Risonanze VI – Stefano GUGLIELMIN

Sulle rive della Sorga

Rivière des égards au songe, rivière qui rouille le fer,
Où les étoiles ont cette ombre qu’elles refusent à la mer.

René Char

Des bras muets t’accueillent, arbres d’une autre rive.
Yves Bonnefoy


Di ogni acqua che è sponda di canto, terra che s’insemina per crescere materia di fiamma alla voce. Di ogni acqua che si fa varco d’amore per lasciarsi alle spalle la morte. Di ogni acqua rimasta intrappolata alla sorgente. Memoria che vive nell’ambra, nel reliquiario fossile di un volo. Una traccia di cielo – sulle ali degli uccelli che nidificano tra gli accenti di un grido.

1

insabbiando il corpo in questa melma
che fa grave l’amore e in te lo eterna

Chi porta in bocca un lume, a rischiarare il corpo assopito dei suoi fiumi in silenziosi transiti, ha già sentito il sangue farsi voce, goccia che coniuga il respiro di una foglia per durare. L’aspro di sillaba che ricama sulla fredda argilla, la cera che si rinserra nel desiderio spento dei suoi fuochi – ecco l’impasto, la copula dell’alba con le sabbie che si consuma nel verbo di pupille murate, restituite alle mani sapienti della terra. L’aura sarà parola levata dal suo seno, cadenza di febbre e di tormento – un alfabeto, risorto per un giorno, dall’abisso che è il chiaro rovesciato di ogni ombra, la traccia di ogni assenza.

2

in pericolo come acrobazia o mare che batte
solido perché muore

Parola che sorge dal silenzio indifeso del sonno e si fa veglia, scrittura che si cerca percorrendo nel giorno il cammino dei suoi segni. Non c’è tutela d’ombre che ripari il passo dal fuoco che lo cerca. L’insonnia è effimera vittoria sulla morte, il vuoto dove la notte macera sostanze – per riplasmare luce dalla polvere dei giorni fatti niente. Tu guardi al fondo, nell’onda che domani sarà monte, membra fiorite di roseto, estasi di pietra che si apre a dimorare i venti – e ancora leggi, mentre trapassa in lacrima o ricordo, la traccia irriducibile di un seme, la febbre inestinguibile dei volti .

3

l’esatto del corpo senza mondo e poco giro
d’aria intorno poco respiro

Tu – ora dici – parola è amore, verbo del passaggio di un giorno che si cerca in pieno vento. E’ terra che si consola di pioggia e sangue, di occhi presaghi e attenti, liberi di specchiarsi, da una frana d’anni, in forme rinate di stagioni. C’è vento sulle rive della Sorga, un vento naufrago, memoria di rovine, che si trascina lento l’ora inudibile colma di erbe e fame, la materia invisibile che si racconta all’acqua come fa l’ombra a ogni lume attento. La morte – è questo il suo supplizio, la sua pena – ricorda accento per accento il lembo di mondo che fummo, il canto che abitammo per fare posto al dolore e ai suoi mattini. E’ di questa memoria che si consuma, di questo stelo che passo dopo passo, spina dopo spina muore.

4

lume latte da versare
colmo
proprio nel petto della vita

Lasciare tracce di parole è allevare ricordi che cresceranno senza il nostro sguardo. Strappare alla notte il canto di stelle inesistenti, e dietro il velo d’ombre smarrirsi nell’altro che ci riconoscerà in un segno, nell’assenza che prende corpo e voce tra due accenti. Vivere l’astuzia della fiamma – che si offre in schegge di chiarore al respiro dell’ombra che l’assorbe. Cadere come cade un lume in trasparenze d’acqua, nell’acqua spegnersi, e dentro l’acqua iscrivere il senso della nascita e l’assenza. Fare di ogni sguardo, strappato all’abbandono, al vetro incrinato della resa, un’isola levigata da respiri d’onda. Di ogni gesto, il rogo materno dove la neve viene ad abitare, a riconoscersi in ogni rivolo di vita in cui si scioglie.

5

da dove dico bocca prato dico salva
la via dei canti
salva la notte e il mondo

Qui sei chiarore che canta i suoi lampi e la ferita. Voce in forma d’ala che attraversa il guado e della notte raccoglie ogni ombra, la materia intrisa di mondo, di linfa e di silenzi del giorno che era stata. E’ questo il gesto concesso a chi si cerca – seppellire nel cuore di una zolla ogni rifiuto, essere la via e l’approdo del suo stesso viaggio, lo sguardo che si guarda e si scopre nell’occhio delle cose che lo guardano. E’ questo il gesto, dimora, memoria e fraternità dell’acqua, il grido che si leva dall’opposta riva – morire e rinascere a ogni istante. E allora il canto è neve, pietra che s’inciela, veglia che ama, spina che si trafigge, attesa che si fa luce, luce che fugge e cade e si rialza – morte che si arrende, senza tregua, cacciata dal nido, dal suo rogo muto di cenere senza pietà di fiamma, dalla sua dimora di parole immobili, prive di pupille.

6

come da celeste bocca una parola
che s’involi al caglio degli uomini

Cerchi una parola che semini pupille nelle notti, un calmo uragano che si apra a visitare lumi, seguendo il passo che annaspa dietro avvisaglie d’ali. Non più la spina che da millenni ci ferì la mano, ma l’ombra vocale per ritrovati accenti. E pensi il sangue voce che scivola tra bivacchi d’astri, che corre alla foce sfiorando anfore di sete – linfa decisa dal battesimo dell’alba, sillaba oracolare che oltrepassa i giorni. Una parola che sogni d’essere la radice rovesciata da calici di vento, una rosa miniata per asceti di rovine, il suo profumo che esplode in lampi franando contro l’ardente nudità di un rovo. Una parola riemersa dall’acqua della Sorga che si trascini la sua lucerna spenta – il suo corpo rifiorito dall’aprile. La pagina, allora, sia questo portico di passi che conduce in disertati altrove, e il segno la bocca dove Laura è un grido che ancora tenta il margine, la fonte che sfiniva nel sudario azzurro delle sue stesse nevi. Sulle sue labbra ora veglia muto, il fuoco, un concilio di pollini planati a stormi dalle palpebre di rami ancora stretti al gelo.

Così offri il lunario degli autunni al suo viso che si oscura; alla sua vela arresa a rotte di zodiaco, echi di papaveri sepolti dai grappoli che fluttuano del sole. Alla sua cenere, il canto possibile di innevati oracoli. La guardi mentre sorge oltre la soglia, là dove il bianco scioglie riviere di abbandono e le sue labbra dicono quanto è lunga morte ferirsi alle sue stelle assenti. La guardi dileguare in lenta fuga d’ore, in giochi di penombre, sopra miniate lingue di rubinie – tu che ora ricami il suo tramonto nei colori indelebili del pane.

7

non lo spiffero o l’angelo ma il becco
a picco verso il suolo l’aprirsi tuttavia
d’ogni tempo il suo farsi frutto

Nell’aura di lune pietose è il crepuscolo che svela la distanza, l’attimo che separa l’acqua dal deserto che la invoca. Viene dopo il silenzio la fiamma che sarà sorgente e sponda, la corrente che schiuma e la sabbia che cancella al suo passaggio. La sera, intanto, nutre quell’incendio di isole mai sognate. Tu inalberi un grido taciuto in ogni verso, una vela, incurante del fuoco dell’onda, che si trascina oltre la soglia – memoria naufraga che tende all’origine ignara del faro in attesa, senza rotta.

Gli occhi osservano stupiti la corrente del verso seminare minuscole scie, lamine d’argento assorbite dall’inchiostro. Ora l’acqua è un roseto che suggerisce ai venti la chiave segreta della sue forme arcane. Ecco, già arde una corolla il brivido che parla in nome di ogni luce, relegando ai margini la cenere che compone i giorni. I petali, nel fiume che fiammeggia contro il cielo, curvano ai meridiani di una riva assente. Dissetano la pianura delle labbra. E voci inferme, ammalate di silenzio, varcano il tempo dell’aurora. Sfociano nel giorno – irripetibili, smisurati echi della vita. Di ogni vita.

***

Testi

Da La distanza immedicata

Sorga

“alla deriva per sempre”
gli dice
sul granaio dove l’orzo è finito e “vale toccare
solo toccare”

piace a cesco il mondo
questa volta
peccato morire perciò o non lasciarsi
vivere
sull’erba buona del corpo
però l’amore non c’entra
perché viene di schiena pare
e non ha uscite o maniglie
l’amore
ma sole – spesso – calore
dove passare la pelle ed ogni altra
scorza:
la bocca il pomo la vita…

1

mia cima e nodo blando mio futuro
già stato
non sapere nulla e cominciare tuttavia
insabbiando il corpo in questa melma
che fa grave l’amore e in te lo eterna
diluvio
che sforma laura che la sfalda in tanto vuoto
e nessuna vita d’avanzo nessun cielo
se non questa città tutta tosse e vecchie ragazze
mutilate
il solido fiume e il ponte da dove sbucano
affondando

2

fedele al tuo ordine scosceso
piovi
sul capo degli insonni
ma non vedi niente
se non piccole febbri e festa se puoi
con l’animale tuo amore tutto schiacciato
nel ventre
in pericolo come acrobazia o mare che batte
solido perché muore

3

rilasci il tuo bene
liberandolo
finché muove amore
ma poi al solito chiedi pausa
persa nell’atto di imparare
con noi cristi in marcia e poveri
in ogni tasca a vedere l’orto
che si sfalda e la siepe l’erba e il melo
nera tutta e magra di cose vere e chiusa
alla fame d’uscire sola se resta il peso
l’esatto del corpo senza mondo e poco giro
d’aria intorno poco respiro

4

in ogni verbo dove girano mano
e piede s’accampa una pietra
dura come la donna che si chiama
laura ma anche l’acqua l’olio o cavarsi
il seme ogni cosa in montagna
sfianca però poi rinasce stalla
lume latte da versare
colmo
proprio nel petto della vita
cieca a quella fretta che chiami giorno
e chiami notte e padre ed ogni altra
corsa fatta per noi
che caliamo a picco nella stessa storia
saldi al ramo che butta senza pensiero
senza paura

5

tutto nella singola fragranza
l’albero l’alba la chiara d’uovo
anche l’ombra se vuoi anche la buca
sfinita
da dove dico bocca prato dico salva
la via dei canti
salva la notte e il mondo
per natura mobile e culla in fondo e velo
una carezza distesa in ogni più piccola voce
come la foglia che s’invola
ultima nel saluto di novembre e così sull’acqua
il sughero o la fanciulla morta o la bella che nuota
che va
su ogni cosa che resta

6

come da celeste bocca una parola
che s’involi al caglio degli uomini
è il pigolìo d’anime in ribalta
quando lei liquida sbraccia
e crespa
tira a sé i suoni / lontra
che s’intuba nel torbido notturno
per ingollare polpa in pace

7

solo corpo che formicola giù
non lo spiffero o l’angelo ma il becco
a picco verso il suolo l’aprirsi tuttavia
d’ogni tempo il suo farsi frutto
insieme sciabola e loto meraviglia
per come s’accorci l’angolo per come
si muova l’orlo dove posa l’occhio
e niente pensiero solo trame tante cose
rapide nel volo l’intero mondo leso
l’intera specie e ogni luogo sulla pelle
come capro esposto o fàntolo neonato
solo nel sacco / perduto

***

21 pensieri riguardo “Risonanze VI – Stefano GUGLIELMIN”

  1. Ho già scritto a Stefano qualche giorno fa e dunque non mi ripeto qui, anche perchè il gugl ha postato la lettera sul suo blog.
    dico solo che mi fa piacere ritrovarlo qui, in una casa accogliente.
    ciao
    francesco

  2. Grazie, Francesco, ho appena letto la tua bellissima lettera e aspetto i testi inediti la cui pubblicazione Stefano ha anticipato sul suo blog.

    Intanto continuo a leggere, e a rileggere, il tuo libro, sperando, presto, di poterlo presentare anche ai lettori di questo blog (invitandoli, comunque, a procurarselo, se possibile, nel frattempo: si farebbero un regalo indimenticabile).

    Un caro saluto e un abbraccio a te e a Stefano.

    fm

  3. Concordo, Stefano è uno dei poeti più originali e potenti degli ultimi anni.
    La lettura di Francesco, così puntuale e profonda, conferma da par suo il valore (sostenuto a mio avviso da un’autentica necessità etica), di una ricerca poetica ancora tutta in divenire.

    Grazie a entrambi.
    Nicola Ponzio

  4. Mi scuso: mi piacerebbe leggere la lettera di Francesco, ma non la trovo (ho cliccato su gugl e sono andato sul suo blog, ma non l’ho individuata).

    Rispetto al libro di Francesco: qual è?

    Grazie e buona domenica

  5. Il verso di Stefano con La distanza immediacata è giunto ad una complessità di accenti e di sfumature da mozzare il fiato. Gli echi delle tradizioni (perché, come anch’egli insegna col suo “canone e finitezza”, sono più di una) sono smontate e rimontate, secondo un nuovo andamento sussultorio e calmo insieme.
    C’è tanta di quella materia sotto che si potrebbe stare a parlarne per giornate intere.
    Credo anch’io si tratti di uno dei poeti più significativi degli ultimi anni e sono certo ci regalerà ancora gemme.

  6. Giorgio, scusa, hai proprio ragione, ma preso da altre cose non mi ero accorto che quel commento finiva col diventare criptico.

    Dunque, la lettera di Francesco Tomada a Stefano Guglielmin la trovi qui, mentre il suo libro, bellissimo, si intitola “L’infanzia vista da qui” ed è pubblicato dall’editrice La Quercia di Gorizia.

    Grazie a te.

    Un saluto a tutti.

    fm

  7. il suo libro (di Francesco Tomada) :-)

    in effetti, i commenti dei blog sono spesso oscuri per chi non pratica giornalmente queste lande.

    Grazie Nicola e grazie Luigi (Vocativo) per il suggerimento dato ai futuri lettori.

    le poesie di Francesco Tomada le posterò probabilmente giovedì.
    domani, invece, grande novità: un poeta arabo contemporaneo tradotto apposta per l’occasione.

  8. Grazie per le precisazioni e le anticipazioni, Stefano.

    Come al solito, verrò a curiosare e a leggere dalle tue parti, visto che almeno un passaggio al giorno nel tuo blog mi è indispensabile. Una questione di “ecologia della mente”, se proprio vogliamo essere chiari.

    Ti abbraccio.

    Un saluto a tutti.

    fm

  9. Un passaggio al giorno per l’ecologia della mente :)
    condivido Francesco
    e siccome non so parlare delle cose tanto più belle di quel che io so anche solo pensare, condivido anche il commento di Vocativo sulla poesia di Stefano

    e per finire il mio raid visibile (perchè in genere ne compio invisibili) in questo luogo riporto qui, perchè mi è piaciuta tanto, una definizione folgorante creata da Stefano Gugliemin per dire Francesco Marotta:
    “Francesco Marotta, fra i più grandi sismografi delle unità profonde che mi sia dato conoscere”

    caramente

  10. Grazie Ali, sei/siete tutti molto buoni e generosi. Sappi, comunque, che i tuoi “passaggi silenziosi” io li capto (e ne sono particolarmente felice).

    Così come sono felice del rapporto di stima reciproca che ti lega a Stefano (una delle “cose” più belle in cui mi sono imbattuto in rete): vi leggo, tra l’altro, anche il germe di una speranza per il futuro della poesia, visto che c’è ancora qualcuno che, oltre a scrivere, e leggere se stesso, si muove alla ricerca dell’altro e sa apprezzare la grande poesia (cfr.: Stefano, in questo caso) quando la incontra.

    Ti abbraccio.

    fm

  11. sulle rive della sorga, versi caleidoscopici, “alla deriva per sempre” mi piace e mi auguro che resti ancora immedicata questa distanza che è lo scorrere dell’esistenza, senza conoscere l’altra riva, o non ancora, forse perché assente come dice Francesco nelle sue note, mi piace lasciarvi anche questa riga di capoversi dove l’occhio mi si è andato a precipitare (chiedo scusa fin da ora): piace_mia cima_fedele_rilasci_in ogni_tutto_come_perduto

  12. Stefano si tratta di dare e darsi di conoscerti perché non solo pochi abbiano la fortuna di poter ascoltare i tuoi versi. così, semplicemente per questo motivo.

    un abbraccio

  13. Stefano, credo che Alessandro alludesse unicamente alla speranza che coltivano tutti quelli che amano davvero la poesia: quella di veder valorizzate e conosciute, il più possibile, le produzioni di valore, affinché non siano sommerse e svilite nel mare magno dove tutti sono poeti e tutto è poesia.

    Grazie per essere stato qui: tu hai le chiavi di casa, entra quando vuoi, per il nostro piacere di leggerti/ascoltarti.

    Grazie anche a Marco per il suo contributo e la sua presenza.

    fm

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