Un anno per Villa – Parabol(ich)e dell’ultimo giorno

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«La grande domanda è quella che vuole conoscere come avviene il trapasso, nel caos dei dati giunti fino a noi, come una risacca, in un amalgama fonetico baluginante ma senza luce ferma e fisso riverbero, il trapasso, in diagonale, da mito a concezione cosmologica, da mito a teologia, da mito a leggenda, e da storia a mito o da mito a storia; o non forse trapasso mai, ma come si determina il flusso degli incroci e degli attriti: una peripezia di cicli, di parabole, di invenzioni, di aperture, di inclinazioni» (Emilio Villa)

 

Era il 22 Settembre del 2013. A Castelfranco Emilia (MO) veniva presentato, in anteprima, un volume collettaneo dedicato ad Emilio Villa. In Italia per fare cultura sembra sia necessario  cavalcare le ricorrenze, ed è così che approfittando del decennale della morte (2013) e del centennale della nascita (2014) nasceva questo progetto denominato Parabol(ich)e dell’ultimo giorno. L’idea era quella di portare Villa tra la gente, di far sì che il suo particolarissimo “verbo” avesse una diffusione maggiore di quanto non avesse avuto in vita. Ricordare Villa agli addetti ai lavori, a coloro che già lo frequentano elettivamente non avrebbe aggiunto nulla. Bisognava farlo conoscere a chi non aveva mai avuto modo di leggerlo. Per queste ragioni, oltre alla realizzazione del libro e alla creazione di un sito specifico, il progetto si è strutturato attraverso una serie di eventi che hanno toccato tutte le città che hanno inteso ospitarci. È passato dunque un anno dall’inizio delle ostilità. Il 20 Settembre del 2014, con la determinante “complicità” di Biagio Cepollaro, ritorneremo a Milano, alla Galleria Ostrakon di Dorino Iemmi, a fare una sorta di bilancio dell’iniziativa; e colgo anzi l’occasione per invitare ufficialmente tutti gli autori che hanno collaborato alla stesura del libro e alla realizzazione degli eventi. Non tanto per moltiplicare le voci, ma per dar voce – se mi passate l’iperbole –  a quella voce che era molteplice in sé, per far sì che il suo “concerto intestino” possa rivivere e riproporsi ancora una volta.

Parabol(ich)e dell'ultimo giorno

Il libro che ha accompagnato la disseminazione live di questo progetto (edito da Dot.Com Press – Le Voci della Luna) è passato quasi inosservato, almeno dal punto di vista della critica e della visibilità in rete. Visto che nessuno si è preso la briga di parlarne, lo farò io, con alcune fugaci (e sicuramente inesaustive) suggestioni da curatore. Solo un abbozzo, senza sfinirci nelle connessioni e nelle commistioni sotterranee e intratestuali, per chiarire o, se preferite, ob-scurare alcune scelte, magari non sempre logiche o concettualmente cognitive ma, forse, dettate (diktate) da affezioni o affettività[1] che, a mo’ d’aratri, solcano le inevitabili deterritorializzazioni fomentate dall’opera villiana. E dunque: ci sono i pezzi a spezzare (e non mi riferisco solo al “tutto spezzettato”[2] di Ortore, un’operazione che potrebbe sembrare semplice e che invece, nel più puro spirito villiano, si apre a svariati punti di fuga), quelli cioè in cui si può idealmente passare da uno stato, per così dire, d’asfissia metalinguistica (vedi il du Sourire Absolu di Guerini, che cita nel titolo il Duchamp[3] di Villa; – se l’indistinto e l’incomunicabile dovessero essere, per forza di cose, babelici, l’operazione linguistica di Guerini ne rappresenterebbe la prova inoppugnabile) ad uno stato in cui il “respiro” si rende, magari solo apparentemente,  più accessibile. Sono quei pezzi (Cepollaro, Manzoni, Cortellessa, Voce, Pedone), per così dire, a tutto tondo che vanno dall’omaggio (anche figurativo, come nel caso dello Stuporaptus di Racca) al ricordo, alla critica testuale, alla restituzione “personalizzata” (e quindi anche affettiva) di eventi, e che si intercalano a varie serie di pezzi che sono invece legati tra loro da un filo conduttore, o a pezzi singoli dettati/ispirati da specifici testi villiani. Sarebbe stato facile dividere il libro in 3 sezioni (i testi di Villa, i contributi critici, i contributi creativi), forse fin troppo facile. Per questo la scansione del libro predilige l’alternanza, e almeno nella prima parte giustappone testi villiani, contributi critici e scritti creativi in maniera abbastanza ordinata e consequenziale. Dopo la lunga ed estenuante l’apertura ab ovo et oculo, e la conseguente “dissipazione” il primo impatto non poteva che riferirsi in maniera diretta alla madre-terra, tanto amata e bistrattata da Villa. Da qui la scelta di Geolatrica per introdurre il vertiginoso (e vertiginante) “Gran sangue della terra” di Fassio, che culmina con il grande cretto partorito da Burri a Gibellina, ovvero con l’apologia del concetto di pietra su pietra, di pietra viva su pietra morta o, se preferite, della Copia Conforme che raddoppia la morte eternizzandola.[4]

1391973_10200735382455857_1749074256_n L’operazione (già citata) di Guerini pretendeva necessariamente l’introduzione di una sibylla e la “villa-nata” di Morresi richiedeva un’introduzione «al femminile», un femminile naturalmente molteplice, che ho ritenuto evidenziare in “Fulva” e “Maria virgo”, per non calcare troppo la mano sulle infinite declinazioni villiane della «vulva», una vulva tra l’altro sufficientemente presente nel corpus testuale creativo di Morresi. Un discorso connettivo più articolato concerne la scelta di introdurre il saggio-ricordo di Manzoni con “Genesis”. Visto il titolo che Manzoni ha inteso dare al suo pezzo, Dare ordine al Kaos, la struttura spazializzata e profondamente ordinata del “Genesis” villiano (che permette, oltre la consueta lettura orizzontale, anche una lettura scandita per colonne verticali) già permette un primo significativo accostamento. Un altro approccio potrebbe provenire dal mito sumero, dai cosiddetti “me”, ovvero dagli elenchi di cose utili e necessarie per il “corretto” e prosperoso fluire della civiltà. In tal senso, il palinsesto di parole (cose) spazializzato da Villa si potrebbe intendere anche come il tentativo di mettere ordine nelle cose basilari o comunque necessarie per la “crescita”[5]. Il testo portante del saggio di Zuccarino (“I tempi dell’arte secondo Emilio Villa“) è rappresentato da L’Arte dell’uomo primordiale, lo stesso testo a cui si è ispirata Cera Rosco per il suo, debordante e plurivalente, contributo creativo, in cui vengono esplorate componenti affettive e psicologiche dell’annoso, tormentato e sempre irrisolto dualismo competitivo tra l’uomo e l’animale. Da qui la scelta consequenziale dei due contributi che richiedevano come introduzione la villiana Radix, vuoi solo per quelle “parietes mundi parient” (le pareti ove è stato partorito il mondo) che risuonano perentorie nel corpo testuale, senza considerare l’originaria “hieroglyphica radix” e la “vocis caverna” associata/opposta allo “hiatu superno” ( qui, per un’eventuale e ulteriore analisi, oltre all’ambivalenza caverna-basso / superno-alto bisogna tener da conto le varie accezioni di “hiatu” che vanno dallo iato, alla bocca spalancata, dalla voragine all’ingordigia). I tre estratti dalla Letania per Carmelo Bene introducono ob tenebræ luminescienti di G. Campi, dove – sotto l’egida del neo(il)logismo –  viene redatta una sorta di manganelliana “intervista impossibile” tra Carmelo Bene ed Emilio Villa. Uno dei tre Saltafossum (tratti da Verboracula), quello il cui, ideale,  fulcro centrale coincide con “inquit” (dire, aggiungere, sentenziare), introduce i due contributi creativi di Bellomi (“oikos / nostos“), ricchi di riferimenti di vario tipo. La mia scelta è stata condizionata da due specifici passaggi: “una cosa / espulsa, esplosa da se stessa (ovvero da quello che abbiamo identificato come fulcro: l’inquit)”; “via dal centro: unwound, dispnea esatta / di terra e poi detriti, brina innervata della specie, macchia /sommersa al vaglio del presente, taglio interno della tela /o nella frana fatta necessaria, che sa e comunica una liturgia /del gergo, che mira ed è mirata per sbagliare”. Tra i tre “Saltafossum”, ho scelto quello il cui grumo/nodo/fulcro  centrale era meno evidente dal punto di vista grafico-segnico, anche per in-centrare la connettività sull’ inquit che detta e condiziona la struttura smisurata (si potrebbe dire: pre-dis-posta ad una sorta di scrittura a cascata) dei due componimenti di Bellomi, dai quali vorrei evidenziare almeno altri due passaggi che mi sembrano, in ottica villiana, significativi e determinanti: “le corps / marqué, comme manquant”; “chi esplora rinviene creta, argilla del canale. /continua a esistere se è resa replicante, permeabile, lasciando /in prova gesti e lacere estensioni, braccia propagate alla deriva”. Cosa questa (quella del cosiddetto grumo centrale da cui si dipana l’éclat letterario) che deve essere estesa (vuoi solo per l’evidenza visiva che mette al lavoro il “Grand Jeu” villiano) anche agli altri due “Saltafossum”, che ho invece collocato (magari con un minimo di forzatura, per così dire, lineare rispetto alle originali deflagrazioni a raggiera) come introduzione all’operazione compiuta da Poletti dove citazioni dal Genesi si giustappongono a citazione villiane (anche questo è un classico esempio di “Grand Jeu”, ma con diverse accezioni e risoluzioni). Qui basterebbe la sola legenda dei simboli matematici usati da Poletti per stabilire un evidente regime di connettività tra l’operazione e la struttura verbovisiva e vettoriale dei “Saltafossum”. Ancora due parole quindi per ex-tendere verso il fuori alcuni accostamenti tra i testi di Villa e i contributi espressi nell’antologia. I saggi di Ermini (nella prima parte), e Ventre (nella seconda parte) sono espressamente legati, rispettivamente, ad una singola poesia (Linguistica) e a una raccolta più articolata (le mûra di t;éb;é). La prima parte del libro si chiude (o, se preferite, la seconda parte del libro si apre…) con i pezzi di Voce e Niccolai, già editi e pluri-diffusi in rete, ma essenziali per una visione “a tutto tondo” dell’universo villiano: dalle puntuali esegesi interpretative di Voce ai ricordi “drammatizzati” e, per così dire, arabescati di Niccolai. A seguire un corposo blocco di contributi creativi, introdotti dalle “Vanità verbali”. In questo blocco ho inteso scandire consequenzialmente sei diverse modalità (vanità?) di scrittura poetica che, al di là delle attitudini e delle componenti stilistiche dei sei autori (Molesini, De Lea, Ninni, Florit, Marotta, Frene), hanno lo scopo di certificare (qualora ce ne fosse bisogno) come la poetica villiana possa «aprirsi»[6] a tutto tondo e fomentare varie e svariate tipologie di prosecuzione. Sulla scorta e sullo scarto di questa indicazione troviamo, nei corpus poetici degli autori citati, una sorta di excursus affettivo da cui affiorano inusitate ed inesauste soluzioni. Per ridurre e semplificare, nel contributo di Molesini, in una ipotetica notte passata, per così dire, a darsi del tu, tra una “canzone milana piffera” e la dismisura di “tutto il tuo latino”, possiamo trovare anche chiari riferimenti a Matta, Fontana, Burri. Nel pezzo di Ninni ci troviamo a fare i conti con il “limite” inteso, di volta in volta, come margine, confine, parte terminale, cammino o camminamento, linea, ma anche differenza (da non sottovalutare nel testo un chiaro riferimento alla “spiga” dei misteri eleusini). Diverso è il discorso di De Lea, dove, al di là del folgorante incipit “lamor lamorgue lamorgana” [che sistema e sistematizza sullo stesso asse (paradigmatico?) amore, morte e mito], troviamo una sorta di percorso ideale che, sulla scorta del movimento all’indietro (“retromontante”) dei remi (ma si rema all’indietro per andare avanti), vorrebbe giungere alla verità, quella verità che si può “pescare”, forse, solo nel mare primordiale. Come spesso accade nella scrittura di De Lea c’è però da fare i conti con i dispositivi linguistici. Ed è per questo che i nostri “remi” idealizzati divengono la “parola della marea” (ῥῆμα =rhema=parola) o, se preferite, la parola dei flussi.  Nel contributo di Florit (anche questo è idealmente ispirato da L’arte dell’uomo primordiale) il discorso si evolve su diversi piani e livelli, vuoi solo per l’uso, in puro spirito villiano, di più lingue (francese, greco, inglese, latino) che arricchiscono e sub-stanziano l’italiano. Ma il discorso è più ampio e articolato del semplice uso/ab-uso delle lingue. Florit sembra prodursi in una sorta di palinsesto delle “cose” villiane (anche “virate” poeticamente) che ritiene indispensabili: “corpus mysticum; l’imperio-femmina; il mare primordiale; il seno della terra; l’arnia del silenzio”. Anche nel contributo di Marotta (profondo conoscitore ed estimatore di Villa) il discorso è (in)naturalmente ex-teso e stratificato e verte sulla ri-proposizione ri-plasmata delle catene patemiche più ricorrenti nell’opera villiana. Basterebbero i soli titoli delle cinque composizioni (acrilirico, inonija, crittografie vertiginose, alfabeti dell’oltre, hypnophanie) per rendere giustizia alle fatiche villiane, ma vorrei evidenziare almeno la bocca-trou, i segni scavati nell’argilla, il “lavacro di radici”, la “mappa del vagare”. Per quanto riguarda il contributo di  Frene i riferimenti (“tra ossari e dichiarazioni”) sono espressamente citati nella nota che accompagna il testo. Dopo il blocco creativo riprende il regime di alternanza; la “Sibylla angelicans” introduce il “VILLA (VIVE!)” di Pedone, un resoconto, per così dire, tecnico-drammatizzato, scandito qua e là anche sulle note dell’emozione, di quello che è e rimane l’evento più corposo e significativo dedicato a Villa (la mostra del 2008 a Reggio Emilia). Nel pezzo di Bulfaro vengono esplorate le caratteristiche  orali e le possibilità oranti di uno specifico testo villiano: La mega scrito (III) che naturalmente funge da introduzione. A seguire un’operazione verbovisiva di Moio e un apocrifo di Ercolani. Una considerazione a parte merita il contributo di De Stefano, il cui risultato è eccezionalmente apprezzabile, se si pensa che viene fuori da una sola parola: “punto”. Si tratta, com’è lampante, di un’operazione concettuale che, rievocando il Villa-Fontana: “[…] mais un / un / 1/ un /seul / un / soleil / un / tout / un / trou […]”[7], passa attraverso il trou, «ultimo e definitivo», per approdare al silenzio originario. La scelta di introdurre questo pezzo con “Ne operietur opus operum omne” deriva dal fatto che il “punto” di De Stefano è quel “nulla” (“l’illimite niente”) abbacinato al bianco (soleil) in cui esplorare il cuore al nero da cui ogni luce si forma. Al di là della struttura circolare e circolante dell’opera villiana di riferimento, mi preme evidenziare il nucleo centrale dove si staglia, per l’appunto, il trou, che possiamo definire ombelicale, compreso/compresso dai simboli di 3 dei 4 punti cardinali. Il percorso di De Stefano è da intendersi a ritroso. A differenza dei “Saltafossum” che esplodono dal centro verso l’esterno, qui l’intrusione nel trou pretende un transito dall’esterno verso l’interno. Il “punto”, se da un lato (nell’accezione al nero) può essere idealizzato come centro della terra, dall’altro lato si rende neutro o si neutralizza al bianco come un punto di pura luce privo di confini e che andiamo ad inscrivere (sempre idealmente) nello spazio vuoto del «vuoto», dove l’unico limite è il silenzio. Come a dire che tutto il resto è ciò che deve essere intenzionalmente o involontariamente taciuto. Il libro si chiude con la “Sibylla calvaria”, i già citati “tutto spezzettato” di Ortore, “La parola somma delle storie” di Ventre (interamente incentrato sul greco de le mûra di t;éb;è) e una serie di Trous villiani.    

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Qui di seguito un resoconto sintetico degli eventi finora realizzati.

Anteprima Nazionale   22 Settembre 2013 – Biblioteca Comunale – Castelfranco Emilia (nell’ambito del poesiafestival ’13 di Terre di Castelli),  con Dome Bulfaro, Martina Campi, Jacopo Ninni, Gian Paolo Guerini, Mario Sboarina, Enzo Campi

Prima Nazionale 27 /28 Settembre 2013 – Galleria Ostrakon – Milano (nell’ambito del Festival Tu se sai dire, dillo), con Biagio Cepollaro, Aldo Tagliaferri, Dome Bulfaro, Tiziana Cera Rosco, Martina Campi, Daniele Bellomi, Jacopo Ninni, Francesca Del Moro, Enrico De Lea, Mario Sboarina, Enzo Campi, Fabrizio Bianchi

5 Ottobre 2013 – Libreria delle Moline – Bologna, con Francesca Serragnoli, Enea Roversi, Luca Ariano, Silvia Secco, Rita Galbucci, Claudia Zironi, Sergio Rotino, Enzo Campi

12 Ottobre 2013 – Spazio Centotrecento – Bologna, con Giovanna Frene, Gian Paolo Guerini, Martina Campi, Gabriele Xella, Mario Sboarina, Dome Bulfaro, Francesca Del Moro, Gianpaolo Contestabile, Enzo Campi  

25/26 Ottobre 2013 – Galleria Oblom – Torino  (nell’ambito del Festival Oblom Poesia), con Marco Memeo, Silvio Valpreda, Dome Bulfaro, Ivan Fassio, Ivo De Palma, Silvia Rosa, Paola Lovisolo, Riccarda Montenero, Hermann Reiter, Ennio Bertrand, Andrea Leonessa, Gianpaolo Contestabile, Enzo Campi

16 Novembre 2013 – Biblioteca Civica – Verona (nell’ambito delle manifestazioni del Premio Montano), con Flavio Ermini, Rita Florit, Giovanna Frene, Silvia Molesini, Enzo Campi

5 Dicembre 2013 – Galleria Villa Contemporanea – Monza, con Dome Bulfaro, Paola Turroni, Daniele Bellomi, Jacopo Ninni, Nicola Frangione, Enzo Campi

6 dicembre 2013 – Libreria Popolare di Via Tadino – Milano con Francesco Marotta, Nicola Frangione, Paolo Zublena, Biagio Cepollaro, Dome Bulfaro, Jacopo Ninni, Enzo Campi

17 dicembre 2013 – Libreria Treves – Napoli, con Lidia Riviello, Giovanni Campi, Viola Amarelli, Francesco Filia, Carmine De Falco, Daniele Ventre, Enzo Campi

22 dicembre 2013 – Villaggio Cultura Pentatonic – Roma, con Nina Maroccolo, Plinio Perilli, Fabio Pedone, Antonio Iorio, Rita Florit, Michele Ortore, Enzo Campi

5 Febbraio 2014 – Biblioteca Guanda – Parma (nell’ambito della rassegna Conversiamo la poesia), con Edmondo Busani, Luciano Mazziotta, Claudia Zironi, Luca Ariano, Enzo Campi

10 Maggio 2014 – Giudecca 795 Art Gallery – Venezia, con Julian Zhara, Gerardo De Stefano, Davide Racca, Martina Campi, Jacopo Ninni, Francesca Del Moro, Mario Sboarina, Enzo Campi

11 Maggio 2014 – Grind House Club – Padova, con Laura Liberale, Giovanna Frene, Chiara Baldini, Martina Campi, Jacopo Ninni, Gerardo De Stefano, Francesca Del Moro, Mario Sboarina, Enzo Campi

30 Maggio 2014 – Libreria delle Moline – Bologna (nell’ambito del Festival Bologna in Lettere), con Gerardo De Stefano, Gabriele Xella, Giovanna Frene, Enzo Campi

31 Maggio 2014 – Teatro Del Navile – Bologna (nell’ambito del Festival Bologna in Lettere), con Martina Campi, Francesca Del Moro, Mario Sboarina, Enzo Campi

31 Maggio 2014  – Il Cassero – Bologna (nell’ambito del Festival Bologna in Lettere), con Silvia Molesini, Gerardo De Stefano, Enzo Campi

14 Giugno 2014 – Galleria Oblom – Torino (nell’ambito del Festival Oblom Poesia), con Martina Campi, Francesca Del Moro, Mario Sboarina, Enzo Campi

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Note

[1] cfr. le nozioni di affezione e affettività da Deleuze verso Spinoza (con riferimento specifico all’ocursus, “incontro”, e all’affectio che “indica la natura del corpo modificato ma implica la natura del corpo che modifica” ). Gilles Deleuze,  Cosa può un corpo?, ombre corte, Verona, 2007, in particolare pp. da 43 a 51

[2] “Però, che periodo veramente dissipato stiamo vivendo! La diaspora è paurosa, non ci si trova più, non ci si legge più, non si comunica più, la sintassi non nasce, la mente va da sola, frammentaria, e gli sforzi si perdono (pare, almeno). Non c’è un luogo dove intrattenerci a discorrere, da lontano non ci si capisce più, tutto spezzettato” (Emilio Villa, Lettera a Macrì, 10 marzo 1949, cit. in Il clandestino, p.49)

[3] “[…] du Sourire Absolu, héros de l’Adresse sans Fin / et de la Ruse implacable, maître des Prévivences, / charnère de l’Indifférence” (Emilio Villa, Marcel Duchamp, in Attributi dell’arte odierna, p.7)

[4] “[…] Derrida dice che un vero dono non dovrebbe pretendere un dono di ritorno, ma mi piacerebbe idealizzare un’opera di Burri (la sua opera più monumentale) come una sorta di gesto di ritorno verso Villa. Il “grande cretto” partorito da Burri a Gibellina, ovvero: l’apologia del concetto di pietra su pietra, di pietra viva su pietra morta o, se preferite, della Copia Conforme (ripetuta ma differenziata) che raddoppia la morte eternizzandola. È cosa nota che il cretto di Burri rispetti la piantina della città vecchia distrutta dal terremoto. Quelli che si possono definire i solchi del cretto ricalcano le strade originarie della città vecchia. Visto dall’alto il cretto assume una forma essenzialmente labirintica, e sappiamo quanto Villa abbia lavorato sul labirinto. Qui è come se il cretto fosse stato calato dall’alto, come un deus ex machina, e impresso sulle rovine o , se preferite, sullo scarto di ciò che era stato. Siamo qui in presenza di un doppio simulacro, la presenza fantasmatica di ciò che sopravvive idealmente in nuce, ovvero della città vecchia che ristagna idealmente nelle pietre del cretto, e questa sorta di copia conforme, questi enormi blocchi di cemento che riproducono sì l’uguale ma creano la differenza, una differenza che è anche differimento. Mi spiego meglio: la copia conforme è riferita ai solchi del cretto che ridisegnano le strade della città vecchia. Ma le case originarie, quelle distrutte, sono qui sostituite da pietre, da enormi blocchi di pietra (le parole silenziose). Ricordate come Villa, negli anni 30, inaugurava la sua avventura artistica? “accostavo pietre a pietre” = blocchi a blocchi “su pietre” = sopra le pietre delle case distrutte È come se Burri avesse reso reale quella frase, quel passaggio, quel verso di Villa. È come se avesse donato la vita a quel verso, ma non si è limitato a farlo come un comune mortale, l’ha fatto, alla maniera di Villa, iperdeterminando, se vogliamo esagerando, sia nel peso che nel pensiero. Così facendo, pietrificandolo (ficcandolo nella pietra), Burri ha eternizzato (èskhaton) quel verso, giovanile e acerbo, ma profeticamente moderno e attuale” (Enzo Campi, Chaos: Pesare-Pensare, in AAVV, “Emilio Villa – La scrittura della Sibilla”, a cura di Daniele Poletti, Diaforia, 2014). L’e-book, con contributi di Carlo Alberto Sitta, Aldo Tagliaferri, Ugo Fracassa, Cecilia Bello Minciacchi, Enzo Campi, Giorgio Barbaglia è scaricabile gratuitamente qui http://www.diaforia.org/floema/2014/05/30/la-scrittura-della-sibilla-emilio-villa/  

[5] Senza temere di cadere nei campi della casualità e della suggestione, e prendendo spunto da un’aforisma di Kraus (“L’origine è la meta”), che Manzoni cita espressamente nel suo intervento, non si può fare a meno di notare come la radice kr-cr sia esageratamente profusa e declinata nel componimento villiano (krus, kres, kruk, cru, cresc, crux, crurum, krak, cruen, ecc.). Leggendo krak (kr = cr = crac; tra l’altro il sanscrito pone la radice kar = car, che nel testo villiano è ulteriormente declinata in car-caro-carex), che potrebbe anche essere mutuato  dall’aramaico karka (città), viene spontaneo pensare ad una rottura, ad una sorta di crepa che si apre nel caos per permettere la genesi dell’umanità.

[6] “Dunque, ricominciamo. Non dire mai «attività critica». Ma entusiasmo, occhio, poesia. I critici sono la merda. Col vostro aiuto conto di poter far bene. State attenti a tutto. Bisogna aprire, aprire” (cit. in Il clandestino, p.106) [7] Attributi dell’arte odierna, cit. p.103

 

 

 

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6 pensieri riguardo “Un anno per Villa – Parabol(ich)e dell’ultimo giorno”

  1. Grazie per quest’intervento così articolato e appassionato; un grazie anche per la generosità dei link proposti; comprendo l’amarezza dell’estensore dell’articolo quando scrive che il libro è passato quasi inosservato in rete o presso la critica, ma la Dimora dedica da tempo la propria attenzione a Villa, autore ineludibile e necessario, una miniera inesauribile la sua opera (mi si perdoni la facile ed ingenua immagine) che svela col passare del tempo la propria ricchezza ed attualità delle quali eravamo coscienti già mentre Villa era ancora in vita. Trovo positivo il fatto che l’opera villiana continui a stimolare non solo studi critici, ma la creatività stessa di molti autori.

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