Lorenzo Carlucci – Note su “A ogni cosa il suo nome” di Francesco Tomada

Francesco TomadaCosa c’è nel museo di Auschwitz // ci sono scarpe abbastanza da calzarne i piedi / di una intera generazione // occhiali per vedere tutti i panorami d’Europa // valigie per milioni / di possibili ritorni a casa // tutti questi oggetti sono rimasti uguali a prima / il nome sulle etichette il fango secco sulle suole / solo una cosa è andata avanti / – non posso chiamarlo proprio vivere – // c’è una stanza intera di capelli / sono ingrigiti sul pavimento aspettando i giovani di allora / che nella vecchiaia / non li hanno mai raggiunti //

Note su A ogni cosa il suo nome di Francesco Tomada.

La richiesta di Tomada in “A ogni cosa il suo nome” è una richiesta di completezza e correttezza del discorso. Per ogni cosa esiste un nome proprio (nel senso di adeguato) e attribuire ad ogni cosa il nome ad essa adeguato è un bene. Leggendo il libro mi sono chiesto su cosa si fondasse questa certezza del poeta, se ad essa fosse sottesa una ontologia, in quale orizzonte metafisico essa si trovasse iscritta. Mi sono dato qualche risposta, e soltanto parziale, e provo a scriverla qui sotto.

Ho trovato in Tomada una sorta di stoicismo cristiano. Del cristianesimo ho trovato lo spirito aspro di verità, la spada di Cristo venuta a dividere, il discorso diretto al “sì sì e no no”, il coraggio dello scandalo, il coraggio della verità scomoda, anche violenta, anche negatrice della vita se necessario. Leggendo i discorsi della madre che – nella sezione “In suo nome” – senza belletti ripercorre le tappe della propria vita, mi è venuto in mente il discorso che Cristo, nei panni dell’apostolo Giuda Tommaso, rivolge alla figlia del re indiano di Andrapolis, e al suo promesso sposo. E’ un discorso contro il matrimonio, che suona così:

“Ricordate, miei figli, ciò che mio fratello vi ha detto e ciò che vi ha portato: e sappiate che se vi astenete da questa lurida unione voi diventate templi sacri, puri, liberati d’ogni impulso e dolore, visibile e invisibile, e non avete preoccupazioni di vita e di bambini, il cui fine è la distruzione: e se infatti avete molti bambini, per loro diventate avidi e cupidi, orfani e vedove, e ciò facendo vi esponete alla punizione. Perché la maggior parte dei bambini diventa inutile, oppressa dai diavoli, taluni in modo evidente altri in modo nascosto, perché diventano matti o mezzi avvizziti o ciechi o sordi o muti o paralitici o sciocchi; e se sono corretti, allora diventano vani, facendo cose inutili o abominevoli, perché saranno presi in adulterio o in omicidio o in ladrocinio o nella fornicazione, e da tutte queste cose voi sarete afflitti.”

(Atti di Tommaso, 11-12, traduzione mia dall’inglese dell’edizione di M.R. James, “The Apocryphal New Testament“, Oxford Clarendon Press, 1975)

In questo testo abbiamo una testimonianza piuttosto vivace di una delle tante forme estremizzanti del cristianesimo neonato, di cui risuona la letteratura apocrifa neotestamentaria. Di questo spirito ritrovo la eco nel libro di Tomada: “dicono che i figli diano forza ma non è vero / i figli dividono sono fatica / e non resta mai abbastanza tempo per sé e per noi“.

Forse è la medesima volontà di dire “le cose come stanno“, la stessa volontà che Stefano Dal Bianco riconosce in Stelvio Di Spigno, quando, nella prefazione a “Formazione del bianco” (Manni, 2007), scrive: “L’imperativo è sempre quello di nominare tendenzialmente senza pudori le cose e i fatti della propria vita. […] E’ un atteggiamento che ha qualcosa di scomposto, come se Di Spigno volesse a ogni occasione ricordarci che tutto nasce e muore sporco ed è bene che sia così: dobbiamo tenerci il fastidio”.

La stessa “scompostezza” non si ravvisa però in Tomada, che più che allo “sporco” ci richiama all’agnizione del dolore, del male, e la visione del quale è temperata da una certa sconsolata atarassia (sentimentale e morale). Non c’è (non deve esserci) nessuna gioia (nessun compiacimento) nel dire il male come male e non c’è (non deve esserci) nessuna gioia (nessun compiacimento) nel dire il bene come bene. Quasi: nessuna pietas nel riconoscere la fragilità della vita. O meglio, e qui incontriamo la radice stoica di Tomada, soltanto una pietas razionale e filosofica è possibile. La pietas che deriva dalla verità (impersonale, atarassica), non dal sentimento.

A ciò si collega il tipo ricorrente nelle figure retoriche del libro. Tomada basa spesso i suoi componimenti su una metafora che mira all’esattezza, fondata su una proporzione razionale, o pure logica, fondata sui meccanismi della negazione e della contraddizione. (Il terremoto definito come “il contrario del vento“, perché la terra si muove e l’aria sta ferma, i bambini di Beirut che paradossalmente giocano alla pace, “la coda di un aereo abbattuto / non è come quella di una lucertola” ).

Un’altra forma di metafora razionale prediletta da Tomada è quella basata sulla identità formale – geometrica – dei due termini. “a ognuno quello che gli spetta: / a me un pezzo di carta e dentro / un buco a forma di cuore”, “[…] il tuo corpo ha / la forma del mio dolore”, “il negativo e l’immagine“.

Ma ancora più profondamente, Tomada ricerca la proprietà della metafora. I due termini della “metafora perfetta” di Tomada devono stare tra loro come il colore sta alla rosa. Abbiamo qui il riflesso più diretto della filosofia cristiano-stoica, e di un certo essenzialismo: esiste (anche se non è data) la natura delle cose e su questa natura si fonda la possibilità di una attribuzione propria (possibilità della verità del discorso) e la possibilità della responsabilità (possibilità del valore etico delle azioni).

In questa prospettiva sembra spiegarsi pure la posizione di estaneità del poeta rispetto alla creazione. Non è mai il poeta l’agente della creazione o della trasformazione. “guarda come è ostinata la bellezza / si ricostruisce da sola“, “quando ho messo in te il mio seme / il mio gesto voleva essere di amore / ma somigliava più a un atto primitivo / […] / mentre tu trasformavi in embrione / il mio sentirmi vivo“, “io penso a gino paoli / che in mezz’ora con una prostituta / scrisse una canzone che parlava d’amore“.

La poetica di Tomada non è una poetica – romantica – della creazione. Non è neppure una poetica decadente o crepuscolare della impossibilità o inutilità della creazione (anche se Tomada è certamente più vicino ai crepuscolari che non ai romantici, a Rebora). Non è mai il poeta a creare la vita, il bello. Il poeta aspetta (“io sto aspettando“), vive, abita (“io vivo qui“) , o, infine, appartiene. La poetica di Tomada è una poetica dell’appartenere.

è inutile combattere bisogna appartenere
diventare umili e abitare con pazienza
come fa il colore su una rosa

L’uomo deve appartenere al mondo come il colore appartiene alla rosa. Ecco il corollario ultimo della “filosofia della proprietà” di Tomada. Il colore rosa appartiene alla rosa essenzialmente (sarebbe un “proprio” nella terminologia di Aristotele). In questo caso la “proprietà propria” appartiene alla cosa al punto tale da diventare definitoria, da diventare nome della cosa.

Così l’uomo, appartenendo al mondo (e l’individuo appartenendo al proprio luogo), dovrebbe renderlo umano. Ecco perché il poeta Tomada appartiene ai luoghi più di quanto i luoghi non appartengano al poeta. Il poeta appartiene ai luoghi, inerisce ad essi, il poeta si predica nei luoghi della sua poesia, il poeta diventa una proprietà. E, se è bravo poeta – sembra suggerire Tomada – il poeta può diventare proprietà essenziale dei luoghi. L’uomo può diventare proprietà essenziale del mondo, “proprio” del mondo – e rendere perciò il mondo umano.

Una tale appartenenza non è data, non è immediata. Va – paradossalmente – conquistata combattendo. Combattendo “con pazienza”. La guerra qui è etica e noetica, contro le contingenze che offuscano lo sguardo a confondere proprietà essenziali e inessenziali, visibili e invisibili, beni apparenti e beni reali. La guerra qui è – stoicamente – contro le passioni, e – ancora cristianamente – contro se stessi (“così ti stringo per proteggerti – proteggerti da cosa mi chiedo / e rispondo: in notti come questa per proteggerti da me“). E’, ancora, una guerra paziente di adattamento. Ma la poesia è filosofia applicata, e non teoresi, e per tanto la guerra è anche contro la stanchezza, contro e nei propri limiti, contro le proprie ferite.

Non abbiamo certo qui un libro di pensées, bensì la testimonianza (il martirio) di un esercizio: quello, per dirlo con le parole di un poeta a me caro, di “adattare le nostre braccia magre alla forza delle idee“. O della verità. E questa testimonianza è piena di dolore e di rabbia trattenute, che fanno digrignare i denti, e scoppiare la testa.

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La nota di Lorenzo Carlucci è già apparsa sulla rivista “Pagine” (Estate 2009) diretta da Vincenzo Anania.
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Qui una selezione di testi tratti da “A ogni cosa il suo nome”
di Francesco Tomada.

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Il nono anniversario
(inedito, 2009)

Le donne morte di parto diventano spiriti
Letovane, si chiamano così
di notte le puoi sentire lungo il fiume Stella
lavano i vestiti della famiglia che era loro
insomma aiutano per quanto
possono aiutare

perché mi viene in mente questa storia
della Bassa adesso

Stefania ci sono giorni in cui riesco quasi a non pensarti
non oggi
non oggi che nostra madre
ha chiesto di celebrare una messa per te
sicuramente ti ha anche portato dei fiori
non oggi che guardo il disordine in casa
il mucchio di biancheria sporca che trabocca dalla cesta
e comincio a lavare

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19 pensieri riguardo “Lorenzo Carlucci – Note su “A ogni cosa il suo nome” di Francesco Tomada”

  1. una correzione: Aristotele non avrebbe classificato il colore rosa come un “proprio” della rosa, come ho scritto frettolosamente nel testo qui sopra.

    ciao e grazie all’ospite Francesco e a tutti!

    lorenzo

  2. beh… Francesco Tomada è per me un poeta speciale, una persona schiva, silenziosa, concreta, una di quelle persone che ci sono in silenzio e che quando parlano o scrivono si fanno sentire in modo potente e sottovoce.

    La sua poetica scava la parola per coglierne le ombre di senso – come ben leggo qui – in una ricerca di ordinata coerenza del discorso che si arricchisce, di volta in volta, di sensazioni, ricordi, fotografie scomposte di profumi… parlo nell’insieme di ciò che mi é arrivato dalla lettura di molti suoi versi e, in particolare, del suo “l’infanzia vista da qui”, da cui traggo poche sue parole che, insieme a tante altre delle sue, amo rileggermi quando ho bisogno di capire perché *resistere* significa ancora una volta *scrivere*.

    *Non ho mani da operaio. Le dita sottili come una danzatrice maschio. Eppure avrei voluto una pelle dura stratificata dal legno, una cicatrice che biforca la linea della vita come il destino di una scelta inciso a fuoco sul palmo.*

    *Non ho più voglia di scrivere versi, dividere versi. Meglio avanzare finché la voce resiste e la parola sospinta sospesa si ferma sfinita sul labbro di sotto in bilico con il suo corpo di fiato.*

    *so come muoiono le farfalle

    come un uomo disteso di schiena su di un prato
    guardano tutto il cielo che hanno
    attraversato e poi

    allargano le ali sopra l’erba
    per allontanare la fatica
    e pensano per sempre di volare*

    ____________________

    con tutto l’affetto che arriva…
    n.c.

  3. Ciao Francesco, volevo dirti da tempo che apprezzo la tua POESIA e che ho utilizzato ” I grani di riso” per un calendario ONLUS che uscirà a novembre. Spero che tu non abbia nulla in contrario. Ci sono i testi di molti amici. Te lo comunico soltanto ora perché ho l’occasione ed il tempo di questo post per scriverti.
    Vorrei avere il tuo indirizzo elettronico e postale per inviarti poesie e “clessidre”, per comunicarci eventi.

    http://www.rosariadidonato.com

    Un saluto a te e a FM,

    Rosaria Di Donato

  4. Una sorpresa gradita, caro fm. Grazie, e non solo per questo, ma perchè sai che la tua vicinanza mi è stata ed è fondamentale per tutto. Tu non vuoi che io dica che ti sono debitore, lo so; allora dirò che ti sono riconoscente, non serve altro, credo.

    Non conosco di persona Lorenzo, ma lo stimo come autore e per quello che ho intuito di lui quel paio di volte che ci siamo scritti. Quando ho letto queste sue note sono rimasto sorpreso, non solo per l’acutezza, ma perchè ha portato avanti la sua analisi da una prospettiva molto diversa da quella che normalmente io ho scrivendo. Ha smontato il giocattolo di cui in buona parte sono inconsapevole, una sorta di vivisezione, parola che mi piace applicare alla scrittura: tagliare fino a dove si è vivi, appunto. Grazie anche a te, Lorenzo, come agli altri che ho avuto la fortuna di incontrare in qualche modo e forma grazie alla necessità comune di leggere e scrivere, come dice Carmine resistere.

    Certo che puoi usare, Rosaria, mi fa piacere. Cercherò il tuo indirizzo sul sito, nel caso il mio è sapunzachif@libero.it.

    francesco t.

  5. E’ un’analisi profonda, molto attenta. Il bello della poesia è che ogni lettore può trovare una chiave di lettura diversa, in base al proprio sentire. Condividere le diverse chiavi di lettura è sicuramente un arricchimento…
    Francesco sa quanto apprezzi la sua scrittura, ma anche il suo modo di porsi, di dire. Oltre a quanto è stato scritto in questa nota, oltre al dolore e alla rabbia trattenute, mi piace pensare anche al suo desiderio di fare *il lanciatore di farfalle*. C’è anche questo, nella sua scrittura…
    Un caro saluto a tutti
    stefania c.

  6. Grazie a tutti per i commenti.

    Se una nota critica non nasce dalla lettura attenta, in immersione, che è sostanzialmente ascolto delle risonanze profonde del testo, e non apre una porta inattesa sull’orizzonte di senso che le parole racchiudono e che il poeta crede (vanamente) di custodire di diritto, in modo esclusivo, in quanto artefice dello spazio che si va ad esplorare – ebbene, si riduce a puro esercizio dell’inutile: come “fare un ricamo sulla pelle del nulla”.

    fm

  7. questo scritto di Carlucci è molto approfondito e rende merito a un lavoro serio, a un poeta speciale (come giustamente scrive la Nàtalia Castaldi)! Non ho acora scritto su Tomada, ma è certo che lo farò appena possibile, perchè anch’io credo in lui, e anch’io intendo dare un mio apporto o supporto critico. E’ una promessa che faccio qui, pubblicamente, assieme ai miei complimenti a Francesco Marotta e a Lorenzo Carlucci, per questo spazio, e alle mie congratulazioni al caro Francesco Tomada, che proprio in questi giorni, esattamente domenica 4 ottobre, verrà premiato a Costa di Rovigo, col premio Anna Osti, assieme a due poeti eccellenti quali sono Franco Buffoni e Cristina Babino! Il premio è proprio per questo suo libro recente, e ne sono molto contento.

  8. Tanto caro mi è il tuo “la”, Manuel, ci conosciamo grazie ad un “articolo” … pensa te la vita!

    sono tra quelle che prende seriamente il tuo impegno di scrittura su(l) Francesco Tomada … ed attendo.

    un abbraccio. n.

  9. Arrivo solo ora, per una serie di cose, a rendere onore a questa interessante e intensa lettura della raccolta di Tomada da parte di Lorenzo Carlucci. Francesco, secondo me, ma so di essere ormai in buona e ottima compagnia, è una delle voci più limpide apparse in Italia negli ultimi anni: mai una parola che non serva, o fronzoli inutili, la sua parola scende sulla carta come neve, lieve, candida, pura, anche se poi i temi sono tesi e rigorosi. “A ogni cosa il suo nome” è un libro che amo, che rileggo quando sento il bisogno di stare con un amico che in quel momento non può trovarsi lì con te (ogni tanto ci vediamo, io e Francesco, e quando ci troviamo parliamo, anche per ore; ecco, il suo discorso poetico è simile al discorrere nostro, al buio, seduti sulla pietra, una sera d’estate; ogni tanto ci incontriamo: io sento questa possibilità di vederci, l’amicizia che ormai ci lega un’estensione della sua poesia – perché non c’è frattura fra il Tomada poeta e il Francesco uomo che scrive e vive la poesia – e un grande privilegio, una grande fortuna).
    Questo sentivo di dire, su Francesco, su Tomada.
    Un grande abbraccio. Fabio F.

  10. La peosia di Tomada è lieve come neve, quando cade, ma ne ha tutto il peso, qunando si accumula sopra un tetto. Penso che per scrive così
    non si possa esssre diversi dalla propria poesia, per questo nel leggerlo,
    si crede.
    vincenzo celli

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