Per il decennale di RebStein, 14

terezin Antonio Devicienti

L’ora contro: frammenti per un omaggio alla scrittura di Domenico Brancale

Percepisco la scrittura di Domenico Brancale quale presenza così potente per me e suggestionante e assoluta che non vorrò scrivere qui una nota di lettura, né un saggio critico, né porrò i testi del poeta lucano su di un tavolo operatorio per minuziosamente notomizzarli – ne scriverò, invece, in un andirivieni frammentato e frammentario (e, spero, commosso), perché ho qui accanto questi quattro libri (L’ossario del sole, Controre, incerti umani, Per diverse ragioni[1]) ed essi s’aprono alla mente che li cerca come sassi dentro cui si celano universi. Per chi proviene dal Sud d’Italia e da terre petrose il sasso, la pietra, la roccia effusiva o calcarea, la gravina e il calanco sono parti d’un paesaggio interiore ineludibile – e anche il linguaggio, forse, liberatosi dall’enfasi barocca cui lo indurrebbe un altro elemento (l’architettura di chiese e di palazzi delle città e dei paesi del Sud), anche il linguaggio si dispone in laconiche e densissime frasi, in violazioni del dire comune, si pone in cammino verso il senso e l’origine e attraversa per intero il rischio del fallimento o del non-approdo.

Non sarò mai al sicuro dentro la parola (in epigrafe all’Ossario del sole) – la parola non è, infatti, rifugio o difesa, ma un guardare dentro l’abisso.

pratica respirazioni fronte a fronte / qui ora la mia resa (da incerti umani, pagina 14) – la respirazione bocca a bocca che salva una vita, che restituisce il respiro a chi l’aveva perduto è, anche, fronte a fronte, in trasmissione (trasfusione?) di pensiero e la resa è condizione necessaria per accogliere.

E la poesia può cominciare, in Brancale, anche dal risvolto di copertina: Senza riprendere mai fiato. Si dice soprattutto dell’impossibilitato amore, del verso spezzato – incontro a un tu, nella distanza mantenuta promessa della cenere. Nell’immediato tracciato della voce. Raggiungere un “prima del respiro”, l’incerto umano. Questa estremità, per quella svolta della voce nel punto che muore… che il poema canta le cose mancate da e per sempre, dove la parola soffocata e rifiatata è condanna all’erranza, a un precipizio su cui è possibile affermare il proprio frammento d’incertezza… che il resto è poesia in cui soffia la creta smarrita”  (nota d’autore a incerti umani) – è l’itinerario verso l’origine (magistrale lo Hölderlin di Andenken / Ricordo) e verso la pre-nascita; è cercare la voce, modulare la voce (e si vedano, per esempio, indimenticabili, i filmati in cui Brancale porge i suoi versi), l’allinearsi della voce ai suoni che sostanziano il mondo; ma “svolta della voce” è anche, alla maniera di Celan, “svolta del respiro” (Atemwende), bilico tra vita e morte, inizio, appunto, dell’erranza e itinerario traverso l’incertezza dell’umano; Brancale ricorre al termine “poema” che è un francesismo, intendendosi non tanto il lungo racconto eroico o eroicomico in versi, ma anche il testo breve e brevissimo capace di racchiudere e dischiudere un universo; e poi c’è la creta, parola e materia molto cara a Brancale: è così che in Controre, libro all’incrocio dei generi, connessione e attraversamento tra e di più campi, dedicando due dense pagine all’artista Giacinto Cerone, scrive tra l’altro: Forse è proprio così, arriva a me dal più lontano, quel lontano che ha il verbo nello scrigno del silenzio. // Solcare l’amore e lo sdegno, l’angoscia e la speranza. Le pieghe della carne – la mano delo scultore. E tutto questo con una certa violenza come la tenerezza, perché nulla accade come sembra, perché ogni perdita è dolorosa, e ogni cosa nuova s’impone  dopo l’ardimento. // Spesso è solo un soffio di creta il cranio dell’uomo. // Scavare nello spazio, impossessarsi della morte. // Ciò che conta in un’opera è solo ciò che non si vede – inciso sulla lamina delle nostre percezioni (da Controre, alle pagine 32 e 33) – si chiamano La crisalide di pietra gli aforismi-commentialleopere-approssimazionialleopere dedicati a Cerone e, spesso, i versi di Brancale hanno questa natura di crisalide dentro cui matura il mondo, l’idea michelangiolesca del sottrarre materia alla materia, o di vedere la potenzialità della forma nella materia informe, per cui è vero che, persuasivo e vivo, è il lavoro a togliere, la fatica dello scartare, l’illimite pazienza del grattare via, scalpellare via, ridurre. (…) / e diventi fiato / nell’onda del vento / che accarezza / la creta delle cose – (…) / e ‘ddivente fiete / nda l’onde du viente / c’accarezze / ‘a crete d’o cose –(da L’ossario del sole alle pagine 106 e 107) scrive Brancale nella sua lingua unica e doppia, quando l’una si riverbera nell’altra e viceversa, mentre il fiato/vento investe la scrittura e l’esistere.

Ma se solo conoscessi una lingua e non fosse quella con cui mi esprimo o quella con cui mi comprendi, o l’altra in cui entrambi potremmo pronunciarci, ora proverei a non scriverti, sapendo che l’indomani nelle mie mani e sotto i miei occhi da questo foglio riaffiorerebbe la voce vivente dentro la quale il palpito sarebbe assordante (da Controre, pagina 19) – vive di paradossi, di ossimori, di scarti logici, di divaricazioni del senso la scrittura di Domenico Brancale, la sua è una lingua che, nell’enunciarsi, sta cercandosi, rimane sospesa e accenna ad abissi, è la lingua che sfida e forza sé stessa che rimanda a Char, ad Amelia Rosselli, a Paul Celan, a Hölderlin, ovviamente –   Hölderlin o Scardanelli, dal libro recente: ed era sempre Pallaksch / la parola involuta indecifrata / che scoccava alle cinque della sera / l’ora gemella in cui solo il toro ha il cuore in alto / un’ora prima che le lacrime parlassero all’orizzonte  / delle fughe / le inviolate vie di fuga musicali / lungo le quali avevo temuto la felicità / nel contrappunto delle passioni / dei tentennamenti // ho provato a credere / per amore dell’uomo perduto nella creta // l’ennesima resistenza in nome di quella parola // e non conosco ancora la grande fuga / conosco il recinto della compassione / dove confermare la pena / il nutrimento per essere qualcuno o qualcosa / nella trascrizione della sofferenza // Pallaksch / Pallaksch // sono in ascolto… (da Per diverse ragioni, pagina 85) – perché Scardanelli, perché Lorca s’immergono nella ferita ch’è esistere (l’origine non smette la ferita, a pagina 74 di incerti umani), perché la parola, lo sappiamo già, non protegge, ma spalanca e mette in pericolo: Non aveva braccia / non aveva gambe / né possedeva il lembo di carne / dove scorgere il lustro di una scheggia // teneva stretta la vita / che lo prese per uno scanno / dove agffonda il volto / un’accetta / e crepa il sangue nel grumo di un affanno // Veniva dall’oscurità / che spacca le orecchie – Non tinìje vrazze / non tinìje gamme / nné tinìje u fringile di nu specchie / andò s’ ‘ntravède ‘a lustre di na skosce // tinìje stritt’ ‘a vite / c’ u scangiaje ppi nu stumme / andò ngi affunne ‘a facce / n’accette / e sfrange u sanghe nd’u grume di n’affanne // Venìje d’u scuragghione / ca jacche o ‘recchie(da L’ossario del sole, pagine 118 e 119): e, notata la particolarità che i testi sono dati prima in italiano e poi “a fronte” in dialetto di Sant’Arcangelo, pensando anche alla voce lucana aspra e coraggiosa e tragica di Assunta Finiguerra, mi concentro sull’estrema serietà di questa poesia e sul suo appartenere al suono (e al silenzio), alla vista (e alla cecità), alla presenza e all’assenza, perché Brancale non prende partito per questa o quella posizione esistenziale, ma si assume la responsabilità totale del vivere.

Scrive di Emilio Vedova: (proprio qui, solchi sul volto della carta, a fronte, a vivo, cicatrici del tu) // oltre concesso solo allo sguardo, oltre capace di sporgersi dentro il vuoto delle cose… oltre la notte oscura dove margini-angeli irrompono // improvvise morsure della fame nello spazio del cuore, a forza di lacerazioni, nei cristalli della coscienza… ora che non è adesso, essere viscere esserne canto // è questa irrevocabile scheggia-verità, questo estremo dilatarsi di un cerchio, l’onda sonora del colore dove si attende la volta di essere vivi, quella di essere morti // foglio dopo foglio, nel segno che il suo gesto-contro ha liberato, l’artista firma la propria condanna, di uno soltanto, la realtà del più grande pittore presocratico, Emilio Vedova accanto (da Controre, alle pagine 58 e 59) – l’esperienza della “noche oscura” di Juan de la Cruz non è estranea a Brancale (lo cita in incerti umani), né quella dei cosiddetti Presocratici, i poeti-filosofi che cercavano d’indagare l’origine e veramente gli enormi dischi di Vedova sembrano specchi del caos originario, del vorticare di spazio e tempo, allo stesso modo la scrittura di Brancale sembra accendersi dentro un non-spazio e dentro un non-tempo dove non esistono coordinate cartesiane (è bruniana la poesia brancaliana? Intuisce il moltiplicarsi dei mondi e il dilatarsi dell’universo, presocraticamente contempla il fluire – forse, allora, la presenza della laguna non è legata solo a un dato biografico, forse acqua e pietra sono dimensioni di un discorso: Guardavo la laguna. La marea taceva. / Non una voce dall’acqua. Nessun richiamo. / Mi accorsi di essere solo. / In ogni dove. Lontano dal cuore il luogo della parola. / In mare aperto. / Nel niente – da Per diverse ragioni, pagina 76: il luogo della parola è altrove e noi lo cerchiamo, attraversiamo soglie (Schwellen), ci sfiniamo stilando verbali della nostra quotidiana esperienza (Michele Ranchetti, presenza feconda nella scrittura di Brancale…) Qui ti chiamano Ionio. Il mio sguardo lontano abita la linea di questa promessa. // Questi metalli che oscillano nella voce perché tu esista nel bianco. Siamo una lingua incompiuta (da Controre, pagine 27 e 28) – voltarsi verso la notte in persona / è così che andiamo nell’assenza / le mani strette intorno al fiato / un cieco col bastone porta il tempo della vista / l’orecchio porge la mano al silenzio // non ci sono ore nel sonno, non peso / né condivisione / il buio trapassa le bocche // fuori / nel sangue il corpo mantiene la sua promessa // chi rimane conta ancora / il numero degli addii è insopportabile (da Per diverse ragioni, pagina 25) – e potrei combinare e ricombinare all’infinito questo mosaico, perché le parole di Brancale trovano una bellezza abbagliante e un assoluto della dizione rara, perché questo peregrinare od oscillare da libro a libro, da pagina a pagina sfida la mente e le restituisce la natura d’esploratrice.

Claudio Parmiggiani, par exemple: è uno dei molti artisti con cui Brancale è in sintonia e lavora, artista che afferma nessun sentiero, nessuna indicazione in apertura a Controre – io penso al suo “Faro d’Islanda”, a quell’ago di luce ritto nel buio del grande Nord (nel lampo la vita squarta / e in gola si ascolta / il fragore bianco // il più lontano – nd’u lambe ‘a vite sparte / e nganne s’annàsele / u fracasce ianghe // u chhiù luntane, da L’ossario del sole, pagine 16 e 17) e penso ai materiali che usa (polvere, cenere, fuoco, fumo, vetro, acciaio, vecchie campane, libri usati, barche…) e vedo il mondo poetico di Brancale offerto alla vista e al tatto, ma forse nell’universo di Parmiggiani ci sono anche il mondo esploso di Pound e quello tutto mentale di Wallace Stevens.

Sullo specchio della carne la resa delle unghie // il passaggio di chi non arriva a restare soglia / l’ardimento delle ossa / il dorsoduro “dietro il paesaggio” // di te questo riflesso / un frantumarsi di presenze / un cumulo di nervi che nel grido fascia di chiunque / la tempia // qui da nessuna parte si presta giuramento // di te non rimane altro che diventare ostaggio // ogni incendio è un appuntamento che nessuno può / mancare // al di là della palpebra // nel palmo della mano porta le ciglia del perdono / di un altro fra noi / ridotto all’impossibile solo // …tutto prometteva una resa, una cicatrice, un ritorno (da incerti umani, pagina 50) – se affiorano luoghi e autori amati, è la scrittura qui e ora che sconta l’eterna ferita o, per dirla proprio in termini zanzottiani, l’eterno “trauma”, in una “serie ospedaliera”, in “residenze invernali”, in uno “shelter” che in realtà ben poco protegge e difende (e, sia chiaro, a parte il riferimento a Zanzotto, gli altri autori cui alludo sono mia personalissima suggestione derivata dalla lettura di Brancale); ma la prima parte di Per diverse ragioni rimanda a un luogo ch’è un nosocomio, quella prima parte si chiude epigrammaticamente così: guariremo dalla salute / ci ammaleremo per vivere ancora / sarà un giorno come un altro / un giorno di malattia vitale (pagina 31) – e nella seconda parte si legge: Stretti fino all’abrasione / oltre la pelle sui tessuti dell’anima. / Irreversibili dove stiamo. Il sangue non giunge. / Pietra contro pietra. Avvenne. Un nulla più. / Era il principio del credere. / La fiamma dell’alba che ancora ci tiene. / “Tutte le cose bruciate hanno amato il fuoco”. // Dovevamo saperlo. Un gesto a nostra insaputa può tutto (da Per diverse ragioni, pagina 55) – libro tripartito Per diverse ragioni, nella cui seconda parte l’amore ha esplicitezza d’immagini e infocata tenerezza di concetti, “abradere” è scorticare per raggiungere una qualche verità, atto radicale d’amore; Riponi la lettera nel cavo del buio. Lasciala nella postura del silenzio ramificare. Uno parlando si oscura di luce. // Questa la richiesta del libro. La preda da scarnificare. // In questo mare di sangue che grida all’amore persino il cielo è argilla delle mie infinite crepe (da Controre, pagina 12) – in un filmato Domenico Brancale entra in una torre colombaria dismessa nella campagna lucana e, con cadenzata lentezza, ripone in ogni vano dei fogli: mi sembra la realizzazione filmica del comandamento testè enunciato, mentre la “preda” è, mi pare, la medesima di un luogo famoso di Juan de la Cruz che, l’ho già detto, Brancale cita in apertura di incerti umani.

E quante affinità scopro se leggo: La parola che risale il corso delle sabbie, è febbre delle origini: una ferita, una fonte, un volo: in limpide, immense trasparenze / di esilio (da Il poema ininterrotto di Francesco Marotta[2], pagina 71) e poi, più in là: Ogni parola è un transito verso una soglia mille volte persa. / La parola poetica è solo la speranza dell’incontro (cit., pagina 76) – tempia a tempia con l’argilla / cera a sole // lontano dalla portata delle mani / lontano dalla portata dell’aorta // in questo perenne / sangue aperto / incorporato / devi / restare // in quanto essere scritto // porta la tua erranza verso il terreno crepato // così in disparte / nelle promesse di un miraggio / in cui l’occhio ha rassegnato per sempre la vista // afferma il tuo frammento // di nostri incerti umani (pagina 21) – poesia sapienziale in tempi nei quali gli dèi sono in esilio dalla terra, parola “rosa di nessuno”, caproniana parola, ricerca inesausta e mai conclusa “della base e del vertice”.

Ed è la presenza della parola “argilla”, dell’immagine dell’argilla ad affascinarmi: L’argilla abita gli occhi. Ogni nervo. S’insinua nel corpo.  / Mi concede le crepe. Muta di respiro. / Non sono bastati trentaquattro anni a fermarla, a credere di cancellarla dalla memoria. / Forse dovremmo custodire solo quello che non sappiamo. / L’impossibile in cui è radicato il passo di ogni persona. / La polvere contro cui s’infrangono respiro e azione. // L’argilla sa di vuoto. (da Controre, pagina 9) – La lingua d’argilla ha sconfinato sulla parete interna del mondo. Fuori di te c’è ancora spazio per inabissare. Devi procedere di spalle al corpo. Essere schiena in volto. Fronte dell’abbandono, risvolto di palpebra. A ritroso è possibile. // Puntando l’indice verso il dorso, nel palmo si estingue il confine della parola. Devi procedere. // Per essere ancora e non finire il verso dei muti rivolto alle stelle (ibidem, pagina 13) – sintassi e lessico rovesciano la logica consueta e aprono prospettive inaspettate: poesia è, qui come spesso in Brancale, usare le strutture grammaticali e il lessico quale grimaldello per scardinare il livello semplicemente comunicativo: Poteva cambiare camera, cercare un appartamento vicino al mare, cambiare città, poteva pure far finta di non aver ancora vissuto, e credere persino di non aver amato, e pensare il più lontano di quanto sia possibile sperare. Ma niente lo avrebbe potuto strappare da quel luogo senza coordinate. / Dalla rassegnazione. Dall’ombra dell’io a cui in fin dei conti doveva tutte le sue contraddizioni. Il riscatto della parola. (ibidem, pagina 20): andate a cercare il video in cui Brancale, seduto a una scrivania di spalle all’obiettivo, legge, sulle ali di una struggente melodia napoletana, con lievissimo accento lucano questi e altri passi da Controre, capolavoro dello spaesamento e del pellegrinaggio per territori impervi e sconosciuti, spesso rasciugati e scabri.

Proprio come in Celan il corpo, spesso parti isolate del corpo (nei miei polmoni c’è l’attesa / distanza mantenuta promessa / di vertebra lesa – da incerti umani, pagina 17), risplendono al centro del componimento e, come in Pessoa, lo sguardo (la nostalgia oppure il dolore dell’inappartenenza) si rivolge verso avvenimenti non accaduti, verso luoghi non vissuti, oppure come in Antonio Machado la tensione del pensiero traversa il vuoto, la solitudine, l’assenza per tracciare formidabili prese di coscienza: Sapevo. Non sarebbe rimasto niente del corpo / che potesse ancora essere detto. // Il vuoto nel vuoto della parola conferma tutto / anche quello che è mai stato (da Per diverse ragioni, pagina 65) –  e, mi convinco, i poeti vanno letti, i loro testi attraversati, non è consentita superficialità di “recensioni” o “segnalazioni”: men che meno se il poeta è Domenico Brancale, sodale, nella vibrante accensione della sua poesia, di Nanni Cagnone e di Cristina Annino, di René Char e di Dylan Thomas, ché la loro lingua è inventiva materia che ogni volta rifonda la creazione.

Venezia. Venezia è nome mai esplicitamente detto, è presenza, geografia di pensieri, suggestione che riverbera sul linguaggio ( – perché Venezia non è un luogo, ma mente continuamente cangiante in figura di case e calli e rii e ponti): masso erratico sino a qui trascinato come / testimone nelle valli dell’esistenza di fondo // testimoni che nel ghiacciaio trascorso è verità di gelo / la vetta della nostra sete // ora sostiamo dentro il luogo franco della pietra // non abbiamo visto nulla / sentito nulla // le parole mortali fluiscono / sorde nel rio terà dei pensieri // solo un tremore di luce ci riporta / alla frequenza dello sguardo / sulle fondamenta della riconoscenza / rimangono figure di spalle sullo sfondo del paesaggio // inaccessibile // (trapassati) (da incerti umani, pagina 80).

Gettammo l’àncora. La spugna. Gettammo l’umana gloria. / Non c’era modo. Nessun modo di avanzare. / Di colpo un’ombra alle spalle. La fine. / Nessuna ombra di cosa avremmo trovato nell’abbandono. // Scariche di ansia assediano l’orizzonte. (da Per diverse ragioni, pagina 77) – perché queste citazioni esplicite e, contemporaneamente, implicite e discrete? Hervé Bordas, Eugenio De Signoribus, Samuel Beckett e altri s’hanno citazioni esplicite, Mario Benedetti emerge, qui, con la forza di un titolo (o con il ricordo che, leggendo il verso di Brancale, di quel titolo s’impone al lettore di poesia), con la persuasione che deriva da un intero libro: mi viene in mente che la scrittura brancaliana è, anche, estremamente laconica, ma potente pure o proprio per la sua laconicità.

Dove sei, mia scrittura che balbetti e, timida, occhieggi a margine di amatissimi testi? Sei adesso la matita che, leggerissima, segna dei versi, ma anche un frammento di biglietto del bus, un mezzo foglio di quaderno da infilare tra le pagine per potere ritrovarle poi: qualcuno in piena notte bussa al petto / mi strappa un grido // qualcuno è la parola // la parola che mi smentisce / la ferita // dice ora nel respiro / ora non è più (da Per diverse ragioni, pagina 30).

L’ora contro, la breccia in ogni pensiero. Qualunque sforzo, vano. Le pagine bianche della resa. La lingua di fine. Nel sangue si era spinta la paralisi. Era questa la controra. Il passaggio obbligato, il pedaggio. Tutte le volte in cui avevo creduto di dover restare io – in nessun luogo. E tutto ciò che non smette di essere di questa ora. // Innocente. Demente. “No. Non esiste un altrove”. (da Controre, pagina 7) – qui, nella Dimora, leggo illuminanti contributi critici (e umani) alla scrittura di Domenico Brancale, riconosco affinità tra queste mie povere pagine e le altre, non sono affatto il primo a scegliere una lettura materiata di appunti, annotazioni, approssimazioni, avvicinamenti, immaginando un dialogo con i testi del poeta, dichiarandomene da essi segnato nel profondo e riconoscendovi la migliore “linea” europea contemporanea: quella che vede nella scrittura una ferita che non si rimargina.

L’ossario del sole, pagina 60 e pagina 61: Nella grotta la lingua oscilla / appesa ai pensieri / ed è la voce // la fune che strozza / quando tradisco per nome le cose – Nd’ ‘a grutte ‘a lenghe tremmelèie / appinzilàte a lle pinziere / e i’è ‘ voce // ‘a zoche  c’affoche / quanne chiàme ppi nome o cose: ha ragione Brancale quando afferma di non “tradurre” dal dialetto all’italiano (o viceversa), ma di cercare di rimanere fedele alla “voce” –  in questo caso la “traduzione” si carica della doppia connotazione del “trans-ducere” e del “tradire”, la dis-locazione del discorso si compie entro le due lingue impiegate, lo stare dei testi l’uno “di fronte” all’altro non è così pacifico o assodato o affidabile: posare la penna sul foglio per iniziare un nuovo testo è addentrarsi in un territorio il cui attraversamento non ha né garanzie di riuscita né coordinate certe e definitive.

(…) / sole e fuoco preparano la cenere // e chiedi soltanto tempo alla storia / come per un’altra stagione / i girasoli / su sfondo vivo (da Per diverse ragioni, pagina 21) – Van Gogh, pittore di straziante modernità, artista che sconta nel suo corpo la furia del vivere – e il sangue è, in Brancale, vocabolo assai ricorrente, rosseggiante orizzonte di un pensare, poetare, vivere, il corpo è ferita ed eros, tutto quello che la mente sogni, desìderi, apra a spasimi e slanci ha il corpo (Corpo squarcio ombra di luce / nessuna cura per chi cerca ferite – da Per diverse ragioni, pagina 63) come sodale, complice, luogo sorgivo dell’accadere: “se solo anch’io trovassi un orecchio per terra” (da Per diverse ragioni, pagina 86) perché quella di Vincent non è follia, ma radicale scelta in favore della vita e dell’arte – ed entrambe sono ferita che non rimargina.

(…) lungosenna del volto / di uno che annega parlando con “la colpa dell’amore” / accanto alle proprie mura edificate / convivendo macerie / ai margini d’infineite pupille (da incerti umani, pagina 31) – è Paul Celan? È il suicidio di Paul Celan che, insieme con la sua poesia, ancora tocca e interroga la mente dei poeti? La Senna, il fiume della città forse più poetica al mondo (poetica perché casa e inferno di centinaia d’artisti che nel ποιεῖν dell’arte hanno marcato epoche) è anche la morte cui andare incontro come in un tuffo (quello di Bute, quello di cui dice Pascal Quignard) verso un tempo e un luogo altri. La poesia ha bordi irregolari, vivi. // Lungosenna. Sarà sempre questa la notte in cui il volto della poesia annega. Perderanno le tracce… Troveranno il tuo nome (da Controre, pagina 29).

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Note

[1]    L’ossario del sole, Passigli Editori, Bagno a Ripoli, 2007; Controre, Effigie edizioni, Milano, 2013; incerti umani, Passigli, 2013; Per diverse ragioni, Passigli, 2017.

[2]    Il poema ininterrotto di Francesco Marotta, Antologia poetica e critica a cura di Marco Ercolani, Carteggi Letterari /  le edizioni, Messina 2017.

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5 pensieri riguardo “Per il decennale di RebStein, 14”

  1. Non conoscevo Brancale. Nn posso parlarne dunque, ma la tua adesione a questa scrittura così profonda e originale nella fusione parallela di lingua e dialetto, e così dichiaratamente vicina ai grandi poeti contemporanei (tutti i da te citati che amo), è un’ assoluta garanzia. Molto ti ringrazio e vado a cercare il video. Ciao. Annamaria

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