a un porcile di inganni, ma non sono contenti, vogliono che tu sia come loro. Gli estremisti della moderazione dominano la scena. Se dici una verità, una sola, ecco che diventi estremista parolaio. Il mondo non era mai stato tanto miserabile, perché non era mai stato tanto impregnato di questa ipocrisia. Gente che non merita tanti riguardi ma una feroce contestazione. Peccato che adesso la contestazione non sia più di moda. Adesso è chic fingere di essere intelligenti e distaccati, col disincanto di chi ha sempre qualcosa di meglio da fare invece che posare l’occhio sulla melma che ci circonda.
     Il bersaglio della mia lotta è l’estremismo moderato che imperversa un po’ ovunque. Penso, ad esempio, a chi si muove tra i matrimoni e le bomboniere, gente che vuole semplicemente consumare il mondo e non sa amare il mistero e la bellezza, ma solo i suoi simulacri. Bisognerebbe che questa accolita di moderati venga smascherata nella sua vera natura di gente che vuole solo mangiare, organismi ciechi che non sanno e non vogliono saper niente del vivere e del morire. Siamo di fronte a una vera mutazione genetica dell’umano. Siamo circondati da signori dall’eloquio fluente e intimamente inconsistente. Possono fare teatro, politica, possono essere semplici pensionati o sindaci o ministri, il tratto che li accomuna è il compromesso, è la svendita di ogni principio in base all’unico principio che vale: mangiare, divorare il mondo e le sue merci. Di fronte a questa planetaria fornicazione dei mediocri, di fronte a questa capillare distribuzione della viltà e dell’ipocrisia, non c’è da esitare e bisogna combattere, bisogna spendersi, giocarsi la partita. E la partita non può che essere giocata anche contro noi stessi, contro quella parte di noi che tende a uniformarsi, a lasciar correre i forsennati dell’imbroglio. Non ci illudiamo di essere da un’altra parte. I miserabili rendono misera anche la nostra vita.
     Se abbiamo capito qualcosa del mondo in cui ci tocca vivere, allora dobbiamo raccontarle le nostre visioni, dobbiamo farle sentire, senza stancarci, senza farci affliggere più di tanto dagli eroi dei luoghi comuni e della conservazione. Ci sono anime disposte ad accendersi, ci sono cuori che possono riavviarsi. A volte basta poco, basta far capire che questo mondo è impossibile e che bisogna attimo per attimo costruirne un altro. Forse lo stiamo già facendo, forse, senza che se ne accorgano, i nostri nemici già stanno perdendo.

 

***

 

Lettera all’Irpinia

     Cara Irpinia
     Terra di nuvole e silenzio,
     Ti scrivo da una strada di Avellino che si chiama corso Europa, una strada dove sta iniziando il traffico della mattina. Si annuncia una bella giornata di sole, ma pochi dei tuoi figli se ne accorgeranno: si parlerà, parleremo anche oggi del frastuono che produciamo con le nostre frasi che stanno nell’aria e non si posano da nessuna parte. La politica è un polline che produce allergie, un polline sottile, invisibile, che entra dappertutto, nelle case, si posa sulle giacche, sulla testa, sulle ciglia.
     Tu, cara Irpinia, non vorresti che i tuoi figli ti squarciassero il ventre con nuove strade, non ti opprimessero il corpo con il peso di altri palazzi.
     Ti piace chi ara e semina, chi sa potare un albero, chi pianta una vigna. Ti piace chi legge, chi vive la sua vita in una quieta passione, guardando i figli che crescono, i genitori che muoiono. Guardare e aiutare. Commuoversi e aiutarsi. Essere dolci.
     Cara Irpinia, i tuoi figli ti hanno sempre combattuta e questo ha seminato nel loro sangue paura e diffidenza. Ma adesso c’è bisogno di amare l’epoca stracciata in cui ci troviamo, c’è bisogno di ricucirla giorno per giorno, ora per ora. È questa la rivoluzione a cui siamo chiamati. Ci vuole una tensione religiosa, un’adesione alla sacralità del reale.
     La politica in tutto il mondo e anche in questo angolo piccolo non dice alle creature del mondo di fermarsi, di raccogliersi e abbracciarsi, ma istiga a produrre nuove merci e a consumarle. Viviamo in un delirio in cui l’unica grande moneta che possediamo, la terra tonda, viene nascosta dai coriandoli prodotti dalle zecche di stato.
     Tra quelli che pretendono di curarti, cara Irpinia, ci sono persone di cui non abbiamo alcun bisogno, mestieranti della politica che vengono da un tempo in cui si pensava che il mondo voleva essere modernizzato. Invece il mondo voleva semplicemente fare il suo mestiere che è quello di essere un mistero, un mistero in cui girano per un poco, per un attimo tutte le nostre vite.
     Non ti chiediamo niente, cara Irpinia. Vogliamo solo farti compagnia, festeggiarti, lo facciamo anche per chi sta nelle spine di una malattia, anche per chi resta nel groviglio delle sue miserie spirituali.
     Quello che ci puoi dire tu, è che dobbiamo finalmente disubbidire alle nostre debolezze e alle nostre paure. Eccola la nostra politica, l’abbiamo trovata.
     Noi vogliamo andare dietro il paesaggio, vogliamo servirlo.
     Siamo noi, cara Irpinia, che continueremo ad amare ogni tuo angolo e non importa se non faremo abbastanza, se non saremo lucidi e composti.
     Saremo attenti, ti porteremo attenzione. Perché l’amore è attenzione, perché la politica è raccogliersi e pensare insieme a cosa vogliamo, a cosa possiamo diventare.

 

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L’emigrazione in camera da letto

     Siamo sempre andati dagli altri a lavorare, ma non abbiamo ancora imparato a rispettare chi viene a lavorare da noi. La gran parte delle donne immigrate in Italia non arriva in una città o in un paese, ma semplicemente in una casa dove c’è una persona che non abbiamo più tempo e voglia di assistere. Queste donne vengono per lavorare nell’unica fabbrica efficiente che abbiamo, la fabbrica dell’agonia. La civiltà contadina non era particolarmente efficace nel garantire beni materiali, ma assicurava almeno una buona gestione della morte e della malattia. Intorno al letto di un sofferente c’era sempre animazione. Era un fatto normale. Si faceva per gli altri quello che gli altri avrebbero fatto per noi. Adesso le donne dell’Est sono le custodi di un crepuscolo solitario. E quando la persona assistita muore si ritrovano disoccupate, devono ricominciare in un’altra casa, in un’altra agonia. Mi è capitato qualche tempo fa di vedere una badante coi bagagli sul marciapiede. La persona che aveva accudito era stata seppellita da poche ore e già i familiari le avevano dato il benservito. Discutevano dell’ultimo stipendio: lei lo chiedeva per intero, i familiari del morto glielo avevano accordato scalando i dodici giorni che mancavano alla fine del mese. Forse queste donne non scrivono le lettere commosse e commoventi che scrivevano i nostri emigranti. Usano il telefonino e non resta traccia dei loro umori. Non sappiamo come ci vedono, come vedono le nostre piazze vuote, le nostre case grandi senza libri e senza pianoforte. Queste donne scendono ogni giorno nelle miniere della malattia, ma non c’è niente da scavare e da riportare in superficie.
     Sarebbe il caso di coinvolgerle nella nostra vita prima ancora che nella nostra morte. Un coinvolgimento collettivo, pubblico, politico. E invece al massimo le usiamo come ripiego per l’infelicità sessuale. Insomma, queste donne non sono qui per contribuire alla costruzione di una società come accadeva a noi in Svizzera o altrove, ma per occuparsi dei nostri corpi. Corpi morenti o corpi astinenti, comunque corpi afflitti, soli, sformati. Uno scapolo irpino che lavora in campagna non ha nessuna possibilità con le ragazze del suo paese. Uno che odora di stalla non ha nessun sex appeal per queste fanciulle che ostentano pose televisive e aspirazioni illusorie. Ormai sono tanti quelli che nelle nostre campagne hanno una moglie rumena o albanese. E non è un tradimento al motto moglie e buoi dei paesi tuoi. In fondo per i nostri ultimi contadini le vere straniere sono le fanciulle del posto, quelle che usano il loro corpo per mandare in giro i vestiti e gli occhiali da sole e il telefonino.
     Viviamo in una situazione sconvolgente e la cosa più sconvolgente è che questa situazione non sconvolge nessuno. Tutto è relegato in una dimensione ineluttabilmente privata. Noi siamo emigrati per fare piazze e palazzi. Lavoravamo in spazi pubblici, costruivamo un mondo. Adesso il vero centro dell’immigrazione che ospitiamo è il letto. Piaghe da decubito o masturbazioni, poco importa. Non abbiamo da proporre altro che questi corpi senza destino. Allora i veri stranieri, i veri sbandati siamo noi. Basta guardare le facce nostre e quelle degli immigrati, uomini o donne che siano. Basta guardarli le poche volte che camminiamo affiancati. In realtà temiamo il confronto. Loro si muovono a piedi, sono le uniche persone che non hanno automobili. Hanno polpacci forti, schiene dritte. Hanno volti in cui ancora spira quell’indefinibile senso dell’umano che sembra svanito dal nostro sguardo.
     Ci sarebbe bisogno di una trasfusione collettiva di spiritualità. Far scendere il loro sangue nelle nostre vene. E invece l’unica cosa che accade è il nostro lasciar cadere poche e avare monetine nelle loro tasche.

 

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Per dire di essere qui

     Battersi per migliorare il mondo è un gioco nobile, ma forse adesso questo gioco non è più possibile. La vita, la nostra e quella degli altri, la vita stessa del pianeta, tutto ormai ha preso una nota frivola e anche quando proviamo a drammatizzarla, a darle peso, non succede niente. Lo stile dell’epoca è questa evanescenza irrimediabile. Forse è il prezzo di un mondo in cui tutti parlano. Mai la recita è stata tanto affollata, mai tanti uomini hanno intrecciato i loro umori e i loro discorsi. Le società avevano gerarchie, meccanismi di esclusione. Ancora adesso ci sono i ricchi e i poveri, ma la distribuzione del denaro non incide più di tanto sull’umore dell’epoca. La questione più che economica è psicologica. Non abbiamo mai avuto tanti io alla ribalta, tanti capricci in cerca di lenimento. Il mondo è diventato una gigantesca scuola materna. Dopo un’adolescenza a oltranza molti diventano direttamente decrepiti. Gli uomini e le donne non riescono più a trattenere le smanie, la vescica è bucata, facciamo zampillare i nostri umori da ogni parte. Non c’è più riserbo, non sono concepite lunghe attese, la cosa accade sempre molto prima o molto dopo il momento in cui noi desideriamo che accada.
     Non facciamo esperienze, raccontiamo esperienze mai vissute o che abbiamo affidato a una sorta di sosia che svolge le mansioni quotidiane. Siamo come intonacati. La vita quotidiana è tutto un lavorio per chiudere buchi, fessure, per lisciarsi, per creare una superficie compatta, coerente, ma la vita degli uomini viene fuori soltanto quando più è rotta, sbilanciata. Il cuore lavora con lietezza quando facciamo cose assurde, cose coraggiose. Il cuore si smuove quando diamo credito alla crepa originaria da cui veniamo, quando la parola viene da un silenzio implacabile, che si può solo rigare col chiodo storto di qualche sillaba. Noi sappiamo pochissimo, tutti i versi, tutte le filosofie e le religione, tutte le scienze sono piccoli fiammiferi gettati in un pozzo nero. Non c’è un disegno da compiere. Un attimo contiene quello che contiene e poi si passa al successivo. Ovviamente anche questo è un pensiero sputato nel nulla, un modo per dire di essere qui, perché forse siamo già altrove.

 

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20 pensieri riguardo “Oratorio bizantino”

  1. Siamo assediati dai moderati, dagli ipocriti, dagli animali a sangue freddo, coccodrilli mummificati che all’improvviso si sciolgono e spalancano le loro fauci. Siamo in un mondo di fango. Vogliono distruggere la bellezza e chi la ama, hanno ridotto il mondo a un porcile di inganni, ma non sono contenti, vogliono che tu sia come loro. Gli estremisti della moderazione dominano la scena. Se dici una verità, una sola, ecco che diventi estremista parolaio.

    Lo stile dell’epoca è questa evanescenza irrimediabile. Forse è il prezzo di un mondo in cui tutti parlano. Mai la recita è stata tanto affollata, mai tanti uomini hanno intrecciato i loro umori e i loro discorsi. Le società avevano gerarchie, meccanismi di esclusione. Ancora adesso ci sono i ricchi e i poveri, ma la distribuzione del denaro non incide più di tanto sull’umore dell’epoca. La questione più che economica è psicologica. Non abbiamo mai avuto tanti io alla ribalta, tanti capricci in cerca di lenimento. Il mondo è diventato una gigantesca scuola materna.

    bravo arminio. da leggere.
    un abbraccio da un animale in via d’estinzione.

  2. D’accordo,con lucia sopra e con arminio in parte: la borghesia o medio-tale non si attacca mai sono le acque controbilanciano e sono vasche al contempo a cui assurgono fiumi ben più grandi del mare che li ospita.Bisogna attaccare le poltrone i laghi le paludi melmose di porcile e ristagni creati perchè i “giunchi” non possano respirare.Ed sono quest’ultimi nel loro: fendere,vagare o tratteggiare l’aria,che disegniano il cielo di nuovi e vecchi insegnamenti visibili da tutte le acque del nostro paese.E’ il web il vero problema ,l’incomunicazione nasce da questo mondo falso (rifugio di capitalisti e vizi da buttare) ,questa porta che ne include altre a limite unico e imparagone la stassa umanità che lo muove;quindi:niente fisica o natura che sia vero spazio da esplorare anche in tempi e ere nuove .La parola deve essere divulgata o detta fuori
    al sole perchè divenga cristallo siderale alla sera,stella nella notte e pianeta nuovo domattina sul davanzale dell’universo quello vero.

    di nuovo,

    Marcello

  3. ovviamente: “perchè i giunchi POSSANO respirare” e sempre e comunque non di fantasie proprie o di altri e poco interscambicul-turali e conlcudo:non da fantasia rosrachiane.

    Marcello

    1. I libri, specialmente quelli veramente buoni, sono fatti per essere discussi e per far discutere, Marcello. Questo te lo consiglio: è un gran bel libro di un grande scrittore, per nostra fortuna poco addomesticabile e, soprattutto, fuori da ogni convenzione, non solo letteraria.

      fm

  4. Scusa il fuori argomento, Francesco, volevo solo dirti grazie e mandarti un abbraccio per i tuoi commenti sul blog di Geo, che mi hanno tirato su il morale.
    Spero di poterti rivedere presto.
    Lorenz

    1. Grazie a te, Lorenzo, per il tuo impegno e per tutto. Spero anch’io di poterti rivedere presto.

      Ti abbraccio.

      fm

  5. Non forse, ma sicuramente, nel momento in cui pensiamo – e scriviamo –
    di essere in un luogo siamo già in un altro; se così non fosse saremmo già (carino questo “già”) morti e sepolti. E dovremmo aspettare la fine dei tempi per risorgere, e per finire chissà dove per sempre.

    Ringrazio la non Pestifera ma Lucifera (oddio, sia detto in senso buono!) Lucy per avermi segnalato questo blog.

  6. Prima di questo post, Francesco, avevo già buoni motivi per leggere ed apprezzare il libro di Franco, mio conterraneo.
    Lo contattai in Fb dopo averne goduto l’intervista che “Montagne” ( Rai 2) gli aveva dedicato, consentendomi di conoscerne il valore e la novità.
    Con questi righi mi hai sobillato e non solo perchè ho deciso con mio marito di vivere in un paese del salernitano, riconoscendomi in questa dimensione anche con la fatica dell’esistere “qui ed ora”.
    Qua la resistenza è ancora una volta di più una sfida.
    Da vincere.
    Grazie Francesco : inconsapevolmente mi hai fatto un bel regalo per la Festa imminente!

  7. Grazie, Marzia.

    Qua la resistenza è ancora una volta di più una sfida.

    Lo so bene, ma ti assicuro che resistere è diventata una sfida ovunque in questo paese…

    Un saluto a tutti.

    fm

  8. Tra resistenti ci si intende, Francesco.
    Ti confesso che fin dal primo momento, superata la prima fase di timidezza ( pare strano, ma son timida anche io a 56 anni), ho odorato questo come l’ambiente più idoneo a scoprire ed incrociare altri e nuovi universi, privi del sovraffollamento verbale ( e sovraesposizione) di una retorica che permea molti spazi off e on line. Ahi, serva Italia..
    W la resistenza sotto ogni latitudine essa venga condotta ed esercitata con caparbietà..
    Ti rimango debitrice dei tanti cammei che ho incrociati qua dentro.

  9. Marzia, non solo siamo conterranei ma anche coetanei…

    Comunque, complimenti: sei una delle poche donne, tra quelle che conosco, che, varcata la soglia dei cinquanta, non hanno nessuna difficoltà a declinare la loro età. Molte, soprattutto tra le “intellettuali” o “artiste”, vivono l’invecchiamento come una “malattia”…

    Ciao, grazie per la tua presenza.

    fm

  10. Resistere a questo mondo “cannibale”, opporre ad esso un arcipelago di identità autentiche assume oggi il profilo e il peso di un vero e proprio “apostolato” civile. I “paesi” sono testimonianza di civiltà. La prefazione di Cassano (mio professore di sociologia a Bari) viene da lontano: l’intuizione di un autonomo e inedito “pensiero meridiano”.
    Eppure, casissimo Francesco, con estrema franchezza, è molto più facile rinnegare questo “apostolato” che incarnarlo nella vita di tutti i giorni. Il paradigma della Passione ne è un drammatico monito. Ma parlo per me.
    Un saluto a te, ad Arminio e a tutti gli altri.
    PVita

    1. Ciao Pasquale.
      Non rinnegare è più facile, ma anche tradirlo ect
      Nel mio piccolo, più nella verde età che in questa Terza mia, ho avuto la mia barricata e non la rinnego.
      Resistere è anche questo: non omologarsi, non piacere a tutti i costi, rifacendosi il “look” a seconda dela tendenza, assoggettare se stessi ai paradigmi dominanti, alle sirenze, alle voci altisonanti.
      Non lavoro come vorrei ( ero linguista, poi storico , ora prestata al giornalismo) semplicemente per rimanere fedele.
      Non faccio l’eroe: per me anche questa è resistenza. E mi sento viva, non una carcassa come vedo tanti.
      E martedì sera, ho interagito con RadioSà, la web Radio del rione Sanità di Napoli, una bella sorpresa cui arrivai in una delle mie ultime transumanze. Ascoltala se puoi, alle 21 e 30 e scoprirai che quando si hanno amici e passione la resistenza non è impossibile.
      Grazie per avermi solecitato alla letura di Cassano, un nome mitico alle cui opere non mi sono ancora dedicata.

  11. Pasquale, ti ringrazio, mi dai la possibilità di richiamare l’attenzione sul bellissimo saggio introduttivo di Cassano, che si inserisce in modo naturalissimo nell’architettura del libro, fino a diventarne un capitolo omogeneo, assolutamente indistinguibile dagli altri testi.

    “Pensiero meridiano”, appunto…

    Ciao, un saluto a te.

    fm

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