Repertorio delle voci (XIII)

Manuel Cohen
Fabio Franzin

Chi legge per la prima volta questi versi è un lettore privilegiato. Si ritrova davanti, senza che nessuno gli abbia aperto o distorto lo sguardo, un’evidenza nuda, incontrovertibile, priva di argomenti. Come davanti al diario di Simone Weil sulla condizione operaia, ma alla rovescia, in una salda e coerente inquadratura soggettiva: lo stato di mobilità di ottanta e più lavoratori dell’industria del mobile, oggi, nel Nordest in crisi. Qui Franzin apre lo scenario, e racconta in sestine, in dialetto, con la stessa lingua, lo stesso passo del suo Fabrica, forse il miglior libro di poesia italiana dell’ultimo decennio. Lì si sentiva l’epica delle mani: l’elogio della loro arte di esistere e di mettere insieme i pezzi della lavorazione e il sostentamento delle vite, con l’affanno, il massacro delle tenerezze, delle aspirazioni, delle femminilità. Fabrica era il lungo canto ritmato, senza strepito, di quelle mani che ora sono state fermate, deprivate della loro capacità di afferrare il mondo e di capirlo. La realtà si è fatta obliqua, piena di salti e di curvature: l’ordine delle certezze è saltato, ed è cambiata la percezione del tempo, del paesaggio, dei rapporti familiari. Queste mani orfane dovranno imparare un modo nuovo di percepire, di accostarsi alle cose. (Stefano Colangelo)

 

FABIO FRANZIN. DOPO LA FABBRICA, GRANDINE E NEVE.
(Manuel Cohen, Prefazione)

     I.  Nel rapido volgere di un decennio, segnatamente dall’esordio nel dialetto veneto d’origine dell’area opitergino-mottense avvenuto con El coeor dee paroe (prefaz. di A. Serrao, Zone, Roma, 2000), la versatile e ricca vena di Fabio Franzin lo ha imposto all’attenzione della critica come una tra le personalità più sicure, motivate e vitali della attuale stagione neodialettale e della generazione poetica a cui appartengono anagraficamente quegli autori nati negli anni ‘sessanta’ sia che si prenda indistintamente in esame il versante in lingua sia quello in dialetto.
     Elettivamente e intimamente poeta di natura e di paesaggio, che, a differenza dell’iconografia preziosa e della cartografia paludata, oleografica, cara alla vulgata vernacolare, intende il luogo abitato come vita, parte in causa emotiva, conoscitiva e mai esornativa, che elargisce, che dona o che toglie e porta via.
     Paesaggio da intendersi come esperienza o, nondimeno, come metafora di una condizione sia essa dell’essere, del tempo, o interiore: da questo derivano anche le striature accorate, certe tonalità elegiache, venate di malinconia per quanto avuto e perduto, o a volte patetiche, ma anche le nuances impressioniste, la proliferazione di tropi quasi per filiazione endogena al dialetto stesso, le metafore, le metonimie e le similitudini afferenti al mondo di natura, ai campi semantici botanico-vegetali, o, ad esempio, alla terrestrità insita nel microcosmo del muschio, uno degli elementi assurto a luogo-simbolo, tra i più elettivi o chiarificatori della sua poesia; un elemento di humilitas, più modesto e più inerme, della sfera terrestre.
     Al suo abbrivio, la parola di Franzin ha preso le mosse da motivi, istanze e morfologie espressive manifestamente tradizionali, attinenti all’oralità e a radici sociali mai sconfessate, in cui in un processo di mimèsi viene ad innestare il proprio vissuto alle cose del mondo e al quotidiano della koinè diálektos.
     Un inizio, lo diremmo, il suo, marcato da un dato di voluta nudità naturalistica in cui il reperto lirico registra il tempo e il luogo, fissa le coordinate spaziali e temporali in cui agire ed essere agito. Letto in questa ottica, Franzin si inserisce elettivamente nel solco della tradizione lirica del Nord-Est italiano di Marin, del più limitrofo Pascutto, di Saba, di Giacomo Vit, e la fa propria, la assume, nella coabitazione e nell’esercizio di agnizione di unA couche di riferimento, nella duplice valenza territoriale e linguistica, la cui appartenenza a un socioletto, o alla possibile, fluttuante traccia identitaria, si dà per una accezione riparatrice, o comunque, confortatrice della vacanza di umanità, della perdita di memoria, sia essa famigliare, antropologica, di civiltà rurale, di natura tout court, o di una sua remissione; ma per questa come per altre questioni, rinvio il lettore alla fondamentale prefazione di Edoardo Zuccato, L’equilibrio perduto e il conforto della parola, a F. Franzin, Mus.cio e roe. Muschio e spine, Le Voci della Luna, Sasso Marconi, 2007.
     La parola di Franzin deriva impellentemente da un vulnus, una ferita, una offesa privata, riverberante altresì una offesa dimidiata e comune, domestica e sociale, e non parrà un caso quello di ritrovare il lemma nei Canti dell’offesa, i versi poematici e civili scritti in lingua e di prossima pubblicazione. Una parola chiamata a testimoniare di una umanità di vinti, pudìca della propria modesta condizione, e dove più di un ideale richiamo va al friulano Amedeo Giacomini, alla predilezione per una umanità marginale, periferica, esclusa dal banchetto della Storia.
     Franzin ha declinato le parole dell’offesa a cominciare dal nucleo germinale della esistenza sua propria, dalla madre, o dal padre a cui dedicherà la prima sezione della raccolta Pare, Padre (prefaz. di Bepi De Marzi, Edizioni Helvetia, Spinea, 2006). Una offesa che parte dai «confini dea vita», dove il succedersi di morte e nascita appare come la convergenza parallela di una vicenda segnata dall’impossibilità dell’incontro, e che assume in sottotraccia le valenze destinali di una Stimmung.
     Come in Pare, dunque, il libro che potremmo intendere come il suo più ‘privato’, quello del dolore e del lutto paterno, ma anche quello della gioia del vivere la propria genitorialità, l’esperienza soggettiva riverbera e si relaziona con la sfera sociale; così, secondo le modalità più consone all’autore, il racconto in versi delle storie e delle ‘vite non illustri’ di anziani, amici e conoscenti che animano la scena di Motta di Livenza, in Mus.cio e roe.

     II.  Ma l’esigenza di raccordo e di narrazione, e, per inciso, la narratività è un elemento non trascurabile, un registro della poesia di Franzin, a tal punto da enuclearsi come un dato della quiddità del suo stile. La sua capacità di racconto che, per le evidenti tracce di oralità, ricorda la tradizione dei cantastorie, e il romanzo popolare e rurale, le scheggiature di esistenze e fabulae, sarà il motore del complesso meccanismo che aziona il continuum poematico di Fabrica, Fabbrica (Atelier, Borgomanero, 2009, rist. 2010), uno tra i più sorprendenti e interessanti libri dell’ultimo decennio, generato dalla personale esperienza lavorativa, ampiamente segnalato con favore dalla critica, e insignito di vari riconoscimenti. Qui, l’incontro con una umanità ferita, precarizzata nel lavoro e negli affetti, mortificata nelle aspettative, in balìa di ricatti o vessazioni del ‘capo’ o del ‘parón’: padrone, un appellativo che ormai suonava strano, desueto, praticamente scomparso dalle agende politiche e dall’informazione generalista come pure dall’immaginario della sterminata middle-class terziarizzata; una realtà operaia svilita dalle dinamiche lavorative, e che viene accolta nei testi di un vero e proprio Spoon River contemporaneo.

     Dopo anni di sostanziale rimozione della weiliana Condizione operaia, e di più sostanziale latenza del filone della letteratura industriale, dopo la grande stagione di Ottiero Ottieri e Paolo Volponi per intendersi, il marchingegno narrativo inanellato nelle strutture strofiche seriali e pentastiche di Fabrica, concatenate da nessi narrativi, semantici e figurali, restituisce in tutta la sua evidenza una congrua rappresentazione dello scenario e del paesaggio della fabbrica, con i suoi mezzi, le sue merci, e i suoi attori.
     Costruito secondo uno schema rappresentativo che anche visivamente riproduce e mima la catena di montaggio, Fabrica porta a compimento un processo di dislocazione e sovrapposizione al contempo, realistico e figurale, tipico di Franzin. Si tratta di una vera e propria capacità di trasporre, di travasare e di accostare, attraverso similitudini e analogie, sfere e campi semantici e tematici: come accadrà anche in seguito, in una plaquette uscita di recente, per la libera associazione di senso suggerita dal richiamo omofonico favorito dall’anafora (sempre…sempre) e dalla rimalmezzo (eucarestia…carestia):

“Pan e paròe // l’é senpre stat ‘l mé past, / ‘a mé eucarestia; senpre / l’é stat carestia de schèi / tee mé scassèe, caro Dio” [Pane e parole // sono sempre state il mio pasto, / la mia eucaristia; sempre / è stata carestia di soldi / nella mia vita, caro Dio]

(Siénzhio e orazhión, [Silenzio e preghiera], prefaz. di Franca Grisoni, Edizioni Prioritarie, Motta di Livenza, 2010);

o come nei versi che appaiono tradotti per una edizione slovena e ambientati alla Stazione di Topolò:

“Fra ‘pière’ e ‘paròe’ // de diverso l’é sol dó vocài. // Qua, da un a cheàltro nome / ‘e stesse che l’à ‘a paròea ‘amór” [Fra ‘pietre’ e ‘parole’ // di diverso ci sono solo due vocali. // Qui, da uno all’altro nome / le stesse che contiene la parola ‘amore].

(Rožni venec iz tišine [Rosario de siénzhi], a cura di Michele Obit, traduzione in sloveno di Marko Kravos, Ed. Koderjana, Stazione di Topolò, 2010);

o, ancora, come accadeva per l’immagine della sigaretta tenuta stretta dalle dita della mano paterna e che per analogia gli ricorda la penna che il facitore di versi, Franzin, tiene tra i polpastrelli (Cfr. Pare, op. cit.), o il ricordo del muschio essiccato che per associazione rinvia all’episodio in cui la madre fu vittima del fuoco (Cfr. Mus.cio, op. cit.) come ben evidenzia nel suo intervento Edoardo Zuccato, che così rileva:

«[…] l’ampiezza dello spettro della scrittura di Franzin, che si intuisce anche solo osservando con attenzione il susseguirsi delle sezioni di cui si compone il libro. Il movimento generale, infatti, è un allargamento progressivo della prospettiva, da fatti personali a eventi collettivi, dalla poesia lirica amorosa a quella narrativa, dall’autoanalisi alle storie familiari e ai ritratti di personaggi. Ѐ curioso che proprio in dialetto si trovi questa varietà in un singolo autore con più frequenza di quanto non accada in italiano, in cui i poeti tendono quasi senza eccezione a “specializzarsi” in un genere, in un modo, uno stile solo».

     In Fabrica, quello che altrove era allargamento progressivo di prospettiva, diviene progressiva focalizzazione e restringimento: se negli altri libri la rappresentazione prevedeva un contesto di paesaggio, o una ambientazione da esterno, qui di contro s’incunea all’interno, si avvita a sè, circoscritto dentro i muri del capannone della ditta, legato al nastro trasportatore della pressa, nella registrazione dei rumori meccanici e nelle tonalità dei grigi che si oppongono ai suoni e ai colori di natura. Muta la vicenda e muta il paesaggio. Muta la scena e muta la prosodia.  Persino il ritmo si fa cadenzato da sequenze ora dattiliche o percussive, ora serialmente iterative e ossessive, come e specie nella seconda e martellante sezione. Persino il lessico, davvero congruo a dire di una realtà di meccanica e di merci, offre al dialetto autoctono che qualcuno vorrebbe teso a una fissità inalterabile e impossibile, una sponda di rinnovamento e apertura attraverso il ricorso a linguaggi specifici e settoriali, tale da accorciare le distanze dell’autore dal coté più linguisticamente innovativo, contaminato e sperimentale della sua area linguistica: Calzavara, Cepollaro, Zanotto e Zanzotto. Tutta la terminologia tecnica e l’armamentario, in una parola, la strumentazione della realtà della fabbrica, entra d’autorità con il suo frasario nei versi di Franzin (chi volesse, potrà leggere alcune argomentazioni che accompagnarono l’anteprima del libro in: M. Cohen, Fabio Franzin. La franca lingua di ‘Fabrica’, «Atelier», anno XIV, n.53, marzo 2009).
     Accanto alle macchine, al loro svolgimento seriale e ripetitivo, sono le vite di uomini e donne, parvenze di una umanità degradata di cui il nostro sa tratteggiare dinamiche sociali e aspirazioni, solidarietà e cinismo, travolta da un meccanismo-istinto di sopravvivenza, di delazione o sopraffazione. Con Fabrica, un’opera complessa, non limitata alla naturalistica nudità della rappresentazione, bensì innervata a una complessità di problematiche e di rapporti interclassisti e interetnici, che non si esimono da un confronto dialettico con il presente, con le questioni del lavoro precario, le problematiche relative all’immigrazione, alla convivenza tra lingue e culture differenti, alla tolleranza e al pregiudizio razzista. Fabrica si apre e si chiude indagando il circospetto mondo del lavoro, fissato da tempi di produzione, pause e orari, circoscritto da pareti di grigio cemento modulare.

     III.  I versi di Co’e man monche, che qui il lettore potrà leggere, derivano le proprie premesse e le precipitano quasi dirottamente da Fabrica. Ѐ possibile intendere questa nuova suite in versi dell’autore, come l’emanazione o la possibile seconda parte del libro edito nel 2009.
     In realtà, a ben leggere, la ricognizione cade ora sui luoghi e sulle persone, verrebbe da dire, le vittime, del dopo la fabbrica; il titolo, di per sé, anticipa, condensa ed enuncia programmaticamente un testo che ha nei motivi dell’urgenza, dell’angoscia per il futuro, della allure apocalittica il suo nervo scoperto. Dopo la fabbrica, come dire di un inaspettato tramonto-tsunami a Nord-Est; come dire della fine di un sogno consumistico-cementizio, come dire di una grande depressione economica abbattutasi sull’Occidente industrializzato, sul Giappone, e più di mezzo mondo.
     Ma l’orrore è nel paesaggio, impresso nel vuoto dei capannoni dismessi, nei lunghi inquieti testi deambulatori senza meta, senza orari, per le vie del paese o della città; gli stessi testi che l’irruzione del discorso libero diretto ha resi più franti, sincopati, desultori, mentre le parole e i toni hanno perso l’elemento elegiaco delle prove iniziali. Co’e man monche, registra i sentimenti e il dolore di un mondo che non tiene più, tra elementi di critica politica e sociale, tra bollette da pagare, mutui, e stipendi che sono finiti.
     Lo choc della chiusura della fabbrica, il licenziamento, l’agonia della cassaintegrazione, il senso di colpa per quello stare inermi co’e man in man, solcano la tetra e aprospettica scena presente. Alla serialità delle strofe pentastiche di Fabrica, succedono ora strutture variate e variabili, in prevalenza strofe in quartine, o sestine, a voler quasi tentare di arginare l’inarginabile degli eventi. Alla galleria di personaggi memorabili di Fabrica, subentra il freddo di ombre spesso senza nome, inghiottite nel buio, scorte traslocare frettolosamente, scorte rinunciare a ogni sogno, in una tragedia tutta contemporanea che ha per nome Mòbii/Mobiità, mobilità che occupa lo spazio siderale e drammaticamente epocale di una condizione. Le due sezioni conclusive, El corpo dea crisi, Prose del tricoeór, declinano ulteriormente tra sfacelo fisico, malattia corporale e morale, la situazione in atto, spalmata sull’ansia presente. Una grandinata distruttiva ha accolto e accompagnato la chiusura della fabbrica e la fine del lavoro. Poi una abbondante nevicata ha coperto il mondo delle merci, le cose, e gli uomini. Come nel progetto, di un freddo perenne.
     Con questo nuovo maturo e sofferto lavoro in versi, Fabio Franzin ci restituisce pienamente, consapevolmente, la testimonianza in presa diretta, anche l’urgenza, o quasi un testamento, e una attestazione della poesia che si posa con il suo carico di umanità, sulla malandata scena contemporanea. D’ora in poi, non si potrà non tenerne conto, non ritrovarsi in questi versi di delusioni, di aspettative mortificate, di ansia sul presente, di impossibilità di futuro. Di vera, concreta, onesta poesia.

 

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Fabio Franzin, Co’e man monche
Prefazione di Manuel Cohen
Fotografie in b/n di Anna Visini
Le Voci della Luna – Edizioni MilanoPiù, 2010.

 

El corpo dea crisi

            (Il corpo della crisi)

 

Dopo dó mesi de cassa integrazhión,
co’a fémena che tontónea tut al dì,
ghe ‘à vignù fòra ‘na bruta sèma
tee man, ‘na spizha dea madhòna,

‘a pèl che ‘a se squama via, rossa.
El dermatòeogo dise l’é un sfogo
nervoso, ‘na risposta del só corpo
al stress, parché lù el ghe fia drio

massa, “tanti stanno vivendo la sua
stessa situazione
”. Lù sa che ‘e só
man ‘e se ‘à maeà parché inciodàdhe
tel nient. Nissùna pomata le guarirà.

[Dopo due mesi di cassa integrazione, / con la moglie che brontola tutto il giorno, / gli è comparsa una brutta eczema / nelle mani, un prurito della madonna, // la pelle che si squama, rossa. / Secondo il dermatologo è uno sfogo / di origine nervosa, una risposta del suo corpo / allo stress, perché ci fila troppo // dietro, “tanti stanno vivendo la sua / stessa situazione”. Lui sa che le sue / mani si sono ammalate perché inchiodate / nel vuoto. Nessuna pomata le guarirà.]

 

*

 

Ècoea ‘a faméjia, tuti sentàdhi
a tòea drio zhena, ‘a fémena
l’à ‘pena sartà ‘a pastasutta tii
piati, el boceta pì cèo l’à ‘pena

rebaltà el bicèr de tè tea tovàjia,
daa tivisión un pòchi de operai
sora ‘na tore da tre zorni sgorla
bandiere parché l’é quatro mesi

che no’ i ciapa pì schèi. ‘A crisi
fa deventàr un fià tuti pòri cristi.
Nino el core de corsa in bagno co’
el tovajiòl ceèste tignù tea boca.

[Eccola la famigliola, tutti seduti / a tavola mentre cenano, la donna // ha appena versato nei piatti / gli spaghetti, il bambino più piccolo ha appena // rovesciato il bicchiere di tè sulla tovaglia, / dalla tivù un manipolo di operai / sopra un silo da tre giorni agitano / bandiere perché sono quattro mesi // che non vedono lo stipendio. La crisi / fa diventare un po’ tutti poveri cristi. / Nino corre di corsa in bagno col / tovagliolo azzurro premuto sulla bocca.]

 

*

 

Chee fémene a s.ciap in piazha
co’e foto poster dei fiòi drento
a tivisión le ‘vea za viste tanti
àni fa. ‘Lora parché chii fiòi

i ièra sparìdhi, ruspàdhi via
da un mostro dea storia. ‘Dess,
lori sani tel caldo del nido,
parché i ghe fa sparìr el domàn.

[Quelle donne a manifestare in piazza / con le foto poster dei figli in un servizio / televisivo le aveva già viste molti / anni or sono. Allora perché quei figli // erano scomparsi, cancellati / da un mostro della storia. Ora, / essi incolumi nel tepore del nido, / perché gli viene cancellato un futuro.]

 

*

 

Anca se ‘l ièra sol un capét
tea fabrica dee cornise, fin
a un àno fa Pino ‘l se sintìa
re: saeùte che no’ manchéa,

faméjia unìdha, i fiòi bravi a
scuòea, e boni, mèdho mutuo
dea casa za pagà; ma col pata-
trac, ‘a corona i ghe ‘à messa

in testa sol che ‘dèss: strenta,
de pensieri fissi come roe, e
insieme aa corona ‘a spugna
co’l ‘séo, scuriàdhe a òni no

te l’imòsena de lavoro. El só
calvario ghe toca a zhinquanta
àni. Quel che ghe sbrissa fòra
fra i porconi sol che a trentatrè.

[Anche se era solo caporeparto / nella fabbrica delle cornici, sino / a un anno or sono Pino si sentiva / un re: la salute non mancava, // famiglia unita, i figli bravi a / scuola, e senza grilli, mezzo mutuo / della casa già saldato; ma col pata- / trac, la corona gliel’hanno posta // in testa solo ora: stretta, / di pensieri fitti come spine, e / insieme alla corona la spugna / imbevuta d’aceto, frustate ad ogni no // nell’elemosina di un lavoro. Il suo / calvario gli tocca a cinquanta / anni. Colui che gli scappa fuori / fra le maledizioni solo a trentatre.]

 

*

 

Fémena e i fiòi ‘ndàdhi fòra
da un tòc, fat su i lèti, metù
via scudhèe e biscòti tii stipi,
Carlo ‘l se distìra tel divano,

l’inpìzha ‘a tivisión, e intànt
che là drento dó marànteghe
‘e sbarufa fra de lore, el pensa
che un òn sol a casa l’é pròpio

‘na desgràzhia; sie mesi romài
dura ‘sto tran tran, e intànt che
lo pensa, co’a ongia, pin piàn,
el se sfurighéa i cài tee palme

dee man, po’ coi denti li ròsega,
el finisse el lavoro. Mastegàndo
un cit de pèe dura el se pisochéa.
Tee man che pica stigmate mate.

[Moglie e figli usciti / da un po’, rifatti i letti, riposti / scodelle e i biscotti negli stipi, / Carlo si adagia sul divano, // accende la tivù, e intanto / che lì dentro due bisbetiche / baruffano fra loro, pensa / che un uomo solo in casa è proprio // una disgrazia; sei mesi ormai / dura questo tran tran, e mentre / medita su ciò, con l’unghia, pian piano, / si stuzzica i calli nei palmi // delle mani, poi coi denti li stacca, / finisce il lavoro. Masticando / una particola di pelle dura si appisola. / Nelle mani che pencolano stigmate fasulle.]

 

Prose del tricoeór

            (Prose del tricolore)

 

Numaro verde

Fonda, ‘a crisi, qua tel nord-est. Capanóni che se svòdha e machine svendùdhe a l’asta, altri che, ‘pena fati su, i sa sol da siénzhio: scatoeóni de cimento rebaltàdhi tii canpi, erbàzhe alte fin tii finestroni, fra dispèt e desgrazhia. Desperazhión no’a ’é pì ‘na paròea vècia ‘scoltàdha controvòjia daa dentiera de un nòno pèrs via tii só ricordi de guèra e presonìa, ‘a ‘é ‘na agonia che, dì par dì, lèva ‘l fià, ‘na caivèra fissa come zhénare. El pal dea cucàgna el se ‘à scavazhà, l’é cascà tee case e tee fabriche a spacàr cópi e viéri, a studhàr speranzhe. Tii ultimi dó mesi trédese paronzhini i se ‘à ciot ‘a vita da soi; l’é par questo che i ‘à vèrt un numero verde, co’ pissicòeoghi pronti a iutàr gli imprenditori in difficoltà a causa della crisi. E i fa ben, l’é da cristiani iutàr ‘e persone che sofre, che no’e ghe ‘a fa pì, che ‘e vede croeàr ‘a só creatura e ‘e se sinte sprofondàr te un burón de paura, i fa ben, davéro; però anca ‘stavolta nissùn se ‘à pensà de vèrder un numero verde anca pa’ tuti ‘i operai che ghe lavoréa drento a chee fabriche in crisi, aa crose che sbrèga i muri e ‘a ment, i numari rossi che passa da chea sfesa, de colpo, e se spande come bissi, come ruse a magnar tute ‘e fòjie dei sorìsi. No’ so se te ‘sti ultimi tenpi se èpie ciot ‘a vita pì operai o paronzhini, ma so che ‘l scuro l’é conpagno par tuti, e oniùn va a palpéta co’e man che l’à, ‘e sie piène de cài e de sgrafi o ‘bituàdhe a firmar ordini e assegni. So che co’ mòre ‘na fabrica, mòre un fià, tant el parón quant l’operaio, che ‘l pan l’è pì caro de ieri, e fae fadhìga a far spècio tee stée che slusa tii océti de mé fiòl; ma cussì, co’ste man che nissùn vòl pì, vae a palpéta anca mì, e se tel scuro sinte de ‘ver tocà un grop de corda, lo carézhe, come che fae co’l mé gat, e come che fae co’ lù, dopo ‘verlo ‘carezhà, vèrde ‘a porta, e vae fòra…

[Numero verde
Profonda, la crisi, qui nel nord-est. Capannoni che si svuotano e macchinari svenduti all’asta, altri che, appena innalzati, sanno solo di silenzio: scatoloni di cemento rovesciati sulla campagna, erbacce alte sino ai finestroni, fra dispetto e disgrazia. Disperazione non è più solo una parola vecchia ascoltata di malavoglia dalla dentiera di un nonno perso fra i suoi ricordi di guerra e prigionia, è un’agonia che, giorno dopo giorno, toglie il respiro, un nebbione fitto come cenere. Il palo della cuccagna si è spezzato, è piombato sulle case e sulle aziende a spaccare tetti, infrangere i vetri, spegnere speranze. Negli ultimi due mesi tredici imprenditori si sono suicidati; è per far fronte a tali tragedie che è stato istituito un numero verde, con psicologi pronti a sorreggere gli imprenditori in difficoltà a causa della crisi. Ed è un bel gesto, è cristiano aiutare le persone che soffrono, che non ce la fanno più, che vedono crollare la loro creatura e si sentono sprofondare in un abisso di paura, è un bel gesto, davvero; però anche in questo frangente nessuno ha pensato a istituire un numero verde anche per tutti quegli operai che hanno perso il loro lavoro, in quelle aziende avvolte dalla crisi, alla croce che squarcia le pareti e le menti, le cifre rosse che si infiltrano da quella feritoia, di soppiatto, e brulicano, come insetti, come bruchi a divorare tutte le foglie dei sorrisi. Non so se in questi ultimi tempi si siano suicidati più operai o imprenditori, ma so che il buio è fitto per tutti, e ognuno va a tentoni con le mani che ha, siano piene di calli e di graffi o abituate a firmare ordini o assegni. So che quando muore un’azienda, muore con essa tanto il titolare quanto l’operaio, che il pane è più caro di ieri, e faccio fatica a farmi specchio alle stelle che brillano negli occhietti di mio figlio; ma così, con queste mani che nessuno più vuole, vado a tentoni anch’io, e se nell’oscurità sento di sfiorare un nodo scorsoio, lo accarezzo, come faccio col mio gatto, e come faccio con esso, dopo la carezza, apro la porta, ed esco.]

 

***

79 pensieri riguardo “Repertorio delle voci (XIII)”

  1. Grazie a francesco Marotta per la cura di questo bellissimo post-anteprima. Grazie a Fabrizio Bianchi per la sua sensibilità generosa di editore raffinato: la copertina, come sempre, non delude, e offre una efficace sintesi, e belllezza.

    In bocca al lupo a Fabio, grande testimone di questi anni sconvolti. Ogni bene e buon anno.

  2. Grande poesia, gran bel libro che non vedo l’ora di procurarmi e Manuel è un ottimo critico, concordo con Francesco!
    Complimenti e in bocca al lupo.

    Un caro saluto

  3. Grazie a Francesco per la proposta e grazie e complimenti a Fabio Franzin per quest’opera che ci riguarda tutti: si dice fabbrica per dire tutto, oggi.

  4. Versi che fanno il contropelo alla cattiva coscienza di chi non sa guardare più in là del proprio ombelico . Ma la coscienza è un alibi per troppa gente che se la fa su misura con le coordinate egotiche che conosciamo bene , incapaci di aprirsi all’Altro , al Mondo ; segnatamente alla scocezza di questa nostra realtà sociale e politica che grida vendetta all’umanità e alla civiltà dei versi .

  5. Ringrazio di cuore innanzitutto Manuel Cohen, la cui stima, condivisa ormai da molti, è per me, prima di tutto, amicizia ormai fraterna; poi Francesco Marotta per aver voluto ospitare in questa sua immensa dimora, davvero a tempo di record, la notizia dell’uscita di questo mio “lavoro” che nasce dalla sofferenza, condivisa ormai da un milione di persone nell’italia odierna, di averlo perso, il lavoro. Ringrazio infine gli intervenuti per l’affetto, per la loro presenza; presenza che mitiga lo sconforto di questo tempo storto, maligno. Quando scrissi “Fabrica” avevo timore per come potesse essere accolto, avevo paura che fosse letto come le ubbie e le paturnie di un operaio insoddisfatto; ora, ai tempi di Marchionne, alla mercificazione del lavoro, alla neoschiavitù, al tramonto di una realtà operaia, penso che non erano solo quello, ma che era necessario riparlarne; e mi sono accorto che lo è stato anche per chi si è avvicinato alle mie parole coi calli.
    Grazie di cuore. Con affetto. Fabio

  6. grazie per aver superato la paura, trovato il coraggio di scrivere e aver vinto sul giudizio che spesso altri hanno dei poeti! grazie!!!

  7. la poesia civile mi ha sempre interessato molto.
    il vernacolo poi ha una sua espressività che manca talvolta alla lingua.
    è sempre un privilegio conoscerne le coloriture e comprenderne il senso.

  8. Saluto e ringrazio Luca Ariano con reciprocità di stima.
    E ringrazio Francesco, mio estimatore. Anche con lui molta intesa e reciprocità che non va confusa con nessuna lobby e nessun mercimonio.

  9. Saluto Leopoldo Attolico, un autore di versi che ha una sua storia precisa e riconoscibile, grazie per essere passato di qui, e magari ci vediamo il alla libreria di Poggio Ameno per la prossima lettura!

  10. Tra poesia in lingua, e poesia in dialetto, tra poesia sperimentale e poesia tradizionale, tra parola contaminata e parola ‘pura’ (ma che vorrà dire?), tra parola identitaria e parola meticcia… sono paletti, argini, scorie di un deserto critico che non hanno più ragione d’essere. La poesia è ovunque, e ovunque troviamo la bellezza e l’osceno. Almeno credo, non so.

  11. Si continua stancamente a ripetere che i poeti non partecipano della vita. che vivono ai margini, che non rappresentano più un mondo e che non hanno le parole del mondo. Quando poi ci si imbatte in un poeta spurio e impregnato di vita di dolore di rabbia di rivolta come nel caso di fabio Franzin, vediamo che intorno qualcuno storce il naso: ma non è poesia: la poesia parla ancora di fiori di margheritine di luoghi ameni? la poesia parla di tutto quello che vuole: è esperienza e si nutre nell’esperienza del mondo.

  12. Dante, il primo dialettizzatore o volgarizzatore della lingua italiana, ci ha insegnato che la poesia, per sua natura, rompe gli steccati, avanza progressivamente i propri confine epistemologici, semantici, allegorici e linguistici. Dante dovrebbe averci insegnato che tutto può essere materia di poesia e per la parola poetica: il passo lungo, per altri versi, dantesco, di fabio Franzin, ci dicono che la poesia può avere un respiro ampio e non asfittico, un orizzonte visivo e d’attesa non ombelicale, e ad ampio raggio. Una scelta di campo minoritaria in Italia, ma molto presente nella poesia di area anglosassone, ad esempio.

  13. Caro Manuel, il problema, volendo, è ancora più “semplice” (anche se, in questo caso, la “semplicità” si declina in vere e proprie patologie): c’è un numero esiguo di critici e poeti (tu fra questi) che le “buone scritture” se le va a cercare, ovunque e nelle forme in cui si manifestano, le scova e cerca di farle emergere, nei limiti delle proprie possibilità; al contrario, c’è un vero e proprio esercito di “paninari e pataccari delle lettere”, ben strutturato in divisioni, reggimenti e drappelli, spalleggiato da riviste, rivistine, terze pagine dei quotidiani, antologie, premi, classifiche, festival e festivalini, circoli, blog, piccole e medie case editrici (tutti aspirano alle “grandi”, in verità, quelle stesse che a parole detestano) che continua a credere (ed opera, concretamente, in questa direzione, con pratiche ad escludendum in puro stile mafioso) che fuori dai loro asfittici recinti e dalle loro miserrime clientele amicali e familiste non esista niente, niente che valga la pena neppure di un’occhiata di sfuggita.

    Questa è la realtà. Noi, per quello che ci è possibile, continuiamo a cercare, e a stupirci, quando è il caso, di quello che troviamo, qualunque sia la “veste” che l’interlocutore indossa. Anzi, è proprio la mancanza di “insegne” il dato che più di tutti ci attrae.

    fm

  14. Caro francesco, la DIMORA DEL TEMPO SOSPESO, è a quanto mi risulta, il luogo della qualità (i molti contributi critici, poetici, le grandi traduzioni, lo attestano), di ospitalità, di confronto civile e mai imbarbarito da oziose e tediose polemiche autoreferenziali. E’ il luogo della pluralità e della libertà autoriale. Grazie.

  15. Una premessa: mi ha fatto piacere non trovare nelle puntuali disamine critiche di Colangelo e Cohen la parola civile, che mi procura,quando si parla di poesia, un’irritazione inspiegabile. La poesia può essere civile o incivile, può stare negli schemi o può distruggerli. L’importante è che sia poesia, come questa di Franzin, di cui non vedo l’ora di leggere il libro.
    E Franzin sa che da noi la sua poesia è stata alquanto apprezzata,l’estate scorsa, un’immersione nella poesia in vernacolo, con una pluralità di voci altamente significative.
    Liliana Z.

  16. Arrivo solo adesso per ringraziare del passaggio, per le parole, in ordine: Tiziana, Manuel, Cristina Bove (mi scuso con te, ma non sono ancora riuscito a leggere le tue cose, perdonami!), Francesco M., Vincenzo Celli e, non ultima, Liliana Zinetti, la cui stima è ampiamente ricambiata, anche per ciò che ha detto in questo post, specialmente dal punto di vista “umano” della sua squisita persona; io credo che prima di cercare di essere un po’ poeti bisognerebbe sempre cercare di essere almeno un po’ persone…
    Con affetto e riconoscenza. Fabio

  17. Fabio Franzin scrive e descrive questa realtà difficile. Il suo linguaggio, il dialetto mi è molto caro e confermo le varie impressioni espresse qui da molti di voi.
    E’ poesia, solo poesia sia in dialetto che in lingua quella che entra nell’animo di chi voglia farsi avvolgere.
    Fabio lo fa!!
    grazie v

  18. Una piccola chiosa in ordine al tema “civile”e alla creatività che lo frequenta o lo elude . Premetto di non ritenermi affatto uno stacanovista assatanato propugnatore – da “poeta” – della poesia “civile”, né mi sento di privilegiarne i contenuti etico/morali rispetto ad altri meno “impegnati”che valorizzano referenti “altri” , prevalentemente autoreferenziali .
    Giustamente la poesia è la totalità dell’esperienza e non necessariamente per essere valida , di spessore , deve assumere e squadernare temi universali/totalizzanti . Può – per dire – occuparsi esclusivamente di ecologia e diventare , tramite la parola poetica , storia di tutti , in cui tutti possono riconoscersi .
    Il tema specificatamente “civile” non è nelle corde dei più , come è normale che sia . Ad alcuni suscita addirittura fastidio se non disagio , come d’altra parte può verificarsi nei confronti – che so – d’una temperie giocosa/ludica/defatigante ecc. E’ questione di capacità ( attitudine ) fisiologica del singolo a rapportarvisi , non dico con la parola poetica , ma soltanto in pectore : una questione di pelle .
    Ciò non toglie che il non rintracciare , nella produzione d’una vita di un poeta , una sola robusta puntata sul sociale , sull’etico , o quantomeno una allusione significativa , non generica ma argomentata , può indurre a riflettere con oggettiva approssimazione : ma in quale parte del mondo ha vissuto questa persona ? Con quali pulsioni ha reagito ai micidiali drammi giornalieri della nostra società ? Con chi si è confrontato e quali ideali lo occupano ? E’ stato uno spettatore più o meno dolente e recriminante , un semplice commentatore del male di vivere e dintorni o uno spirito antagonista che anche una sola volta nella vita ha tirato fuori le unghie , ha denunciato , ha fatto nomi e cognomi ?
    Mi si dirà giustamente che ogni poesia è un atto politico , consustanziale a ogni poetica ; già di per sé veicolo di buone intenzioni , di buoni sentimenti , di positività , molto raramente messaggera di negatività e di ideologie distorte ecc. .
    Io auspico soltanto ( per me stesso e per gli altri ) che sia anche sancita da un grido in carne ed ossa , da uno sberleffo , dalla causticità , anche episodica , di una parola con le palle .

  19. Non voglio offendere nessuno, lo dico con grande simpatia, ma la chiusa (soprattutto) del commento che mi precede mi fa sorridere (e questo è positivo, il sorriso, intendo) Perchè alcuni uomini fanno di ogni cosa una “questione di palle” non so…
    Per il resto mi rendo conto che non ho argomentato il mio fastidio, che non è un fastidio per la poesia cosiddetta civile, ma proprio per la parola civile. Viviamo in una società “civile”? Io credo di no. E allora se proprio dobbiamo dare una definizione, anche se trovo ogni aggiunta alla parola poesia un limite, parliamo di poesia “incivile” che va contro lo stato delle cose.
    E rispondo alla piccola provocazione di Attolico riguardo la poesia che “non fa nomi e cognomi, di uno spettatore più o meno dolente” , che pure questa poesia ha il diritto e pari dignità di esserci (sempre che sia poesia)
    E’ una questione di pelle, non di palle (senza offesa)

    Un saluto a tutti e in particolare a Fabio, sempre troppo generoso (sono una rompi dis-umana)
    Liliana

  20. Spero di leggere presto il libro. Credo ci sia un grande bisogno, in questo tempo senz’anima che offre ben poche speranze, che cancella il diritto al lavoro e i diritti del lavoro, della voce e della testimonianza umana e poetica di Fabio Franzin. Voce che apprezzo molto.
    Un caro saluto
    Stefania

  21. Dopo i ringraziamenti dovuti a Vincenzo, Leopoldo, Francesco e Liliana una piccola precisazione, o chiosa, che dir si voglia: nel mio caso, quando ho scritto “Fabrica” e poi “Co’e man monche”, l’ho fatto spinto da una necessità, da una pulsione; l’ho già detto, e qui lo ripeto: ero stanco di sentir parlare degli operai solo quando morivano nei luoghi di lavoro, o di macello; in più sentivo che a provare a descrivere il microcosmo di una fabbrica forse si riusciva a parlare anche di ciò che sta fuori, ai cancelli di una fabbrica. Non mi sono mai chiesto se ciò fosse/aspirasse ad essere una poesia “civile” e, in un certo senso, mi colpisce e non mi sfiora chi così la etichetta (ogni lettore è sacro, e la sua sacralità è nel leggere come vuole, come più sente un’opera). Ma a un certo punto non mi bastava più cantare i fossi e le siepi delle mie contrade, anche perché quei fossi, quelle siepi, erano state sepolte dai capannoni, e dentro ai capannoni si aprivano altri fossi, si innalzavano altre siepi. Tutto qua. Il resto, come si dice qui da me sono tutte ciàcoe, con tutto il rispetto che si deve alle ciàcoe, ad ogni commento, con tutto ciò che si impara, poi, da essi.
    Fabio

  22. Un libro splendido, e posso dire che Fabio è un grande poeta perchè è una persona straordinaria. Lo posso dire con sincerità assoluta, senza lecchinaggi e piaggeria.
    Un abbraccio a fabio, Manuel e fm.

    ft

  23. caro fabio
    ti ringrazio da qui per l’invio del tuo libro.
    a sorvolarlo si vede che è un libro necessario, ma bisogna affondarci le unghie….

    si, questo di marotta è un luogo eccelso!

  24. @Liliana Z.

    Grazie per il suo passaggio. Avevo intuito cosa lei voleva intendere: se il consorzio in cui viviamo non è proprio civile, o se è questo il grado di civiltà, occorre che la poesia sia incivile: era anche questa l’idea e il gesto del pasolini delle ultime raccolte. una poesia incivile, nel senso che non ha (diritto) di cittadinanza nella polis.

  25. @Leopoldo Attolico:

    Grazie Leopoldo per la chiosa. Ho molto apprezzato.

    Effettivamente c’è un problema di fondo che riaffiora ogni qualvolta si tira in ballo la dimensione ‘civile’ della poesia.

    Non mi riferisco, naturalmente alla cara Liliana Zinetti, ma è indubbio che appena si tirano fuori categorie inerenti impegno, denuncia, politica, ad esempio, da più parti si arriccia il naso.

    La non digestione di una poesia manifestamente in presa dialettica con il presente, ad esempio, dà fastidio. Si tratta di un fastidio che, come sappiamo, affonda le radici nell’educazione letteraria,ultrasecolare, direi, che ha fatto l’impossibile per stigmatizzare la divaricazione tra letteratura e vita, letteratura e realtà, letteratura e vita pratica… Questo, molto in breve, ha fatto sì che la nostra poesia maggiore (o vincente? di establishment?…quella insomma che ha avuto più fortuna e tradizione nei secoli, quella canonizzata… e pensiamo all’alterna fortuna dantesca…) ripudia un confronto diretto con le cose del mondo.

    Da ciò, (scusate se la sede di un commento non è appropriata a una trattazione) sempre generalizzando e anche argomentando ora con luoghi comuni noti a tutti noi, la poesia riconosciuta come tale, ha sfogliato sempre più i suoi petali, lasciando a terra le molte, le possibili, opzioni:

    si sono perse per strada:

    la poesia giocosa
    l’ironia
    il sarcasmo
    l’invettiva
    la contraddizione

    la poesia epica
    il poema ariostesco
    la poesia che affronta la storia
    la poesia del presente
    la poesia sociale

    a un certo punto,
    le strade percorribili si sono ridotte all’osso:

    per cui:

    inevitabilmente lirici,
    irredimibilmente ombelicali
    verticali
    (in una nicchia: mistici)

    la lingua della poesia ha perso nei secoli contatto con il linguaggio, con la phonè, con la koinè dialectos

    si è settorializzata e specificata sempre più abbandonando il socioletto di riferimento.

    siamo stati educati a una parola essenziale, un po’ avara di sè.

    a un vocabolario ridotto all’osso: ora che qualcuno abbia scritto grandi opere, Canzonieri, con solo 80-100 vocaboli di riferimento, va benissimo.

    ma dovrebbe essere accettata con altrettanta tranquillità, priva di pregiudizi, una scrittura poetica che al contrario, assume in sè quante più parole, e diverse, del mondo:

    cioè: plurilinguismo, pluristilismo, meticciato.

    accanto all’haiku, alle liriche di tre versi, dovremmo poter accettare l’esistenza di ampi testi, debordanti, poematici, deambulatori, sussultori.

    Parto sempre dall’idea, ma è un”idea come le altre, dunque opinabile, che tutto sia matera per la parola poetica.

  26. Ma Leopoldo Attolico fa riferimento a una questione anche urgente: il rapporto politico con la contemporaneità.

    Può la poesia, anzi il poeta, esimersi dall’affrontare la questione?

    Naturalmente può fare quello che meglio ritiene opportuno.

    ma è indubbio, e mi attesto alla situazione presente, che qui nessuno si salva, nessuno è immune da quanto accade.

    L’arte per l’arte è una foglia di fico sotto cui nascondere una piccola parte di noi: per il resto, si è nudi, e anche abbastanza disarmati e impreparati.

    E cos’è l’arte, e la scrittura, se non una spugna, come mi suggerisce la mia amica Renata Morresi, impregnata del presente e della vita?

    In momenti come questi, credo che versi civili, o incivili, abbiamo molta ragione d’essere.

    Perchè demandare a politici che non ci rappresentano, il compito di dire e denunciare l’orrore, l’insulto, il disgusto?

    Un poeta di squisita educazione letteraria, Franco Buffoni, da almeno un decennio e in maniera sistematica ha abbracciato con le armi della poesia la lotta e la rivendicazione dei diritti civili in un paese poco civile, poco laico, poco rispettoso delle scelte individuali, etiche e naturali.

    Franco Buffoni è oggi un poeta molto civile anche anche per questo. Fa, con la pratica che meglio conosce, opera di civiltà.

    Fabio Pusterla, affronta le questioni della grande storia rapportata alla vita dei piccoli uomini: ci racconta di esistenze minime, marginali, in primo piano e accolte con dignità nei suoi versi dove la grande storia fa da sfondo o fondale.

    Sono due esempi di poeti che in fondo rappresentano al meglio una dimensione civile…anche perchè non fanno come i vecchi vati bacchettoni: non suonano il piffero per nessuno, non agitano bandiere.

  27. Ecco, volevo dire, molto goffamente, che ci sono momenti, nei migliori poeti, in cui non si può non confrontarsi con quello che accade.

    Oggi pomeriggio a Roma, verrà presentata la nuova versione di Calpestare l’oblio: 100 poeti contro la minaccia incostituzionale.

    I poeti, i critici, i rappresentanti di vari settori dell’arte, della letteratura, del lavoro, affronteranno le questioni più spinose e drammatiche.
    Precariato, disoccupazione, depressione economica, situazione della cultura in Italia, minacce a vario grado e a vario titolo alla Costituzione Italiana: minacce ai diritti fondativi e civili.

    E’ un gesto, una piccola cosa, ma varrà la pena esserci dalle 17 in poi al circolo Beba do Samba, al quartiere San Lorenzo. O essere alle prossime tappe dell’assemblea che si terranno in varie città italiane.

  28. Se c’è un poeta che sa dare a grado zero l’implosione, prima ancora che economico-sociale, linguistica di quello che fu il Nord-Est, questi è Fabio Franzin. La sua è una scrittura che sta sul margine della lingua, nient’affatto marginale, là dove nasce e muore, dove perfino il banale (e il male) del quotidiano si fa pensiero emotivo, vigile critica e cronaca sociale. Il dialetto veneto ne esce confortato, rivitalizzato, Franzin poi lo sospinge a viva forza dentro all’italiano a fortificarne quella che fu vulgaris eloquentia. Quasi un ritorno alle origini della nostra lingua, un ritorno che non è una ripetizione ma una ricorso vichiano, un’anticipazione a ritroso. “Co ‘e man monche”, nò cionpe! La realtà esige d’esser detta, Franzin ne è oggi, qui, testimone e voce.

  29. Grazie per il tuo articolato intervento, Manuel. Nei prossimi giorni cercherò di pubblicare un mio contributo in forma di post.

    A me pare, comunque, e dico ciò in generale, indipendentemente dalla tua analisi, che la sostanza della riflessione, in/sulla poesia, sia riconducibile, sempre e comunque, a un discorso, ineludibile, di “forme” e di “linguaggio”. Accantonarlo in funzione dei “contenuti”, subordinarlo alla mera rappresentazione del “reale”, rimuoverne la “necessità” a favore del “messaggio”, significa – ed è quello che avviene nella stragrande maggioranza dei poeti cosiddetti “civili”, quelli che “scrivono-per-la-gente” (!) – mettere capo, quando va bene, a più o meno buoni esercizi di sociologia politica o di antropologia sociale.

    Il discorso sull’impegno in poesia, in un paese di mentecatti delle lettere e di “servi”, eterni aspiranti ad entrare nelle stanze, o negli sgabuzzini, “dove si puote ciò che si vuole”, puzza, è ambiguo: da una parte ci sono le nobili “intenzioni”; dall’altra, al minimo o in grande, le pratiche di piccolo cabotaggio, il riconoscimento reciproco all’interno di gruppi e gruppuscoli più o meno influenti, gli scambi di favore, le cooptazioni amicali e familiste, il “berlusconismo diffuso”, vera e propria categoria dello spirito che contrassegna il profilo di tanti “alternativi” da salotto o da schermo del computer.

    Voglio dire: io non crederò mai alla buona fede di chi a parole e in versi è “contro” e poi, tanto per dirne una, presiede dieci premi dove invariabilmente vengono incensati gli amici; dirige collane editoriali dove invariabilmente vengono pubblicati anche gli sbadigli dei compagni di cordata; pubblica riviste e antologie dove invariabilmente trovano posto gli accoliti e i fan, così, tanto per rafforzare il gruppo.

    A che cosa serve scrivere una poesia di denuncia dei CIE, ad esempio, spendersi in versi contro l’emarginazione e il rifiuto dei diversi, contro le logiche annichilenti del neoliberismo imperante, a favore delle ragioni della pace, quando poi, all’atto pratico – leggasi: difendere un campo rom, scardinare le porte di un lager legalizzato, manifestare in piazza (fino a farsi massacrare dalla polizia) – tanti grandi “poeti civili” se ne stanno davanti al televisore a vedere la finale di coppa campioni o a “fare politica” (!) coi santori, i fazi e le dandine?

    Io preferisco continuare a interrogarmi sui rapporti tra pensiero ed espressione, definire, fosse solo per me stesso, una lingua irriducibile, inservibile, refrattaria a qualsiasi logica di potere, e, contemporaneamente, essere , come faccio da quarant’anni, nei luoghi reali del “conflitto”, dove i valori e la loro solidità si verificano, insieme agli altri, sulla propria “pelle”, non su carta. Io porto me stesso, la mia vita, la mia memoria, il mio sangue, il mio futuro e quello dei miei figli, non mando i miei versi e intanto me ne sto a guardare da lontano lo “spettacolo”. Pronto poi, oltretutto, a pontificare sui “come” e sui “perché”, a teorizzare e a “dettare la linea”. Dei rivoluzionari da salotto, di quelli che in base alla loro grande esperienza “sul campo” (non ci sono mai stati, però scrivono delle belle poesie di denuncia!) decidono chi è degno e chi non lo è di far parte della grande famiglia dei resistenti, francamente non so proprio che farmene. Civili o incivili che siano.

    Davanti al campo di Via Triboniano o in Via Corelli o per le strade di Genova è stato sempre più facile ritrovarsi fianco a fianco con gente che, magari, si occupa e scrive della questione omerica o del sesso degli angeli. Di “poeti civili” nemmeno l’ombra – tranne quei tre o quattro che sarebbero “civili” anche se si limitassero a scrivere la lista della spesa.

    fm

  30. Credo siamo tutti d’accordo con il disincanto e lo scetticismo di Marotta in ordine alla credibilità “sul campo” del poeta , “civile” o “incivile” che sia .
    Andrebbe monitorato ventiquatt’ore su ventiquattro per mesi , meglio per alcuni anni .
    Magari lo si scoprirebbe alle cinque di mattina sotto casa del critico famoso che porta a spasso il cane , o tra le braccia di qualche cardinale sponsor di Comunione e Liberazione per approdare in Mondadori …( per non parlare degli altri commendevoli comportamenti già citati da Francesco , performances che sono sotto gli occhi di tutti ) .
    In ogni caso , laddove il Nostro scrivesse cose decenti , valide dal punto di vista letterario , diamogli credito come è giusto che sia per una questione di onestà intellettuale . Se è poi un cane dal punto di vista umano facciamoglielo presente con una e mail , ovviamente firmandoci .
    Chissà che a forza di sentirselo dire non se ne convinca .

    1. Caro Leopoldo, tra i poeti cosiddetti “civili” ce ne sono alcuni di assoluto valore. E il loro valore non deriva, secondo me, dalla “materia” che trattano, ma dal fatto che sono poeti e basta.

      Le pratiche “prostituzionali”, poi, riguardano tutte le “etichette” – che continuano a provocarmi l’orticaria.

      Ciao, buona domenica a tutti.

      fm

      p.s.

      Il libro (anche) “politico” più bello e interessante letto negli ultimi tempi è “C’è bufera dentro la madre” di Stefano Guglielmin…

  31. Grazie a voi, con un grande abbraccio.

    La poesia di Fabio (e Fabio stesso) sta a cuore a tutti. E’ un “patrimonio” comune.

    fm

  32. Davvero commosso per il vostro “abbraccio” sono qui a ringraziare, davvero di cuore, Francesco Marotta, per avermi ospitato, e per l’ultimo commento, a cui, nel farlo, vorrei far eco nel dire che anche lui, e ben più di me, è patrimonio comune; Manuel Cohen per ciò che ha fatto, fa, e sono certo continuerà a fare per me e per molti altri poeti, anche per lui vale la stessa eco; e poi Francesco Tomada, Vincenzo Mastropirro, Stefania Crozzoletti, Franco Arminio, Leopoldo Attolico, Vincenzo Celli, Pier Franco Uliana, Dina Basso e Renata Morresi per il calore, per l’amicizia che, come essi sanno, è profondamente ricambiata. Un ringraziamento in particolare anche ad altre due esili ma grandi donne e poetesse, fra l’altro scopertesi fra loro amiche e sodali recentemente: Roberta Borsani per la sua nota graditissima apparsa oggi su “La fata centenaria”, e Nadia Agustoni per l’altrettanto gradita nota che uscirà domani su “Nazione Indiana”.
    Grazie, perché le vostre parole, il vostro passaggio, qui, da un senso anche allo sconforto di questo tempo storto.
    Con affetto e riconoscenza. Fabio

  33. “Co’e man monche”: osservazioni sul titolo.
    A livello fonico: /ó/e/ m/n/ /m/n/ /ó/e/ + due /c/ velari a intensificazione sensoriale: chiasmo allitterativo che è una trasposizione del fare manuale (dx & sx).
    A livello semantico: a dispetto di tanta teorizzazione dell’operaio come ‘mano’ della macchina, Franzin ci ammonisce che se manca la mano, protesi distintiva della specie, non si è affatto uomini. L’operaio è uomo perché usa la mano, se ne fosse privato non sarebbe che un manichino, senza senso né coscienza. Poesia la sua, prima che ‘civile’, umana.

  34. Aspettiamo di leggere la nota di Nadia, allora; ne avrà parlato da par suo sicuramente, con l’acutezza del suo sguardo e la limpida, disinteressata condivisione del sentire che una tale opera merita a pieno titolo.

    Con la speranza che qualche “autorevole” lettore/critico di passaggio da quelle parti si accorga, finalmente!, non solo del libro ma anche dell’incredibile lavoro di diffusione della (buona) poesia che persone come Fabrizio Bianchi portano avanti da anni.

    fm

  35. Non potevo non fermarmi di nuovo per ringraziare Pier Franco Uliana per questa sua così importante (per me), illuminante nota, soprattutto per l’ultima frase. Ecco, quel che io cerco di fare con la mia poesia, sta tutto concentrato nell’ultima frase dell’amico Uliana (che fra l’altro è un grande poeta, secondo me, e non lo dico per farci le seghe a vicenda, lui lo sa); sul lavoro portato avanti dalle “Voci della luna”, sulla bontà della collana di poesia, che è tutta dentro l’abbraccio di Fabrizio Bianchi – a proposito di patrimonio comune, lui lo è forse più di altri, disinteressatamente, solo per passione e per amore – vorrei dirvi che, insieme al mio libro è uscita un’ottima raccolta di Piero Simon Ostan, giovane autore veneto-friulano che sa indagare il disagio di questa epoca come pochi, senza urlare, in versi oserei dire carsici, che sembrano quasi innoqui appena li leggi, ma poi riaffiorano, scavano dentro…
    Grazie. Fabio

  36. La poesia di Uliana, che passa dall’antico idioma cimbro a un raffinatissimo italiano, è la lingua del bosco dei Dogi, il Cansiglio; la traccia di un sentiero verso una radura, del perdersi e del ritrovarsi, fra gli abeti e i faggi, fra il canto degli uccelli e i “gesti umani”. E lui è un poeta che ama stare all’ombra di quelle nobili fronde; ma Zanzotto, Voce e altri attenti critici conoscono la sua grandezza, che è di poeta ma anche di uomo. Anch’io sarei felice che La Dimora ospitasse la sua voce. Sono certo che sarebbe una grande sorpresa, per chi non lo conosce.
    FF

  37. Fabio, non farti problemi a passargli la mia mail e a farmi contattare.

    Tra l’altro avevo letto qualcosa di suo proprio grazie a un intervento di Lello Voce. Sono questi i momenti in cui la rete è davvero tale, di nome e di fatto: quando, fuori da ogni bulimia narcisistica e autoreferenziale, ci permette di conoscere nuove significative scritture.

    fm

  38. Già fatto, caro Francesco. E spero proprio che Pier Franco ti mandi suoi testi. Lo spero soprattutto per i tuoi, nostri lettori.
    FF

  39. fabio franzin ha il potere di scatenare la rabbia dei giusti, la pietas di chi non dimentica: epica e civile insieme, ma anche lirica, la sua poesia, in un idioma a tratti aspro come un’unghia spezzata, altre volte dai suoni antichi, come di culla. una lingua che mi commuove e che, grazie a dio, posso leggere direttamente. i suoni veicolano il senso: sono già senso essi stessi.
    una lingua che salva il poeta e la materia da ogni, nemmeno inconscio, compiacimento.
    miglior “pre-fattore” l’opera non potrebbe avere: che volere di più?
    lunga vita a entrambi, e al carissimo francesco.

  40. caro francesco, siamo d’accordo: lo scenario che prospetti è abbastanza realistico. Sappiamo di chi sgomita, di chi gira per i corridoi, di chi aspira a quelle postazioni che critica.

    Queste cose sono sotto i nostri occhi.

    Però, concediamo una possibilità alla buona fede: anche a Roma, all’assemblea di ‘Calpestare l’oblio’, ti accorgi di chi c’è perchè ci dev’essere, ma percepisci anche il fondo di disagio e di verità in tanti lì a testimoniare una insofferenza e una inquietudine profonde. E’ con queste persone che occorre rapportarsi. Gli scalatori sociali, quelli in carriera ci sono sempre stati. Ma per fortuna c’è ancora e nonostante tutto, uno zoccolo duro di gente che non vuole compromessi. Il problema è metterli, mettersi in comunicazione e in ascolto. Un abbraccio, m.

  41. Di recente, occupandomi di un progetto per i neodialettali, sono venuto in contatto con Uliana, e con la sua bellissima, boschiva, poesia.

    Se lui non si dovesse fare avanti, caro Francesco, ho i suoi files.

  42. Sempre per Francesco, ma in parte ti ha replicato Leopoldo Attolico, è vero, la questione riguarda anche la testualità: spesso, quando si tratta di autori civili o sociali, ci si avventura facilmente in disquisizioni sociologiche, e in recensioni contenutistiche, perdendo di vista la questione formale: ti rispondo con Adorno, che trovo sempre utile e valido, almeno per me (quando scrivo di un libro cerco sempre di cogliere aspetti formali e contenutistici): scriveva adorno che ‘La specificazione formale costituisce e determina (nell’opera e per l’opera di un autore engagè) il suo antagonismo vitale’.

    Anche autori recenti che ci parlano di politica, commettono grossi errori formali, e sopratutto non adeguano la lingua al linguaggio delle cose di cui dicono: lunghe lamentationes, ah! oh! eppure.. quando ero giovane, noi allora volevamo… verbi sempre al passato e mai pienamente al presente per una parola poetica che vorrebbero civile (o incivile9 ma che difficilmente può essere condivisa…

    E’ sempre una questione di stile, e di lingua.

  43. @Iole Toini:
    Non conosco personalmente Iole, ma la saluto e ringrazio per il suo passaggio. Ho però letto i suoi versi che Fabrizio Bianchi mi ha dato. Il suo libro è molto particolare e molto forte.

  44. Caro Manuel, mai negato che esistano, al di là di qualsiasi etichetta, poeti di assoluto valore. Uno dei miei preferiti da sempre, tanto per dire, è un autore che ha fatto della militanza ad oltranza la materia dei suoi canti. Ponevo una questione di ordine più generale, che il mezzo non aiuta certo a sviscerare come si dovrebbe o potrebbe. Avremo modo di riparlarne, qui o altrove, vedrai.

    Vi lascio una considerazione, che solo apparentemente può sembrare marginale (per me, invece, è dirimente): essere di sinistra, per quanto mi riguarda, significa portarsi cucito addosso, come una seconda pelle, un “abito” che è, prima di ogni altra cosa, “sostanza etica in atto”, id est immediatamente politica: ovverosia rifuggire, in ogni istante della propria vita privata e pubblica, ogni compromesso, ogni abiura, piccola o grande che sia, dei valori in cui si crede – anche a costo del silenzio, perché è nel silenzio che ciò che conta mette radici, pronto a farsi “azione”, prassi quotidiana, quando quei valori sono attaccati, ridotti a maceria.

    Le “etichette”, se guardo “l’argenteria di famiglia” di tanti che se le appiccicano, e graziosamente le appiccicano per esclusione, sono foglie di fico, fatte della “stessa materia di cui son fatti i sogni”.

    Un mio “maestro”, René Char, ha sempre cantato l’amore, la sua amatissima terra provenzale – ma quando ha visto minacciati i suoi valori e ridotto l’umano a simulacro di nefandezze, ha “armato di fucili la notte” e ogni acqua, ogni pietra, ogni albero di Valchiusa; ha trasformato il lumino della Maddalena in una vampa immensa capace di squarciare le tenebre naziste; e sempre portando sulle labbra amore, donne, terra, pietre, torrenti e cespugli è diventato il comandante Alexandre, un maquis…

    Credo che ci sia ben poco da spiegare, perché ben pochi sono gli Alexandre che vedo in giro. Ed ecco perché, ed è realtà ampiamente toccata con mano, nei luoghi reali del conflitto, come dicevo sopra, è molto più facile ritrovarsi fianco a fianco con gli studiosi di Omero o i dissertatori intorno alla sessualità angelica…

    fm

  45. Lascio qui il mio saluto a tutti voi e mi scuso del ritardo ma sono giorni veramente di lavoro e lavoro. Ho già detto del libro, a Fabio e con la mia recensione, e posso solo aggiungere che ho avuto l’occasione con Fabio di parlare di cose che entrambi conosciamo fin troppo bene. La mia nota ribadisce alcune cose su cui spero qualcuno trovi modo di riflettere. Complimenti ancora e un abbraccio.

  46. ringrazio, sempre di cuore, Lucy pestifera e Iole Toini per il loro passaggio, qui, per le loro parole così affettuose. E ringrazio ancora Nadia Agustoni per la preziosa nota su NI.
    FF

  47. Le mani mozzate di chi non può lavorare. Le mani mozzate di chi lavora e non può, con le sue mani, metterci niente di suo. Le mani mozzate perché non sono più mani, non toccano, non si fanno toccare. E mi viene in mente l’amico Pino, che ha fatto di tutto per non finire stritolato da un mondo di miseria che lo condannava a fare lo sterratore, il muratore, impedendogli per tutta la vita di coltivare il dono divino della musica, quel suo talento naturale andato disperso. Pino diventato negli ultimi suoi anni completamente sordo, mezzo cieco, con la pensione minima perché i contributi glieli avevano rubati quasi tutti, scriveva: A ME PARE. Te parlave poc, / pitost te sbrundulave, / te rugnave, / par poc te bestemave, / trope robe / te te recordave. // Le to man parlava / più de qualunque / lengua; le parlava / par tute le lengue / del mondo. // Man de lavor dur. ( A MIO PADRE. Parlavi poco, piuttosto brontolavi, rimbrottavi, bestemmiavi per un niente, troppe cose ricordavi. Le tue mani parlavano più di qualunque lingua; parlavano in tutte le lingue del mondo. Mani di lavoro duro). Ciao Fabio, Manuel, Francesco.

  48. Grazie del passaggio e del testo così denso e concreto, caro Ivan.
    A proposito delle mani, stamani, parlando al telefono col comune amico Aldo Colonnello, gli ho detto che, sino a qualche anno or sono, di un uomo valente, dalle mie, nostre parti, si diceva: l’à ‘e man de oro; il suo valere, e sapere, era tutto affidato in dono alle mani, alla concretezza del lavoro, dei gesti. Ora è diventato: l’à ‘na ciàcoea, el sa ‘contarla benon. Dove quel ‘contarla benon significa anche sa fare, infinocchiare con le parole, con la favella. Mi sembra lo specchio di questo tempo che ha buttato in un cantone le mani, mangiate dalla bocca avida, dalla menzogna.
    FF

  49. l’orrore di questo tempo è il passaggio dal valore delle mani (e del cuore) a quello della ciàcola, della sbàtola, al saverla contar. sempre avuto ammirazione per i ciceroni: anche goldoni si inchina alla siora felice – che ràcola! – e bacchetta gli uomini di poche parole, i rusteghi. ma lì era un mondo “migliore” che si opponeva, attraverso la parola, ad un mondo retrivo, misero, mortificante.
    qui si plaude alla parola che, non solo sostituisce la dignità del fare, ma esprime il vuoto pneumatico di certe non-coscienze. si plaude a chi ghe la mete a botéga al prossimo, a chi che mena le màn, no: usa le man, le mena. a chi che siga più forte, a chi ga più denti par sorider e par morsegàr. ai mona, se plaude. a quei che quando gèrimo in tanti a essar galantomini e brave done gavaressimo ciamà babaloni, baucotti: mona, praticamente. ecco la go dita: gavemo dee mone, pa governanti.

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