Gli altari di Sant’Espedito

Yves Bergeret

Gli altari di Sant’Espedito

Autels Saint Expédit, île de La Réunion.
Tratto da Carnet de la langue-espace.
Traduzione di Francesco Marotta.

Per un periodo molto breve in rapporto alla scala del tempo geologico, circa tre milioni di anni, masse di magma premono perforando la crosta terrestre, qui sul fondo dell’Oceano Indiano; senza una piattaforma continentale, queste masse si sollevano ripetutamente ed emergono: nasce l’isola. In seguito, la camera magmatica vuota del vulcano che ha dato vita a questa giovanissima isola si sgretola, trasformandosi in tre “circhi” profondi; la spinta, però, crea una nuova camera un poco più a sud-est nell’isola. E forma un nuovo cratere attivo.

Poi, sulla giovane massa minerale emersa cresce un tappeto vegetale, di spessore minimo, con tutto il rigoglio che un clima tropicale oceanico consente… alte e robuste felci arboree ovunque…

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Sulla scala del tempo storico, il popolamento dell’isola è un fenomeno abbastanza recente: inizia nel XVI e soprattutto nel XVII secolo… pochissimi gli insediamenti e, nei primi periodi, solo uno scalo sulla rotta marittima per le Indie; nessuna popolazione autoctona vi è stata sterminata o sottomessa; per un secolo e mezzo, una schiavitù numericamente limitata, con i ribelli fuggitivi, i “marrons”, che salivano verso il centro dell’isola per ricostruire la loro condizione di libertà nei “circhi”, delle enormi caldere di difficile accesso.

Attualmente, su questa terra molto giovane e ancora in assestamento, sui pendii bassi e profondamente incisi del vulcano, il progressivo insediamento sta cominciando a produrre delle forme di meticciato. Ogni gruppo umano aggiunge al “tappeto sonoro” dell’isola la sua marcatura dello spazio attraverso i segni del proprio patrimonio culturale e le tracce della propria oralità, Tamil, Mozambicani, Somali, Cinesi, Arabi, Europei… Ogni comunità li posiziona entro ristretti spazi urbani e, in numero maggiore, negli anfratti rocciosi, alle curve delle strade, nel folto della vegetazione.

Pochi, comunque, gli accenni di meticciato, se si considerano in particolare gli utilizzi del sacro. Le varie forme di sacralità, per il momento, convivono fianco a fianco. L’impronta cristiana europea non è dominante, anch’essa va sgretolandosi, ricomponendosi a volte in riti che Roma non vede di buon occhio.

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Un secolo e mezzo fa alcuni credenti, in prevalenza cristiani, pensarono che su quest’isola in capo al mondo, attorniata dagli squali, vacillante ed eruttiva, sferzata da violenti cicloni in inverno, la protezione sacra di un sincero convertito di… duemila anni prima potesse avere la sua efficacia. Una persona santa, così decisero, sarebbe stata la spina dorsale di uno dei luoghi consacrati dell’isola. Con degli immensi poteri, benefici e pericolosi. Scelsero un ufficiale romano. Sì, Romano! Gli diedero il nome di Espedito, che significa semplicemente “ufficiale”, perché un centurione romano non porta bagagli, che sono degli impedimenti, mentre il legionario comune è un impedito, cioè un “portatore di bagagli”. In nessun altro luogo, tranne che sull’isola, è conosciuto o venerato; dopo qualche esitazione, Roma non ne approvò il culto. A seconda di chi ne parla, ovviamente nella tradizione orale, egli dispone di un esercito di 54 soldati o 487 o 53021, ecc. Rivale o cugino dell’induista Hanuman, che saltò insieme alle sue decine di migliaia di scimmie divine sull’isola di Sri Lanka per salvare Rama e la sua amata.

Tutti sull’isola sanno che l’intervento di Sant’Espedito è efficace, sollecitabile e , tanto per sé che per gli altri, temibile.

Ovunque ci sia stato o possa esserci un pericolo, ci si preoccupa di fissarvi, per mezzo di piccolissimi e curiosi cumuli di oggetti, alti non più di cinquanta centimetri, il potere del Romano santificato emerso dall’Oceano Indiano; si dice allora che si tratta di una “cappella”, anche se non è che una sporgenza di basalto dove sono riuniti quei gingilli devozionali.

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La strada si snoda sinuosa sotto una falesia di durissimo basalto. Sull’altro lato della stretta carreggiata, un bassissimo parapetto offre poca protezione da una eventuale caduta nel vuoto. Molti gli incidenti: più di uno è morto qui, e altri potrebbero fare la stessa fine.

Viene sistemata una “Cappella di Sant’Espedito” in memoria dei morti e per prevenire futuri incidenti funesti. Così facendo, grazie all’effigie chiusa dietro la griglia e a una profusione di fiori di plastica rossa accanto alla piccola immagine del Romano, si argina la violenza distruttrice del luogo. Ci si propone, qui, di incanalare il destino in una stabilità non mortifera.

Lo stesso vale per i numerosi luoghi a rischio di incidente sulle strade, sui sentieri e agli incroci dell’isola.

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Curiosamente, la statuetta magica del Romano, destinata a dominare il pericolo passato o futuro, la si nasconde a metà, come una confidenza. Seppellita in una sorta di nicchia di ferraglia e cemento dipinta di rosso, o nella penombra di una tettoia di basalto, o anche sotto la volta naturale lasciata dalla lava già raffreddata in superficie, mentre al disotto continuava a scorrere viscosa e ancora incandescente. La statuetta viene posta nel punto di oscillazione tra l’ombra e la luce: non altrove!

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Spesso la statuetta del santo è posta al riparo in una teca chiusa, con un’unica apertura rivolta verso il passante, apertura a volte protetta da un’inferriata: per evitare che un empio possa rubare qualche oggetto dal microsantuario, ma, soprattutto, per impedire che l’alta concentrazione di potere magico animista si riversi disordinatamente all’esterno, bruciando l’erba, le felci, i piedi nudi dei bambini e qualche lucertola indiscreta. Questa è la tenda del centurione, proprio così… ma è anche la sua prigione dorata, no, rossa, dove viene trattenuto perché non vada a portare i suoi poteri chissà dove.

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L’atto devozionale non si esprime soltanto con la deposizione, sotto la tettoia o nella “cappella”, della piccola effigie del Romano; la sua efficacia si concretizza con la fiamma della candela, indispensabile. Anche nel più piccolo altare, una, due, moltissime candele, almeno una sempre accesa, chi sa da chi. Fiamma dalle molteplici funzioni: scacciare zanzare e altri insetti che potrebbero disturbare una visita devota, purificare il luogo da eventuali miasmi malefici e, molto più intensamente, ergersi a modesta e parodistica controfiamma di quella titanica che brucia nella camera magmatica. Controfiamma al fuoco infernale del fondo del cratere attivo, là in alto, alle spalle della foresta.

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Tettoie o “cappelle” mostrano in abbondanza la cera colata e poi solidificata, tenera lava bianca nata dalla consunzione della candela ad opera della fiamma dello stoppino, piccola preghiera ostinata, devozione di formica sul fianco del vulcano sorto dall’immensità dell’oceano. Minuscoli vulcani, a profusione, decine di minuscoli vulcani che fanno la parodia e limitano la spaventosa potenza del grande vulcano capace di sorgere dal fondo dell’oceano. Una corona di piccoli vulcani ironici che cingono il grande mostro di lava e fuoco, proprio lassù.

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Il colore dominante, in mezzo alla sovrabbondanza del verde della vegetazione tutt’intorno, non è però il bianco della colata di cera; è il rosso, possente, che viene passato e ripassato frequentemente, probabilmente dopo ogni intenso piovasco. Tutto l’edificio della “cappella” è un traboccare di rosso vivo.

Vi è una ricorrenza insistente del rosso, di cui l’indispensabile bianco della cera fusa è il tenue contrappunto. Rosso floreale e anche il rosso degli abbondanti fiori di plastica, rosso, rosso dappertutto. Osservo, sotto una tettoia di basalto che strizza l’occhio alla grotta di Lourdes, un rarissimo blu mariano. Altrove noto la piccola effigie di un Cristo quasi acromatico, tanto è secondario rispetto all’immagine del Romano.

In un altro posto, poi, un San Giorgio ridotto a due sole dimensioni. I suoi colori stampati sul foglio sono sbiaditi a tal punto che ne rimane solo il gesto epico contro il drago e soprattutto la cornice di plastica dorata, la vegetazione di plastica verde e, in prevalenza, rossa.

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Perché tutto quel rosso vivo ovunque? Nati sull’isola e di cultura popolare, i miei amici della Réunion rispondono subito: è il mantello del centurione, fondamentale come quello di San Martino, l’altro ufficiale romano santificato, stavolta in Turenna. È il mantello sacro, tagliato in due per riparare dal freddo dell’inverno in Turenna, un mantello che sull’isola viene replicato mille volte per proteggere da ogni disgrazia, da ogni morte, a cominciare da quella provocata dalla colata di lava rossa: un mantello da distendere sulla terrificante geologia dell’isola per umanizzarla, per diminuirne l’infernale potenza. Il mantello è di un rosso vigoroso, ribadito in ogni direzione intorno all’altare per parodiare e annientare gli effetti della lava incandescente, che è un’iperbole del rosso.

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Il santo romano prolifera. In ogni piccolo altare si duplica, si replica, si ripete più volte. Non è il ricettacolo di qualche reliquia, di qualche microelemento soprannaturale di ordine trascendente che lo scultore ha voluto nascondere e dissimulare nel busto dell’ufficiale, ad esempio. Non è l’unica statua di intercessione verso la quale i pellegrini confluiscono con le loro preghiere. Qui il movimento devozionale che anima l’altare non discende da un qualche dio unico invisibile per diffondersi su una schiera circostante di fedeli.

Al contrario, il movimento dell’altare parte dagli individui di quest’isola, inquieti e incerti del loro destino. Ognuno cerca di inventarsi una forma di trascendenza, un’ancora o una base, una stabilità, un’identità di persona, della propria singolare persona: ognuno posa la propria effigie più intima, cioè la statuetta, senza tener conto dell’identica statuetta posta qualche giorno prima da un vicino, da un cugino, da uno sconosciuto. In seguito, senza stupirsi del fatto che il bisogno del divino balbetti fino a un punto tale, le nonne portano i nipoti una o due volte l’anno a visitare gli altari del vicinato; quindi vi depongono un pezzo di stoffa del primo indumento del neonato, anche del suo primo pannolino. Sono tante piccole bolle di desideri individuali che salgono e cercano di emergere verso “qualche luogo” sotto il tetto della “cappella” rossa o sotto la volta della colata di basalto; nessun Dio discende, unifica, sintetizza, sublima. Instancabilmente, individualmente, ognuno esprime un desiderio.

Ognuno porta la sua statuetta e la sua candela e le accosta alla statuetta e alla candela dell’altro; una concrezione di appetenze molteplici verso un dio quasi inesistente; qui una trascendenza deve ancora costituirsi; e infatti questa è un’isola vulcanica molto giovane in cerca di un suo mito, dei suoi miti, ma non ne ha ancora.

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I miei amici della Réunion mi spiegano il rito della “promessa” formulata e patteggiata con Sant’Espedito. I suoi poteri sono molto grandi. E’ possibile chiedergli un favore. Se il santo accoglie la richiesta, viene contratto con lui un debito perpetuo che obbliga a fare almeno una visita annuale con varie piccole offerte, tra cui un nuovo cero da accendere ai suoi piedi. Se questo rito non viene eseguito, il santo può scatenarsi in rappresaglie crudeli e infinite. Questa è la “promessa”: un legame stabilito e orientato verso il futuro, una rete sociale progressiva, una tessitura dello spazio. In questo modo, lo spazio viene gradualmente abitato.

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Al posto di un momento atemporale di preghiera per stabilire un contatto con la trascendenza nello spazio-tempo della “cappella” che, per questa evenienza, verrebbe ripulita, si lasciano invece i contrassegni sedimentati dei movimenti verso la devozione e verso la “promessa” vincolante: gli scarti accumulati sono parte attiva dell’altare, dal momento che il tempo è un continuum ininterrotto dal passato al presente e al futuro; non ci si astrae nella preghiera, si contratta la “promessa” e si lascia ben visibile in un angolo dell’altare il materiale per le devozioni future, in particolare una buona scorta di candele vergini.

Anche se affiora, comunque, la tentazione della perennità: ne sono una testimonianza i fiori di plastica, indistruttibile, invariabile, indissolubile.

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“Cappelle” e tettoie mostrano pochissime parole scritte, formule, leggi, parole di un profeta su un filatterio… Una parola, però, ricorre costantemente, e la si legge su un piccolo libro aperto in ceramica bianca: “grazie”. Un ringraziamento indirizzato a… Sant’Espedito. Due pagine di libro aperte, si potrebbe pensare a una Bibbia, ma non è così. Perché sulla doppia pagina bianca, in mancanza del testo rivelato, la sola parola scritta e ben presente è quella della dichiarazione del debito contratto attraverso la “promessa”.

Può anche succedere che i “grazie” in ceramica siano rinchiusi, serrati dietro la grata della “cappella”: pericolosa e ambivalente com’è, la forza della “promessa” non può e non deve evaderne.

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La vitalità e la funzione stessa di tanti Sant’Espedito popolano lo spazio, in un linguaggio più o meno imparentato col cristianesimo. In questo linguaggio, e quindi in questo modo di elaborare il reale e il “paesaggio” della vita quotidiana, i Sant’Espedito costituiscono un’eruzione cutanea animistica sul grande corpo giovane dell’isola.

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P.S.

Forti sorprese si incontreranno sull’isola in un altro linguaggio parallelo: quello coloratissimo dei templi indù “ufficiali” e familiari, in spazi nettamente delimitati. Ma alcuni elementi di questo linguaggio si riversano all’esterno, anche ai bordi di qualche strada… ecco un tridente piantato su un lato della via, con l’immagine minacciosa di un demone, forse Murugan, temuto dai Tamil…

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Yves Bergeret sull’Isola della Réunion

1 commento su “Gli altari di Sant’Espedito”

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