Nota critica a “Via Crucis”

Elio grasso

Nota di lettura a:
Silvia Comoglio
Via Crucis
Pasturana (AL), Puntoacapo, 2014

Quanto al pronunciarsi su una scrittura, i più praticano assilli d’abbandono poiché sospettano mutamenti di geometrie e di fisionomie serenamente conosciute. Col rischio di concedersi a suoni dall’identità strana, se non addirittura estranea. Non si è più simultanei di cortei consueti, dalle configurazioni assestate e protettive. Poi ci si accorge (per fortuna capita di sottostare a un “colpo” d’intelligenza, o forse degli dèi) di quanto sia ben più valoroso essere tangibili del mutamento, allorché il proprio peso specifico si arricchisce d’intenzioni, se non addirittura di valore intrinseco. A quanti riferimenti, e allusioni e indebitamenti dobbiamo guidare il nostro carattere perché si distingua infine un’esperienza poetica, un’intenzione sviluppata in alcuni libri a cui, per esempio, uno come Nanni Cagnone abbia affidato le proprie “speranze di lettore”? Sono molti, e occorre gettare campioni di modernità accompagnati da rivalse critiche di prima e ultima mano. Sia chiaro, senza patemi di pentimento o astuzie di tal genere. Silvia Comoglio, con i libri fin qui pubblicati, accetta queste custodie senza aumentarne o diminuirne l’evidenza – e libera com’è da attribuzioni più o meno sfilacciate, libera di seguire la cognizione del suo flusso di scrittura, prosegue sovrana. E Silvia, da cruciale abitante d’un mondo a noi consono, affida opere (partiture da eseguire, dopo la consegna degli spartiti) su cui alcuni osservatori hanno verificato il loro intelletto. Ma la superiorità dei testi raccolti è evidente. Talvolta imbarazzante. La loro molteplicità certo non facilita azzardi critici. E la prosa spesso non fa sperare in congiunzioni migliori. Troppo ibrida e confusa per meritarsi una competizione di questo genere. I versi possiedono una tale chiarezza d’intento, e una determinazione di senso, da non lasciare scampo. La cosiddetta “oscurità” è una favola da raccontare agli imberbi, a coloro che non capendo il senso di una svolta in strada vanno a sbattere contro un muro, o un albero, o un cartello segnaletico. Il significato è la trappola in cui qualsiasi poesia trova il suo lato peggiore. Pochi lo comprendono. E irriguardosi s’allontanano. Poveri impulsivi prigionieri di lingue lasciate passare, indimostrate, negli eterni campi del vuoto. E dunque ora siamo nel ciclo della Via Crucis. Che inizia con la Madre di tutte le madri, culla vitale come inizio di verità, sulla terra assunta a sostegno di scrittura cantante, irradiata nota dopo nota, poesia dopo poesia. Le Stazioni seguono il percorso della luna, ogni settore ha il suo spazio in gradi, ogni pagina del libro ha precisa chiave nello spartito, e come non capire quel che si ascolta, non radunarsi intorno al campo sonoro e geografico? La Crocefissione regge il peso fino a quando qualcuno decide di scriverla, e allora il peso si divide su tutti, diffuso ben oltre il valore religioso. I versi di ogni Stazione convivono col respiro, hanno intenti scrupolosi, non per comodità e non per riguardo. Ma per quel che traducono del dolore che li precedette. Ancora presente, mostrato dalle cadute. Senza più abiti il Cristo, senza più abiti le poesie, al massimo della trasparenza l’uno e le altre – perché qui non reggono scorciatoie e infingimenti, facili sotterfugi o misteri fatti passare tali da grammatiche insensate. Trattando volentieri del vero, un esempio: L’anguilla di Montale, il suo movimento (come spiega benissimo Galaverni), è “infine la forma stessa della poesia”, nel suo pellegrinaggio oceanico e mediterraneo: il movimento inarrestabile è l’abito della sua sensatezza, a nessuno verrebbe mai in mente di porsi troppe domande di fronte a una via che spiega in se stessa l’alfabeto visivo della vita. E a proposito di Brodskij, per Silvia grande speranza della possibilità poetica: le cose semplici sono illimitata comprensione della materia terrestre attraverso l’udito dei suoi abitanti, e tutta la sonorità non chiede azioni da saltimbanchi. La coscienza risente d’accelerazione “formidabile”, dunque l’oscurità della poesia diventa un falso ostacolo per chi pretende di spiegare ogni cosa con la corda stretta della sordità. Infine è la notte nella sua pienezza a entrare nelle dimore mentre Gesù viene inchiodato alla croce, in uno dei punti alti di Via Crucis, poiché l’autrice lascia libero il mondo di gettare tutto il peso del dolore sulle spalle degli uomini. La piega prodigiosa della resurrezione, dopo la morte e la deposizione, apre i secoli fino all’epoca dei “concentramenti” quando il Novecento esplose. Lì termina la rotta intrapresa dal libro, e al massimo del senso comprendiamo che tutto viene demandato a una possibilità di sopravvivenza, a un nuovo futuro ciclo. Intanto, in questo posto l’immediatezza poetica abbatte le volgarità della poesia “divulgativa”, e sono contento che ci sia un volo contrario a chi crede che la poesia sia quel che imita la fugace conversazione – e non la ricerca di “fenomeni assopiti” (sempre Cagnone) da far ricantare.

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