Matteo di Mario fu Lo Tasso
L’ultima volta che ho visto Matteo di Mario fu Lo Tasso, era una giornata triste, di quelle che raramente un paradiso come Campobasso riserva ai suoi trasognati abitatori. Matteo era tranquillo. Pulito. Sobrio e allegro come un campo di girasoli. Mi mise in mano una busta che avrei dovuto aprire solo quando lui si fosse allontanato – eravamo in un parchetto, vicino al suo condominio. Accettai ed anzi mi ripromisi che avrei letto solo una volta rientrato a casa mia. Negli alti Abruzzi.
Bene.
All’autogrill di Sangro Est non riuscii più a stare nella pelle. Ordinai un cappuccino, strappai a morsi la busta e mi misi a leggere il foglio che Matteo Lo Tasso mi aveva così cristallinamente consegnato.
Era da tempo che chiedevo a Matteo qualcosa di questo tipo e finalmente aveva trovato la forza di guardarsi dentro, gettare luce o fango, sul suo passato.
Ce l’aveva fatta e io ero lì a sostenerlo. All’autogrilli di Sangro Est.Ciò che segue perciò è la trascrizione di quel foglio. Il mio misero contributo si è limitato, per quanto era lecito, a correggere un po’ l’ortografia, minata come so più dall’artrite che dalle insufficienze culturali, e a mettere qualche punto dove – mi è parso – esso più bisognasse.
Prego infine il lettore di non prendere troppo sul faceto quello che si propone. Matteo è un cuore raro, un dispersore di tesori. Insomma: un generoso. Una persona sensibile che ha sofferto molto. E’ giusto ridere di costoro?
Per quanto mi riguarda, credo ad ogni singola parola che ha scritto. Non chiedo ai lettori altrettanto. Chiedo semplicemente di dare ascolto alle sue parole, alle sue emozioni, romanzate o no questo non importa. Anzi. Ciò confuterebbe una volta per tutte coloro che sostengono che da un poeta sacro non possa nascere uno scrittore sacrilego.
Buona lettura.
***
Papà era un asino. Una monnezza umana. Quando scappò la prima volta da casa mamma pensava che non sarebbe mai più tornato. E io pure pensavo che non sarebbe mai più tornato così io diventavo a poco a poco l’uomo di casa. Ci aveva lasciato un foglio sul tavolo della cucina nuova che aveva regalato alla mamma, con il forno elettrico, gli augelli che facevano la fiamma alta. Sul foglio c’era scritto
Non vi abbandono
non si può abbandonare sé stessi
Vorrei abbandonarvi perché vorrei abbandonare
me stesso
Ma non si può abbandonare sé stessi
e quindi
Non vi abbandono.
Mamma lo lesse e disse una frase come quest’uomo è la monnezza.
Mia sorella aveva già lasciato la nostra casa da qualche anno, si era accompagnata ad un geometra della costa e a detta sua non le mancava niente. Non faceva la signora ma nemmeno era dovuta stare una vita dietro ad un modaiolo esibizionista con il grillo della poesia. Quando le telefonammo per dirle che papà se n’era andato, non disse molto, si sentivano i bambini dietro al telefono, lei che faceva vieni qua a mamma, aspetta aspetta, un attimo, marilenaaaaa, che è la figlia; alla fine disse: o ma’ sei una scema, lo dovevi lasciare tu, no che se n’è dovuto andare lui, ma dove ce l’avete la dignità (si rivolgeva anche a me).
Io pensavo che non tornava più. Invece la monnezza ogni tanto tornava. Andava e veniva, come la monnezza quella vera sotto il lavandino. Si buttava e si ricreava. Là, alto, davanti alla porta. O ma’, è tornato papà. Sta qua alla porta. Ti vuole parlare.
Mamma scoppiava a piangere. Piangeva sia quando tornava sia quando se ne riandava.
Diceva che era stato in Africa o in Cile o in Norvegia o in Galizia o a Siracusa.
Con che soldi, gli diceva mamma.
Il poeta vola, rispondeva lui, non c’è bisogno di soldi. Né del passaporto. Basta il canto.
La mamma lo odiava quando faceva il poeta, che parlava così, di volare, che i soldi non servivano, che i soldi bisognava bruciarli perché erano del governo, che lui era un uccellino che volava da un niente all’altro, che non aveva patria, che non aveva più né maestri né allievi.
Fare il poeta come lo faceva papà è veramente da scemi, ho pensato io da tutta la vita. C’era chi durante le sue assenze diceva di averlo visto al bar Lubarone o al bar Caligola sulla costa o a mangiare nei ristoranti di pesce o a nuotare dalla parte delle isole Tremiti. O a vedere la partita. Anche in trasferta. A Foggia.
Un giorno tornò, io ero già bello grande. Potevo battermi con lui ad armi pari. Quasi. Lui stava diventando vecchio voglio dire, e non mi andava di picchiare un vecchio ma lui con questo va e vieni non faceva altro che picchiare il cuore della mamma e io non potevo sopportarlo più. Così quella volta che dico che tornò, lo presi a brutto muso. Se vuoi rimanere bene. Sennò non rientrare per niente. Stattene fuori e non tornare più. La mamma non la chiamo per niente.
Non tornò più.
Da quando non tornò più cominciai a sentirne come la mancanza, ma non era mancanza, era che forse mi sentivo in colpa. Ogni tanto mi salutava il suo amico Franco che lavorava nella officina di un concessionario fiat. Mario dove sta? Mi chiedeva. E io che ne so, gli rispondevo. Tu non l’hai visto? E se l’avevo visto te lo dicevo a te…
E allora vaffanculo pure tu.
Per dire che papà non era una cima nemmeno con i discorsi, mi ricordo che ridiceva sempre le stesse cose. Anche con Franco, mo che ci penso, con Franco facevano sempre gli stessi racconti.
Noi andavamo a fare la revisione da lui, papà mi accompagnava e mentre Franco cominciava ad aprire tutta la macchina, gli diceva Oh Mario ma ti ricordi di quando stavamo su a Udine a fare il soldato… e raccontavano sempre quella storia che si erano ubriacati e camminavano vicino ad una cisterna con dentro il piscio della caserma. Uno di loro cadde dentro questa cisterna e siccome era imbriaco fradicio non provava nemmeno a nuotare, così papà si tuffò nel piscio e gli salvò la vita.
L’hai rivisto più? gli chiedeva, se aveva rivisto più quello che stava per morire annegato, Luigi. E papà non lo rivedeva mai.
Poi ci andavamo qualche tempo dopo e loro sempre a quella cisterna del piscio tornavano. E delle bombe che si prendevano.
Io gli dicevo o pà ma non ti stanchi a dire sempre le stesse cose?
Che stesse cose, mi diceva papà.
Le stesse cose.
Ma lui non si ricordava che le aveva già dette oppure per lui era normale dire quei racconti insieme per stare insieme a chi aveva fatto parte della tua vita e che non voleva abbandonare.
Forse perché non si possono abbandonare sé stessi. E sé stessi saranno pure i racconti delle cisterne di piscio e delle ubriacature e dei rientri non rispettati alla caserma di Udine e dei congedi che papà tornava a Campobasso e per tornare a Udine lo dovevano venire a prendere i carabinieri a casa e stava sempre in tanti pasticci di soldi, anche dopo il militare.
Quando papà diceva una cosa, però, pure a noi figli, per punirci o premiarci, non era mai quella cosa che diceva, poi faceva sempre diverso e io che di poesia non so niente, mi affido al compare Dinamo, ma mi chiedo che poeta può essere uno che dice A e poi fa B, che dice che non torna più poi torna, che non ci abbandona e poi ci abbandona, che si tuffa nel piscio ma poi non voleva mai andare troppo a largo che io volevo andare in Jugoslavia o in Albania a nuoto e lui non mi ci portava mai, che diceva di essere un poeta e poi si comportava come una monnezza che sta là sempre fuori posto e puzza finché non la porti al cassonetto e poi non è che non puzza più. Puzza da un’altra parte. E niente, anche dopo che l’avevo preso a brutto muso infatti, che la mamma non l’avevo chiamata per non farla soffrire, che mi aveva guardato con la faccia da bambino che aveva e mi aveva giurato di non tornare più, che mi aveva detto testuali parole hai ragione figlio mio non torno più tua madre ne morirebbe stavolta e poi
è tornato un’altra volta.
Non è vero che non è tornato più…..
E’ tornato.
E se n’è riandato.
Come la monnezza.