Slobodan

Miljenko Jergović

Al termine delle guerre balcaniche – e forse per una sorta di tardivo scrupolo di coscienza collettivo – sono state pubblicate in Europa numerose opere di autori di quell’area geografica. Al di là del fondamentale valore di testimonianza, ciò ha permesso di scoprire alcuni lavori di grandissimo valore, che proseguono il percorso di una tradizione antica e attingono, purtroppo, alla tensione emotiva che deriva da circostanze drammatiche. Tra questi autori Miljenko Jergović occupa un ruolo di primissimo piano: fin dalla prima edizione di Le Marlboro di Sarajevo (Quodlibet, 1995) si è affermato come una delle voci che meglio hanno saputo descrivere la tragedia bosniaca, al punto tale da spingere Paolo Rumiz a definirlo “il nuovo Andrić”.


Al di là del valore che possono avere i paragoni, Le Marlboro di Sarajevo è un libro di una profondità struggente: la guerra è la protagonista di tutti i racconti, ma non si tratta di storie di guerra, o meglio la guerra stessa si rende esplicita nelle piccole storie, capovolgendo i rapporti tra le persone, cambiando in un istante la prospettiva di una vita intera, trasformando l’odio in amore e viceversa. La scrittura di Miljenko Jergović, così concentrata sull’osservazione dei particolari ed apparente lontanissima da ogni tensione di stampo moralistico, demistificando la tragedia finisce in realtà per renderla vitale e fisicamente presente; il suo mondo dolcissimo, drammatico, grottesco si fonda sulla precarietà, e dall’asciuttezza della sua lingua emerge l’insensatezza crudele della violenza che ancora una volta, incurante dei buoni propositi, si è manifestata in tutto il suo potere. (ft)

Nella riedizione del 2005 (Scheiwiller) è presente anche una interessantissima intervista con l’autore a cura di Nenad Popović.

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SLOBODAN

Era il 1944 e nessuno era in grado di dire cosa sarebbe successo di lì a poi. Le notti di Bogdan e Mira trascorrevano in lunghi discorsi tormentosi, finché non decisero di sbarazzarsi di quel frutto. Grazie ai suoi agganci Bogdan trovò un tedesco, un medico che in assoluta segretezza liberava le donne più facoltose di Sarajevo dai figli indesiderati. L’intervento ci fu, ma il ventre di Mira continuava a crescere. Quando capirono che il frutto era sopravvissuto alla lama del raschiatoio era ormai troppo tardi. Vennero i mesi della paura: cosa sarebbe nato dopo quell’aborto malriuscito, come sarebbe stato quel qualcosa, con due braccia, due gambe e una testa?
Il giorno della liberazione di Sarajevo nacque un maschietto cui misero il nome di Slobodan. Piangeva come gli altri neonati mentre le ultime truppe tedesche, disarmate e a occhi bassi, lasciavano la città, la mamma gli cambiava allegramente i pannolini zuppi di pipì mentre in strada si spargeva la storia del prete di Stupa finito con una corda al collo. Il piccolo fece il suo primo sorriso il giorno in cui a Vučija Luka arrestarono gli ultimi cetnici e li fecero sfilare per la città. Tutte le angosce dei genitori parvero allora ingiustificate, sembrava che Iddio avesse eletto il piccolo Slobodan ad araldo di giorni migliori, fatti di abbracci calorosi e palmi di mano rilassati che mai più avrebbero nascosto la paura ovale.
Ci vollero le prime azioni di lavoro volontario per capire che col bambino qualcosa non quadrava. Certe cose le imparava prima dei suoi coetanei, altre, però, non gli entravano proprio nella testa: prima piangeva sconsolato, poi si chiudeva in se stesso e se ne stava giorni interi a fissare sempre lo stesso punto. Quando finalmente si fu ripreso un poco, i genitori imputarono tutto a una crisi passeggera, a una delle tante, bizzarre malattie infantili dall’origine misteriosa, che prima o poi scompaiono senza lasciare strascico.
Quando lo iscrissero alla prima elementare, a Slobodan venne un esaurimento nervoso. Seduto nel banco di scuola urlava stringendo il legno fino a spaccarsi le dita. Bogdan corse a riprenderlo e, una volta a casa, lo mise a letto. Il sonno guarisce tutto, sentenziò la madre che non riusciva a farsene una ragione, ma Slobodan non si alzò dal letto diverso, né l’indomani, né mai. A tenerezza rispondeva con tenerezza, ai tentativi di ricondurlo in mezzo ai compagni di scuola reagiva con un lungo e cupo urlìo, quindi con un più lungo e sudorato sonno. Parlava solo di ciò che lì per lì sembrava suscitare il suo interesse, al resto rispondeva con due occhi imbarazzati e col silenzio. Per giorni Bogdan tentava di insegnargli ad annodare i lacci delle scarpe, lui intrecciava le dita, stringeva nodi morti e in ogni caso non andava mai oltre le tre mosse elementari. Però si ricordava di ogni discorso fatto in casa, era in grado di ripetere per filo e per segno le cose dette una settimana prima durante il pranzo domenicale, sapeva di chi fosse compare il tizio che l’anno prima aveva calpestato un riccio a Promajna e che aveva un vicino sorpreso nel ‘46 con delle scorte di farina nel suo appartamento. Il ragazzino cresceva come una specie di memo della casa, inetto a tutto fuorché a ripetere pedissequamente i discorsi degli altri, magari a voce un po’ troppo alta, ma sempre nello stesso tono.
Verso la metà degli anni Cinquanta Bogdan morì, un po’ dalla tristezza, un po’ dal ricordo mai sublimato di quella notte del ’44, quando aveva acconsentito a che il raschiatoio ponesse fine alle incertezze. La mamma rimase sola col ragazzo che poi sarebbe diventato alto circa due metri e del tutto insufficiente a se stesso. Quelli di Sarajevo si ricorderanno di una vecchia signora raffinata, con un volto da borghese, seguita a tre passi dal suo enorme figlio, sempre lindo e stirato, bravo quando tace, scemo quando apre bocca. Aveva già i primi capelli bianchi quando il calzolaio Meho, guardandolo così, da sotto gli occhiali, sentenziò “su quel ragazzo c’è scritta la data di scadenza”.
Non sarebbe sopravvissuto a sua madre.
La signora Mira lasciò questo mondo in punta di piedi, all’epoca delle Olimpiadi di Sarajevo. Slobodan cominciò a fermare i passanti per strada e a interrogarli sul loro albero genealogico. Gli rispondevano pazienti, e lui archiviava. A Slobodan si dicevano le cose, lui le teneva tutte in testa per tirarle fuori a un successivo incontro. Si ricordava perfettamente di ogni volto e non gli capitava mai di scambiare una famiglia di Lika per una di Podrinje. Nessuno capiva meglio di lui la frustrazione delle hanume della čaršija quando le figlie si sposavano con degli eterodossi, e nessuno sapeva fare condoglianze più solenni e ineccepibili delle sue.
Era un pezzo di pane, solo che andava su tutte le furie se lo chiamavano Boban, Bobo o anche Slobo. Allora puntava i piedi a terra, serrava i pugni come un bimbo arrabbiato e strillava Slobodan, Slobodan, Slobodan. I mascalzoni del posto capirono al volo il punto debole del matto del mahala, e comincio uno sfogo senza fine. I bambini lo rincorrevano, davanti al Granap i monellacci con una birra in mano lo deridevano, fino a che non arrivava uno più vecchio e assennato, che scacciati i giovani arroganti lo riportava a casa.
Alla fine si ridusse come tutti i matti di questo mondo. Sporco, lacero e sempre affamato. Nessuno sapeva di che vivesse da quando era morta sua madre, se lo sfamavano i vicini o se malgrado tutto era capace di trovarsi da solo un tozzo di pane tra i rifiuti.
In uno dei primi reportage della CNN da Sarajevo si vedeva Slobodan che passeggiava tranquillo e beato per la città mentre attorno a lui piovevano granate. La telecamera lo seguiva per una settantina di metri, probabilmente il giornalista aspettava di inquadrare l’esplosione che avrebbe fatto a pezzi un abitante di Sarajevo. Passeggiando, dal campo lungo della ripresa Slobodan si avvicinava fin sotto il naso del cameraman, gli sorrideva, faceva un cenno di capo e, sorvolando sull’albero genealogico, se ne ritornava per i fatti suoi. Dietro le sue enormi spalle continuavano a cadere le granate mentre quella sera i telespettatori apprendevano che tra gli abitanti di Sarajevo ce n’é di follemente coraggiosi.

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LA BIBLIOTECA

Sopra la testa senti un sibilo, passa qualche istante di tensione e poi laggiù, da qualche parte in città, si scaraventa il boato. Dalla tua finestra quel punto lo vedi sempre chiaramente. Un’alta e slanciata co¬lonna di polvere che si trasforma in fumo e fuoco. Aspetti ancora un poco per capire di che tipo di abitazione si tratta. Se il fuoco è lento e pigro, è la casa di qualche poveraccio. Se prende la forma di una grossa sfera bluastra, allora è un loft elegante, rivestito di legno laccato. Se invece il fuoco divampa lungo e costante, allora brucia la casa piena di mobili in legno massiccio di qualche ricco proprietario della čaršija. Se le fiamme si impennano repentine, selvagge e dissolute come i capelli di Farrah Fawcett per poi svanire più repentine ancora lasciando al vento sfoglie di cenere plananti sopra la città, tu sai che poco prima è andata a fuoco una qualche biblioteca privata. E quando in tredici mesi di bombardamenti ne hai viste molte di queste torce giocose, pensi che un tempo Sarajevo si ergeva sui libri. E se così non era, vuol dire che lo è adesso, mentre accarezzi i tuoi ancora intatti.
In ogni biblioteca privata i libri più numerosi sono quelli mai letti, quelli che hai comprato per il colore della copertina, per il nome dell’autore, o magari solo perche eri attratto dal loro profumo. Un libro così lo tocchi spesso nei giorni seguenti l’acquisto, lo apri, leggi due tre righe e lo rimetti a posto. Dopo un po’ dimentichi che esiste, altrimenti lo scorgi da lontano non senza una leggera ripugnanza. Spesso ti viene voglia di portarlo alla biblioteca pubblica più vicina, di darlo a qualcuno, di sbarazzartene con qualunque mezzo, ma non trovi mai il modo giusto per farlo. E quello resta lì a bizzarra conferma della tua propensione ad ammassare oggetti inutili, che in un penoso e infuocato momento si ridurranno a un cumulo di ricordi. Tutti questi inutili libri mai letti ti saranno di peso quando dovrai congedarti da loro. E quasi capirai la felicità del fuoco mentre li ingoiava giù in città.
Già di meno sono i libri ai quali non ritorni dall’infanzia. Ti rammentano il tempo in cui non sapevi ancora saltare le pagine e leggere dall’angolo superiore sinistro all’angolo inferiore destro. Quelli sono forse gli unici libri che hai davvero letto in vita tua. Ogni buon racconto per l’infanzia aveva sempre un finale sconsolato dal quale non riuscivi a trarre niente, se non che la tristezza è il luogo dove la finzione supera la realtà. Ne I morti di John Huston una donna si mette a piangere e non sa dire perché. Guardando quel film hai pensato che la cosa è tutta lì, e ti è venuto da piangere.
I libri meno numerosi sono quelli che credevi ti sarebbero rimasti sempre accanto. Quando ne leggevi uno per la prima volta ti capitava sempre di rimandare la fine. Col passare del tempo diventavano inquietanti, col loro contenuto e il loro aspetto. Ma anche questi, come tutti gli altri, dovrai lasciarli, persuaso amaramente che in questa città, ma anche a questo mondo, gli stati di aggregazione del libro sono il fuoco, il fumo e la cenere. A qualcuno, più tardi, tutto questo suonerà patetico. Ma per te, specie quando sarai in altre città o dentro librerie ancora vive, per te la cruda verità sarà la chioma infuocata di Farrah Fawcett. Meglio e più a fondo dei libri bruciano soltanto i manoscritti.
Con la fine del sogno della biblioteca privata si spegne anche il sogno della civiltà del libro. E il fondamento di tale convinzione sta proprio in questo termine: “biblioteca”, una parola greca tra le tante, che però ti fa pensare subito al Testo Sacro. Ma da quando hanno cominciato a sparire così infuocatamente e senz’appello una dopo l’altra, tu hai finito di credere che la loro esistenza avesse un senso. O magari il senso lo aveva afferrato meglio di chiunque altro quello scrittore e bibliofilo di Sarajevo che l’inverno scorso invece di consumare la sua cara legna si scaldava le dita su Dostojevskij, Tolstoj, Shakespeare, Cervantes. Dopo tutti questi incendi, dolosi o no che siano, si è formato uno strato di gente che avendo amaramente capito le cose, sin da domani è pronta a fissare il fuoco del Louvre senza avere neanche l’impulso di afferrare un bicchiere d’acqua. Non ha senso proibire al fuoco di ingoiare ciò che l’umana indifferenza ha già ingoiato. Lo splendore di Parigi o di Londra non è che un alibi per i criminali grazie ai quali Varsavia, Dresda, Vukovar e Sarajevo non esistono più. O se esistono, ci vive della gente che nella più grande epoca di pace si predispone all’evacuazione, già pronta a dire addio ai propri libri.
A questo mondo, per come esso è fatto, c’è una regola di base — la stessa che enunciò Zuko Džumhbur pensando alla Bosnia —, e si riduce a una valigia sempre pronta. Lì dentro devono starci tutte le tue cose e i tuoi ricordi. Quel che resta fuori è già perduto. Inutile andare in cerca delle ragioni, del senso, di una giustificazione. Appesantisce, come i ricordi. Non resta che restituire diligentemente i libri presi a prestito, quelli avuti in dono li eviti o li perdi, quelli scritti li invii agli amici che vivono lontani gli uni dagli altri, così che il fuoco possa divorarli il giorno in cui la terra sarà tornata nel punto esatto in cui era qualche milione di anni fa.
Impossibile schedare o ricordare le biblioteche private di Sarajevo distrutte dal fuoco. E neanche ci sarebbe qualcuno per cui farlo. Ma come la fiamma di tutte le fiamme e il fuoco di tutti i fuochi, la mitica cenere e la polvere finale sono memori della sorte del glorioso Municipio, la biblioteca universitaria di Sarajevo, del rogo di quei volumi lungo un giorno più una notte. Tutto questo accadeva dopo un sibilo e un boato, esattamente un anno fa. Forse proprio nello stesso giorno in cui tu leggi queste righe. Accarezza dolcemente i tuoi libri, straniero. E ricorda che sono polvere.

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Miljenko Jergović, Le Marlboro di Sarajevo
Prefazione di Claudio Magris
Traduzione di Ljiljana Avirović
Scheiwiller, 2005
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3 pensieri riguardo “Slobodan”

  1. Ho avuto la fortuna di “incontrare” Jergovic molto tempo fa, quando tornavo a Sarajevo, dopo la guerra. Non solo i racconti sopra citati, ma anche le sue poesie meritano una lettura. Ma come Jergovic, a Sarajevo ho conosciuto alcuni scrittori di grande valore, falcidiati dalla guerra o, peggio, dalla vita. Grazie per aver ricordato quest’autore.

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