Dieci dediche (nella decadenza) è una raccolta poetica del 2006 ed è dedicata ad alcuni libri per me importanti, letti in quel periodo; e ovviamente ai loro autori. L’ultima dedica trascende la parola ed è indirizzata a un’attrice che si fa militante No-Tav. (N. G.)
Da
Dieci dediche (nella decadenza)
(2006)
-
Dedicato a …
a coloro che
che cadono, che hanno la gola secca, che
per istinto si buttano fuori, o se l’istinto
e la coscienza e tutto il resto si
intrecciano e
operano
come in un sogno
come in una roulette
fluido caso e controllo
manipolazione cosciente
a coloro che
che cadendo rifiutano la caduta, che reagiscono all’impotenza, che
pagano col sangue, che non si illudono, che li ritroviamo
nello squarcio, che nella crisi cercano l’uscita, che
curano la defezione, che sbagliano
il bersaglio, che
io so dove tirare la pietra
e il momento preciso, non so
come uscire dal labirinto, fuori è diverso, lo so
meglio o peggio non so, diverso, e ciò mi basta
diverso da questo globale dall’aria trasandata
altro da questa sorte economica
tutt’ora gravida di pericoli
civiltà minacciosa, io so che
una serie di sbarramenti che funzionano come selezione
il succube e l’indottrinato che sono remunerati
paradigmi e modelli che ricorrenti
segni ripetitivi, io so che
consenso e sicurezza, o anche percezioni più sottili
grotte, ripari, superfici rocciose, nulla sfugge
tutto è compreso, e non c’è esodo
delude la terra promessa
dio non è più d’aiuto
nel cuore della notte, e tradendo il pensabile, io so che
fissare una nuova distanza, aprire un percorso nomade
o è già finita, io so che serve sradicarsi, che serve
porre altre domande, non abituali, che
dentro di noi è la strada
e il deserto, che
deserto come destino, città come mèta, desiderio come spinta centrifuga,
senso come movimento, senso come chiarezza, senso come ritmo,
è una miscela esplosiva, io so che il tempo rivela la sua tomba
un rischio di nullità che è questo
decadere, che è questo
occidente-ghetto, che
allorché ogni legame, ogni
superficie o sguardo, ogni
valore, ogni teoria, ogni
luogo e ritmo, allorché
tutto è senza significato
la rapidità con cui l’idiozia ci trascina nel suo vortice
dedicato a coloro che
che scavano cercando punti di riferimento che
aprono tentativi, anche modesti, di comunicare dissenso che
restando fuori si buttano dentro che agitano una teoria critica
seditio e rebellio, razionalità, sfida, a coloro che a dispetto di tutto
cercano un altro senso
*
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… a Heiner Müller
Poesia concreta, che non s’illude,
radicale perché non evade,
e ignorante; poesia
di teatro, ma non rappresentazione,
poesia della disperazione,
che non approva.
Invenzione di lingua, lingua
intrigante, seminale,
lingua risonante in parecchi significati
invenzione interessata non decorativa
sincopata lingua alterata nuovi sensi
lingua in contrasto.
Al di là della lingua.
Al di là del teatro.
Al di là della poesia.
Al di là di ogni identità.
Al di là degli spazi circoscritti.
Al di là degli spari.
Al di là di dio.
Al di là dei pruriti dell’io.
Al di là del sacro e del codice.
Al di là dell’amore cortese.
Dentro le contese.
Poesia-carne, poesia scortese, come ricerca di rapporti nuovi,
poesia come un brivido di freddo, ch’esce dal panorama
abituale e s’avvia nel vento, al di là del decoro,
dell’innocenza, sempre strisciando
tra un boato e l’altro, al di là
del coro e com’è tremendo
il viso di chi la
evita,
quel viso è una grata, è un abisso, è un artiglio, è un albero gelato, è una radice divelta, è l’impietrimento, è l’ipocrisia, è un deserto di lingua, parla una lingua radioattiva, arrogante, come quella di un pessimo allibratore di borsa. Poesia brutale.
Fecale. Poesia che incede come schianto d’animale.
Poesia che non smette d’ululare, che emette
guaiti, belati, singhiozzi, eretici suoni
favolistici cazzi
pazzi lemmi
macerie
dice
fa.
Senza calma, senza le parole giuste, senza il tono che serve, senza racconto, la poesia si scioglie nel grumo, ora preme nella gola e sgorga in invenzione fonica, nelle lingue
della voce. Carezza d’acciaio, grido
d’allarme, ninfa desiderante,
putrida, tortuosa, solare
e cantante, la voce
sfida il silenzio, l’afasia, invade
la poesia.
(H. Muller, L’invenzione del silenzio, Ubulibri)
*
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… a Jean-Luc Nancy
Il corpo è: è la fonte, questo corpo
sempre all’opera, fuori misura, fuori parte;
lo stesso corpo è già voce, e ormai anche senso,
rottami di senso, disordine vocale, torsione,
quel che dico lo dico nella tensione
dei muscoli, lo Spirito non esiste, ossa,
nervi, colpo di glottide, selezione.
Ogni filosofia è la morte del corpo: tira il freno,
nasconde; e così divaga e offre un limite,
estende il dominio del Verbo sul corpo,
uccide, come ogni religione.
Il corpo è sintassi: del dolore e del desiderio,
della coscienza; è putrefazione lenta, scadere
del tempo; partitura di gesti, ogni corpo
è il presupposto di ogni scrittura, essenza del linguaggio e
di ogni valore; geroglifico essenziale.
Mi cercano, per legarmi al palo;
per entrare nel mio corpo e misurarmi con grafici e tabelle;
corpo misura di tutte le cose, potere sul corpo,
e segue l’abuso, il contagio, il putrido lavoro,
è lo strazio dell’economia politica, la pena
del lavoro; questo pensiero fa impazzire.
Che rimane del mio corpo una volta esposto?
rimane la possibilità di enunciarsi come contestazione
del privilegio, nel movimento che fa deragliare
l’esperienza vissuta; corpo sporco, che si ribella,
che apre uno squarcio; corpo saturo
di morte, che resiste; ciò che conta
è che il corpo esiste:
abisso, sfacelo,
catastrofe,
rissa.
E si passa, coi drappi, nello stridore della lotta;
unica certezza: la morte; si passa;
tenebra, fango, caos,
stanco, steso a terra, senza gloria
si passa sino all’al-di-là; a quell’al-di-là che è del corpo
la verità più falsa, è la sua
speranza vana.
(J-L. Nancy, Corpus, Cronopio Editore)
*
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… a Carmelo Bene
ma lo spettacolo domina, al pari
d’un ombra imprevedibile di rovina, nei panni d’eroina
sconcia sebbene io non sia nulla
ti scrivo a te, unico poeta
ti scrivo
è la galanteria del disgusto
tu il fuoco, il furioso
transfuga rispetto alla parola, tu unico poeta, preciso, oscuro, evidente
lava turbata butti fuori, la tua bocca unica
bocca che non dice, o un battibecco
ti scrivo
non esiste l’anima bella
o di recitarla in generale, ma nemico
ecco, nemico dell’epoca mi ripugna quest’epoca ma la tua voce
ascoltarla, una pausa
versi d’amore e risonanti per lo fuoco è quel ch’io odo
il fuoco dei versi e la voce tua
dunque una guerra ti scrivo
della tua guerra
è la mia malattia – ascoltarti
nel delirio ti ascolto
solo il diavolo
fallisce
è denuncia la tua voce non c’è riscatto, è inammissibile è l’evidenza
di una necessità la necessità della discordia è la tua voce
tutto il contrario di certi famosi attori
la tua, invece, c’è come militia non è adulazione non è cortese
è piuttosto strillo nei ruderi, scatto gesto esemplare
di rifiuto è invettiva contro la lingua
contra ‘l piacer suo
(Carmelo Bene, Majakovskij, Fonit Cetra)
*
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… a Anna T. (sarà düra)
Quivi è l’alta velocità, o marcia
campestre. La valle
si riprende se stessa. Bene, bene così. Sappi, mio sinistro
ministro, sappi che:
chi entra con le armate
scappa a gambe levate. Ma tu, non perderti
d’animo, avrai la tua occasione. Però
ricorda questo: si insorge
contro una condizione demente, sempre
si insorge. E in questi casi
l’eccesso è l’unica arma. Tu deplora,
è il tuo mestiere, e deflora
la verità … Ma sappi, davvero,
che in ognuno di noi c’è un casseur, c’è un autonomo, un antagonista, un anarco-insurrezionalista, e che ogni valle, ogni anfratto, ogni strada, è per noi una banlieue parigina …
Evita i luoghi oscuri, se puoi. Gira armato.
La tua ritirata è la nostra festa. Abbiamo infranto
il sacro recinto, ci siamo ripresi
ciò che ci apparteneva. Domani
tornerai alla carica, lo sappiamo.
Ti aspettiamo, sotto questo albero di castagne. Vuoi del caffè?
Siediti qui, c’è ombra. Se vuoi ti spiego: vedi, so bene
che hai pronto l’ordine di cattura, ma, credimi,
la rivolta non è una festa. Se credi che la trattativa nell’agone democratico possa risolvere positivamente la questione, studiati gli ultimi decenni di storia; potresti ricavarne l’assoluta irriformabilità di un sistema che ha alla sua base
l’espropriazione delle nostre vite.
Il “pacifismo sociale” ci ha fatto accettare di tutto, in questi ultimi anni, aumentando la nostra stessa fragilità. Ben venga allora il conflitto dispiegato, caro mio, ben venga la rivolta.
Vuoi dello zucchero? Guarda la neve … Tu dici che siamo estremisti …
Va bene così, siamo solo alle parole. Non abbiamo mendicato attenzione,
ce la siamo presa. Hai invaso le nostre terre,
ce le siamo riprese. Che la furia dilaghi, questo
è l’unico mio credo. Non ci sono regole da rispettare, ma tu questo lo sai bene. Noi siamo qui, adesso, coperti di neve, felici per un giorno, al di là di ogni disciplina
democratica. Al di là di te
e delle tue divise …
e ricorda questo: sarà düra
(Anna T. lasciò la scena e scelse la prassi nei campi)
***
la dedica a H. M. è folgorante, il resto non scherza
e le altre?
f.
ah ecco, volevo ben dire, c’era la sorpresa
leggerò
saludos
f.
dediche, dediche: folgorante idea (mi è piaciuto il “folgorante” di f.!) per scritto raffinatissimo..
f., te l’ho detto mille volte: devi aver fede, e vedrai che tutti i sogni si realizzano…
fm
Sei un grande, Nevio!