L’Odissea nella traduzione di Emilio VILLA


(Odisseo e Tiresia nel regno dei morti, vaso greco, IV sec. a.c.)

               Ὀδύσσεια Ὁμήρου – Ῥαψωδία α

Ἄνδρα μοι ἔννεπε, Μοῦσα, πολύτροπον, ὃς μάλα πολλὰ
πλάγχθη, ἐπεὶ Τροίης ἱερὸν πτολίεθρον ἔπερσε·
πολλῶν δ’ ἀνθρώπων ἴδεν ἄστεα καὶ νόον ἔγνω,
πολλὰ δ’ ὅ γ’ ἐν πόντῳ πάθεν ἄλγεα ὃν κατὰ θυμόν,
ἀρνύμενος ἥν τε ψυχὴν καὶ νόστον ἑταίρων.
ἀλλ’ οὐδ’ ὧς ἑτάρους ἐῤῥύσατο, ἱέμενός περ·
αὐτῶν γὰρ σφετέρῃσιν ἀτασθαλίῃσιν ὄλοντο,
νήπιοι, οἳ κατὰ βοῦς Ὑπερίονος Ἠελίοιο
ἤσθιον· αὐτὰρ ὁ τοῖσιν ἀφείλετο νόστιμον ἦμαρ.
τῶν ἁμόθεν γε, θεά, θύγατερ Διός, εἰπὲ καὶ ἡμῖν.

ἔνθ’ ἄλλοι μὲν πάντες, ὅσοι φύγον αἰπὺν ὄλεθρον,
οἴκοι ἔσαν, πόλεμόν τε πεφευγότες ἠδὲ θάλασσαν·
τὸν δ’ οἶον, νόστου κεχρημένον ἠδὲ γυναικός,
νύμφη πότνι’ ἔρυκε Καλυψώ, δῖα θεάων,
ἐν σπέεσι γλαφυροῖσι, λιλαιομένη πόσιν εἶναι.
ἀλλ’ ὅτε δὴ ἔτος ἦλθε περιπλομένων ἐνιαυτῶν,
τῷ οἱ ἐπεκλώσαντο θεοὶ οἶκόνδε νέεσθαι
εἰς Ἰθάκην, οὐδ’ ἔνθα πεφυγμένος ἦεν ἀέθλων
καὶ μετὰ οἷσι φίλοισι· θεοὶ δ’ ἐλέαιρον ἅπαντες
νόσφι Ποσειδάωνος· ὁ δ’ ἀσπερχὲς μενέαινεν
ἀντιθέῳ Ὀδυσῆϊ πάρος ἣν γαῖαν ἱκέσθαι.

ἀλλ’ ὁ μὲν Αἰθίοπας μετεκίαθε τηλόθ’ ἐόντας,
Αἰθίοπας, τοὶ διχθὰ δεδαίαται, ἔσχατοι ἀνδρῶν,
οἱ μὲν δυσομένου Ὑπερίονος, οἱ δ’ ἀνιόντος,
ἀντιόων ταύρων τε καὶ ἀρνειῶν ἑκατόμβης.
ἔνθ’ ὅ γε τέρπετο δαιτὶ παρήμενος· οἱ δὲ δὴ ἄλλοι
Ζηνὸς ἐνὶ μεγάροισιν Ὀλυμπίου ἁθρόοι ἦσαν.
τοῖσι δὲ μύθων ἦρχε πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε·
μνήσατο γὰρ κατὰ θυμὸν ἀμύμονος Αἰγίσθοιο,
τόν ῥ’ Ἀγαμεμνονίδης τηλεκλυτὸς ἔκταν’ Ὀρέστης·
τοῦ ὅ γ’ ἐπιμνησθεὶς ἔπε’ ἀθανάτοισι μετηύδα·

“ὢ πόποι, οἷον δή νυ θεοὺς βροτοὶ αἰτιόωνται.
ἐξ ἡμέων γάρ φασι κάκ’ ἔμμεναι· οἱ δὲ καὶ αὐτοὶ
σφῇσιν ἀτασθαλίῃσιν ὑπὲρ μόρον ἄλγε’ ἔχουσιν,
ὡς καὶ νῦν Αἴγισθος ὑπὲρ μόρον Ἀτρεΐδαο
γῆμ’ ἄλοχον μνηστήν, τὸν δ’ ἔκτανε νοστήσαντα,
εἰδὼς αἰπὺν ὄλεθρον, ἐπεὶ πρό οἱ εἴπομεν ἡμεῖς,
Ἑρμείαν πέμψαντες, ἐΰσκοπον Ἀργεϊφόντην,
μήτ’ αὐτὸν κτείνειν μήτε μνάασθαι ἄκοιτιν·
ἐκ γὰρ Ὀρέσταο τίσις ἔσσεται Ἀτρεΐδαο,
ὁππότ’ ἂν ἡβήσῃ τε καὶ ἧς ἱμείρεται αἴης.
ὣς ἔφαθ’ Ἑρμείας, ἀλλ’ οὐ φρένας Αἰγίσθοιο
πεῖθ’ ἀγαθὰ φρονέων· νῦν δ’ ἁθρόα πάντ’ ἀπέτεισε.”

(vv. 1-43)

[Omero, Odissea, traduzione e cura di Emilio Villa, prefazione di Aldo Tagliaferri, Roma, Derive&Approdi, “Opere di Emilio Villa”, 2005 (I ed., Guanda Editore, Parma, 1964)]

     Era un grand’uomo, straordinario giramondo:
espugnata la sacra rocca di Troia, era andato
pellegrino, ramingo, correndo palmo a palmo
il mare: scoprì città, conobbe l’indole di genti
e nazioni. Ora, o Musica dea, ora ispirami
su costui, sulle inaudite sofferenze ch’egli,
solo con il suo coraggio, ebbe ad affrontare
per porre in salvo la propria vita, e proteggere
la via del ritorno ai suoi seguaci! perché
questo appunto egli fortemente voleva: ma
tuttavia non riuscì a portarli in salvo. Essi
perirono; ma vittime delle loro folli, sacrileghe
azioni: insensati! Vollero mangiare i manzi
sacri al Sole Iperione, e così avvenne che il sole
sottrasse dal novero dei giorni proprio il giorno
del loro ritorno. Ebbene, tali eventi evoca
o dea, figlia di Zeus, evoca anche per noi
e dando inizio da qualunque momento vuoi.

Dunque tutti gli altri, quelli scampati
al precipizio della morte, lasciati alle spalle
ormai la guerra e il mare, a quel tempo
tutti erano a casa loro. Ma una augusta
Ninfa, la chiara dea Calipso, in fondo
a certi cupi antri tratteneva prigioniero
il solo uomo che ancora, e invano, si batteva
per far ritorno alla propria donna. E’ che
la Ninfa ne era invaghita e voleva
farlo suo sposo. Poi quando, con il volgere
misurato delle stagioni, venne l’anno in cui
un decreto delle divinità stabiliva ch’egli
tornasse finalmente in patria, nemmeno
allora egli poté sfuggire a nuove lotte
che lo attendevano, una volta giunto tra i suoi.
Gli dei nutrivano per lui grande pietà,
tutti, tranne però Posidone, che non si dava
tregua. Posidone si aizzò contro Odisseo,
uomo di figura divina, fino al momento
in cui Odisseo mise piede sulla propria terra.

Dunque, per ricevere un’ecatombe di tori
e d’agnelli, Posidone era andato a raggiungere
i lontani Etiopi, le più remote
razze umane che vivono separate in due:
gli uni a occidente, dove Iperione tramonta,
mentre gli altri stanno a oriente, dove sorge.
Laggiù, grande Astante del sacro banchetto,
il dio se ne stava gioioso. Gli altri dei,
intanto, sedevano invece a concilio nelle sale
di riunione del palazzo dell’Olimpio Zeus;
e fu proprio in quel frangente che Zeus, padre
degli uomini e degli dei, tenne loro un discorso;
gli era tornato in mente il destino del nobilissimo
Egisto, che il figlio di Agamennone, Oreste, di fama
universale, aveva ammazzato. Appunto ricordandosi
di costui, rivolse agli immortali queste parole:

«Ma come, ora i mortali vorrebbero incriminare
gli dei! dicono infatti che le sciagure emanano
da noialtri. Vero è peraltro che essi medesimi
s’attirano le pene, con la loro empietà. E l’empietà
turba il corso del destino. Proprio così come ora
Egisto, turbando il corso del destino, è andato a unirsi
prima con la legittima donna dell’Atride, poi in seguito
ha ucciso l’Atride appena ritornato in patria. Eppure
conosceva il precipizio di morte che gli avevamo
annunziato! gli avevamo apposta inviato Ermes,
radiante messaggero, sguardo acuto, ad ammonirlo
che non l’uccidesse, e che non gli prendesse la moglie.
Perché infatti “dall’atride Oreste verrà vendetta
quando sarà cresciuto negli anni, e la nostalgia
lo ricondurrà nel suo paese”: Ermes così disse,
pensando di giovare alla salvezza di Egisto. Invece
non riuscì a costringere la di lui volontà: così ora
Egisto sconta in una volta sola tutti i suoi crimini!».

***

[…] «Villa, si sa, ha una formazione e uno stile di scrittura nei quali si sovrappongono e si intrecciano interessi eterogenei e mobili, perennemente alimentati e rimessi in discussione da una tenace tendenza a fondere, in sostanza, la ricerca sull’attualità artistica e quella sulle origini della cultura mediterranea. Nel lavoro compiuto intorno a questa traduzione confluiscono gli esiti delle attività primarie cui si dedicò l’autore, che da una parte, in quanto poeta, con aggressività poundiana inventa un linguaggio attuale, depurato degli smorti stilemi della retorica neoclassica con la quale spesso ci si è illusi di preservare le opere somme dell’antichità greca; dall’altra, in veste di semitista, e di traduttore da lingue semitiche antiche, getta un ponte tra la cultura ellenica e i suoi precedenti mesopotamici e quindi attualizza la geniale intuizione di Victor Bérard, che all’inizio del secolo aveva individuato alcune linee di continuità tra il mondo medio-orientale e quello omerico. Se Joyce aveva potuto ispirarsi a Bérard nel romanzare le avventure del proprio Ulisse, Villa, che pur aveva ammirato l’opera di Joyce, avoca a sé il compito di delineare una lettura nuova dell’Odissea facendo leva sui problemi lessicali posti dal linguaggio omerico, e libera l’eroe greco dalle riduzioni “letterarie” posteriori per restituirlo alle sue origini… [Attribuisce infatti] un’importanza decisiva a quella valenza della traduzione, realizzata tenendo costantemente d’occhio un orizzonte linguistico più arcaico: “Dietro ai versi omerici dell’epica ionica ed eolica, c’è tutta la sterminata area linguistica della civiltà micenea, del greco arcaico e delle lingue mesopotamiche. Quindi la mia traduzione tiene conto soprattutto del travaglio linguistico attraverso il quale l’Odissea si è formata”. Indagini più recenti sulle complesse stratificazioni dell’ecumene pre-ellenica antecedente il testo omerico valorizzano indirettamente tale inclinazione dell’impresa di Villa, polemico nei confronti di ogni imbalsamazione classicistica del poema e intento, per contro, a cercare di restituirgli, insieme con una certa spigliatezza, l’aura favolosa delle grandi costruzioni mitiche nate insieme con la nostra cultura. La difficoltà dell’impresa affrontata dal traduttore consegue dall’importanza che egli assegna a quanto il poema omerico, “fondamentalmente perduto dal punto di vista della misteriosa realtà che lo anima”, lascia appena supporre, o non è già più in grado di dire, soprattutto a proposito del rapporto stabilitosi presso le civiltà “analfabete” tra umano e divino, e quindi di un’aura numinosa della quale il testo documenta la trasformazione e l’incipiente tramonto ma non il senso originario. Il lavoro compiuto nello sforzo, arrischiato nella misura in cui è votato alla ricerca di qualcosa di “fondamentalmente perduto”, di elaborare un equivalente del linguaggio composito tramandato da generazioni di bardi, e di sveltire la scansione del viaggio mitico evitando le ingombranti esigenze di una versificazione moderna, trova la sua giustificazione nelle puntigliose note finali, dove sono scandagliati alcuni enigmatici sottofondi del lessico omerico»
(Dall’Introduzione di Aldo Tagliaferri, pag. 7-9).

***

Traduzioni a confronto

(Ippolito Pindemonte, 1809, vv. 1 – 21)

Musa, quell’uom di multiforme ingegno
Dimmi, che molto errò, poich’ebbe a terra
Gittate d’Ilïòn le sacre torri;
Che città vide molte, e delle genti
L’indol conobbe; che sovr’esso il mare
Molti dentro del cor sofferse affanni,
Mentre a guardar la cara vita intende,
E i suoi compagni a ricondur: ma indarno
Ricondur desïava i suoi compagni,
Ché delle colpe lor tutti periro.
Stolti! che osaro vïolare i sacri
Al Sole Iperïon candidi buoi
Con empio dente, ed irritâro il nume,
Che del ritorno il dì lor non addusse.
Deh! parte almen di sì ammirande cose
Narra anco a noi, di Giove figlia e diva.

Già tutti i Greci, che la nera Parca
Rapiti non avea, ne’ loro alberghi
Fuor dell’arme sedeano e fuor dell’onde;
Sol dal suo regno e dalla casta donna
Rimanea lungi Ulisse: il ritenea
Nel cavo sen di solitarie grotte
La bella venerabile Calipso,
Che unirsi a lui di maritali nodi
Bramava pur, ninfa quantunque e diva.
E poiché giunse al fin, volvendo gli anni,
La destinata dagli dèi stagione
Del suo ritorno, in Itaca, novelle
Tra i fidi amici ancor pene durava.
Tutti pietà ne risentìan gli eterni,
Salvo Nettuno, in cui l’antico sdegno
Prima non si stancò, che alla sua terra
Venuto fosse il pellegrino illustre.

(Rosa Calzecchi Onesti, 1963, vv. 1 – 21)

L’uomo ricco d’astuzie raccontami, o Musa, che a lungo
errò dopo ch’ebbe distrutto la rocca sacra di Troia;
di molti uomini le città vide e conobbe la mente,
molti dolori patì in cuore sul mare,
lottando per la sua vita e pel ritorno dei suoi.
Ma non li salvò, benché tanto volesse,
per loro propria follia si perdettero, pazzi!,
che mangiarono i bovi del Sole Iperione,
e il sole distrusse il giorno del loro ritorno.
Anche a noi di’ qualcosa di queste avventure, o dea, figlia di Zeus.

Allora tutti gli altri, quanti evitarono l’abisso di morte,
erano a casa, scampati dalla guerra e dal mare;
lui solo, che sospirava il ritorno e la sposa,
la veneranda ninfa Calipso, la splendida dea, tratteneva
negli antri profondi, volendo che le fosse marito.
E quando anche l’anno arrivò, nel girare del tempo,
in cui gli filarono i numi che in patria tornasse,
in Itaca neppure là doveva sfuggire alle prove,
neppure fra i suoi. Tutti gli dèi ne avevan pietà,
ma non Poseidone; questi serbava rancore violento
contro il divino Odisseo, prima che in patria arrivasse.

***

10 pensieri riguardo “L’Odissea nella traduzione di Emilio VILLA”

  1. Molto bello.
    Seguendo i post di Rebstein si finisce col cercare e comprare diversi libri.
    Bene, anche se ne soffre il borsellino.

  2. Grazie, gentili signore: Viola (il tuo commento ripaga ampiamente della fatica di costruire il post), Nadia (spero siano soldi spesi bene, nel caso di Villa sicuramente lo sono) e Adele (carissima compagna di penombra -e dintorni…).

    … Come trovarlo, cara Adele? Ti suggerisco delle modalità, tutte da espletare (io mi esercito, assiduamente):

    – iniziando a credere nella befana;
    – pregando, pregando, pregando; quindi
    – andando in pellegrinaggio a Celano e a Tagliacozzo, e in loco
    – sperando in un colpo di c…;
    – organizzando un furto dell’opera a casa di Aldo Tagliaferri (che sicuramente ne avrà una copia);
    – visitando la mostra di Reggio Emilia (ci “ho andato” anch’io! e l’ho vista!), e in loco
    – organizzando il solito furto;

    oppure:

    – aprire un mutuo e rivolgersi a una libreria antiquaria;
    – aspettare l’annunciata ristampa nelle opere Derive/Approdi (lo so che non è l’istèss, ma (francescanamente) chi “se cuntenta, gaude”.

    fm

    p.s.

    Se il tutto è troppo faticoso, si può sempre optare per il post rebsteiniano di domani: non c’entra una beata f…, ma sempre una chicca da collezionisti è. Nevvèro…

  3. Fai bene Francesco a portare avanti questi post su Emilio Villa: per me uno dei più grandi poeti italiani (e non solo) del secondo Novecento.
    Io ho avuto la fortuna di procurarmi l’edizione Derivi e Approdi ma era in esaurimento.
    Consiglio anche il catalogo della mostra di Reggio Emilia: caro ma ne vale la pena.
    Tu hai notizia di qualche ristampa o nuova antologia?

    Unc aro saluto e grazie

  4. Per fortuna, abbiamo il catalogo, dato che siamo stati a Reggio, nel periodo della bellissima mostra di il catalogo è altrettanto superlativo.
    Era ora di dare attenzione a un geniaccio come lui!
    Mi complimento sempre con Francesco per le sue scelte
    e…BUON ANNO a te e a tutti i visitatori di questa dimora senza tempo
    lucetta

  5. Le scritture che narrano dell’Odisseo, le sue avventure rispecchiano forse un lato oscuro della nostra coscienza, il fascino e il mistero dell’ignoto che ci attrae, ci avvince e ci trascina a bere alla coppa del sapere, come magnificamente evocato dal nostro Dante nella sua opera ove l’allegoria induce all’esercizio della mente.Ma quel che più mi affascina è la situazione geografica ove le sue avventure si ritiene si siano svolte. L’Eea, il Circeo venne forse considerata un’ isola ? forse il Circeo, diviso dalla catena appenninica dall’immensa pianura paludosa, poteva così apparire agli occhi di Ulisse.Le mura ciclopiche in cima al Circeo risalgono forse all’epoca? ed i compagni di Ulisse in preda ad allucinazione e febbri forse rimasero vittime della malaria?

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