Breve saggio su “morte di un amico che guardava”

brindisi_messoriMorte di un amico che guardava di Rocco Brindisi e Nella città del pane e dei postini di Giorgio Messori (di quest’ultimo ho già scritto qui) andrebbero letti a incastro, non importa se prima l’uno o l’altro, meglio insieme (una, due, tre pagine dell’uno e una, due, tre dell’altro) – ovviamente non mi riferisco a un incastro tra le “trame” dei due libri, ma penso a un incastro d’idee e di atmosfere, di modi di porgere la parola narrativa (che spesso è anche poetica per ritmo e per pause), di corrispondenze sentimentali, memoriali, geografiche. 

Ne risulterebbe così un unico, bellissimo libro come scritto a quattro mani non secondo un progetto preventivamente concordato, bensì scaturente dall’unica vera, commovente energia che muove entrambe le scritture: l’amicizia fraterna. (Dal punto di vista strettamente cronologico Nella città del pane e dei postini – Diabasis, Reggio Emilia 2005 – nasce per primo, segue il poemetto di Rocco Brindisi Morte de nu fra ca uardava – Edizioni Cofine, Roma 2007 – e, poco più di dieci anni dopo, vede le stampe Morte di un amico che guardava – ad est dell’equatore, Napoli 2019).  

Morte di un amico che guardava germoglia dall’affetto profondo per l’amico, dunque, e anche dal poemetto in dialetto intitolato appunto Morte de nu fra ca uardava e da ricordi di struggente vividezza. Sia nel libro di Rocco che in quello di Giorgio una parte importante è costituita dal racconto dell’esperienza d’insegnante di Messori a Tashkent in Uzbekistan, ma ovviamente le pagine di Rocco Brindisi privilegiano il ricordo dell’amico, ne fanno risuonare i timbri della voce, le movenze del corpo, la dolcezza del carattere. Ed è come se, dopo il poemetto in dialetto, Rocco avesse avuto bisogno di un tempo lungo e silenzioso per restituire a Giorgio, e stavolta in forma di scrittura, tutta l’amicizia e la stima cresciute nel corso di due vite.

È come se il vuoto che attanaglia la gola quando una persona cara muore avesse avuto bisogno di diventare tempo, scrittura, movimento oscillatorio della memoria ché i fatti non possono essere narrati secondo il tradizionale schema di sviluppo cronologico, ma, appunto, con moto oscillatorio, così che le singole pagine (sulle quali si accampano spesso testi brevi anche di mezza pagina) sono un andirivieni tra gli ultimi giorni in clinica e le giornate felici di Tashkent, tra gli incontri ancora più lontani nel tempo a Reggio Emilia o a Potenza e le settimane dopo la morte di Giorgio, tra episodi di pura oniricità (e ben sappiamo quanto lo stato onirico dia vita a pagine straordinarie in tutta l’opera di Rocco Brindisi) e stanze colme di vita e di affetto, ma talvolta anche di malinconia e silenzio (la casa di Tashkent, la clinica del ricovero, le strade di Reggio, le stazioni ferroviarie degli arrivi e delle partenze, l’aeroporto, le aule dell’università…)

Ma Rocco non scrive un libro luttuoso né triste; malinconico, talvolta, e sempre vitale e innervato da quel puro miracolo che è il suo stile: passaggi repentini ed efficaci da un tempo verbale all’altro, allargamento agli oggetti di atteggiamenti e sentimenti umani (nei suoi racconti le sedie possono ridere o sbadigliare di noia, i racconti voltarsi su un fianco per dormire…), corridoi di pensiero e attenzione sempre aperti tra il mondo dei vivi e quello dei morti (il Capitolo quinto s’intitola per esempio Alcune lettere di Giorgio, dopo la sua morte); gli atti fisiologici (pisciare e cacare) sono presenti in tutta la loro naturalezza, espressioni di una corporeità necessaria e mai rimossa, mangiare e bere con le persone amate (e anche guardare un film insieme o parlare di un libro), fare una passeggiata con loro sono tutte azioni che illuminano la scrittura e il racconto.

Questo è infatti un libro luminoso perché riesce a trasformare in racconto e ad attuare quello che Giorgio Messori era capace di fare: «Guardava con affetto gli infiniti segni del mondo, compresi i sogni, quelli che si fanno di notte» (p. 95), il che vale perfettamente anche per il modo di scrivere (e di vivere, naturalmente) di Rocco Brindisi.

Di seguito riporto alcuni, brevi passi del libro con l’avvertenza che il Carlo di cui si parla è Carlo Bordini e Ljuda è la giovane ragazza che Giorgio Messori conosce a Tashkent, che sposa e che gli darà un figlio – sono molte e indimenticabili le donne e le ragazze che vivificano i libri di Rocco Brindisi: in questo le studentesse di Tashkent posseggono una grazia e un’eleganza impareggiabili e Ljuda in particolare è l’incarnazione di un amore tenerissimo che le circostanze costringeranno anche a farsi custode di un ricordo, per cui il legame aereo e tenace tra Rocco e Ljuda è a sua volta un custodire e un ricordare, un mettere a frutto un lascito di affetti, di complicità intellettuali, di promesse da realizzare malgrado la morte di Giorgio. 

“Guardare” (nella cui radice etimologica emergono i concetti del custodire, difendere e vigilare) fu prerogativa di Ghirri e di Messori così come lo è di Celati, ci suggerisce Rocco in un’altra breve pagina, in una concezione di realismo ancora più convincente e profonda perché si abbevera alla fantasia e all’immaginazione, al sacro piacere della conversazione e del girovagare, a passioni comuni (la letteratura, il cinema, il vino). 

Se Morte di un amico che guardava è anche un congedo dall’amico morto che ha inizio con il poemetto in dialetto e con le prime pagine di questo libro in prosa, oserei dire che tale congedo non finisce però con l’ultima pagina del libro, ma si prolunga nella memoria dei lettori, diventa parte della loro esperienza: «In certi momenti mi capita di avere una percezione così chiara della sua voce, che mi viene da piangere», p. 84.  

 

                                                                         *

        Il giorno appresso raccontai la storia del cuore di Sant’Andrea, tirato fuori con le mani, dalla brace, e avvolto in un fazzoletto da Gesù, che, senza svelarne il segreto, chiese alla ragazza della locanda di custodirlo finché non fosse tornato dal suo viaggio… Ma quella notte la ragazza non riusciva a dormire, per un odore che torturava la sua anima… Si mise a frugare come una pazza, e, quando alla fine, capì che l’odore proveniva dal fazzoletto, lo aprì e si mangiò il cuore. Solo allora prese pace. 

Gli studenti dell’Università della Diplomazia sorrisero, alla fine. Chiesi a qualcuno se riprendeva il filo di quella storia. Elena e Zafar s aiutarono uno con l’altra. Giorgio stava lì, muto come un bambino che ascolti la prima e ultima storia del mondo. (p. 19)

                                                                       *

        Uscii nel giardino, e mi accorsi, all’ultimo momento, che Giorgio e Ljuda erano lì, seduti su un muretto. Davanti a loro, un tappeto di petali, volati via dal melograno. Non si dicevano nulla. C’era una quiete, nella loro vicinanza, che il melograno fiorito non avrebbe mai conosciuto. Si erano appena sfiorati, si guardavano le mani intrecciate, posate, una sull’altra, persi nella felicità di non essere altrove. Mi tiro indietro, e, chissà perché, senza volerlo, risalgo le scale, apro la stanza, la richiudo, per scendere di nuovo. (p. 26)

                                                                       *

        Giorgio sta morendo. Troverò Carlo alla Stazione Termini. Ma c’è uno sciopero e i ritardi si susseguono. Mangiamo qualcosa alla tavola calda. Non ci diciamo nulla o quasi. Carlo prende una fetta di torta. L’ultima volta che ero stato a Roma mi aveva passato, al volo, una cosa che aveva appena scritto, una decina di righe, dove mi parlava di quello che andava pensando da un po’ di tempo: il dolore di non riuscire a parlare della morte con chi era destinato a morire: quel tacere la morte era una sconfitta della ragione e dell’amicizia. Venne annunciato l’ennesimo ritardo; questa volta si trattava di un paio d’ore e decidemmo di partire il giorno appresso. (p. 121)

                                                                       *

        Eravamo in tanti, quella mattina, nella piazza di Guastalla: stavano girando un film su Luigi Ghirri. Gianni Celati, il regista, si aggirava tra la folla di comparse. Incapace di dare ordini, si agitava, come un bambino messo a dirigere un traffico di astronavi dopo essersi ubriacato a uno sposalizio di campagna. Levitava, sorridendo, il grande camminatore. C’era aria di festa, quella sera, lungo il fiume. Giorgio raccontava il suo amico, Ghirri, sotto una fila di lampadine colorate. Raccontava lo sguardo dell’amico morto, uno sguardo che aveva stregato le immagini che si svelano nel mondo. Il fiume era calmo. Qualcuno allestiva un banchetto regale sulla riva. Ho ancora viva la sensazione (Giorgio aveva un debole per questa parola), ascoltandolo, di essere stato testimone di una rivelazione: raccontava l’amico morto, un uomo che prima di morire si era forse stancato di guardare le cose, di vederle sospese nel mondo, raccontava l’indicibile pietà del suo amico fotografo, per l’innocenza, il mistero senza via d’uscita delle cose, degli esseri umani che appaiono nelle sue foto. Non c’era un alito di vento. La sua voce quieta, profonda; una voce destinata a non raccontare nulla al suo bambino, al bambino che sarebbe nato, un giorno, dalla donna che amava. Celati lo ascoltava, con l’attenzione di un vecchio signore dal cuore buono che riscopre nella bocca di uno sconosciuto l’incantesimo dei racconti e della morte. (p. 173)

                                                                       *

       La mia beatitudine rivedere il mio amore buono, mia moglie, accoccolarsi e fare un po’ d’acqua nel mare. (P. 178)

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