La scrittura sorgiva dei poeti di “Anterem” – di Stefano Guglielmin

[STEFANO GUGLIELMIN]

La scrittura sorgiva dei poeti di “Anterem

1. Premessa

Sotto il profilo storiografico, la scrittura di cui si fa carico il poeta coinvolto in un’esperienza conoscitiva, che certifichi originarietà e autenticità nell’oscuro colto nell’atto d’aprirsi alla luce, si concretizza in almeno quattro pratiche complementari e talvolta intersecanti: la prima, propria al dettato rilkiano e trakliano, si scopre protesa alla nominazione del mondo, gonfia d’ebbrezza e canto, eppur consapevole dell’orrore da cui questa leggerezza proviene; la seconda è un coacervo di radici (da Pascal, al simbolismo, dal giansenismo al sentimento della crisi vociano) condensatesi magistralmente in «quel nulla/ d’inesauribile segreto» del Porto sepolto ungarettiano, e diramatasi in seguito nell’inquieto misticismo ermetico, tutto teso a fondare l’esistenza (fortemente infatuata dell’io) nelle arcane ragioni della poesia; la terza, attiva nell’orizzonte neoavanguardistico italiano degli anni Sessanta, invita gli scrittori a «stanare» la realtà, a toglierla da quel limbo materico in cui la morte delle ideologie l’ha relegata, in un sano esercizio disvelante e fecondamente inventivo;(1) la quarta esperienza, infine, facendo tesoro dei precedenti orizzonti, la possiamo far coincidere con il progetto che gravita attorno alla rivista “Anterem”,(2) che si sostanzia in un viaggio consumato nei pressi dell’Inizio, in un ascolto che rifonda ogni volta da capo la vertigine del pensare altro, dell’«antipensiero», attraverso una scrittura verticalmente nomadica, giocata nel lasco tra silenzio e voce, caos e ordine, naturale e culturale, in un procedere che – pur essendo plurale, come vedremo – tende ad assecondare «il movimento dell’origine, sorvegliandone la gestazione e il travaglio, ripetendolo».(3)

2. Flavio Ermini

Proprio in Flavio Ermini tale assunto calza perfettamente, essendosi sempre mosso nella convinzione (di radice heideggeriana) che il disvelarsi della verità avvenga attraverso un dire inaugurale il quale, ritualizzando l’atto cosmogonico, si sleghi dal tempo profano, collocandosi nel medesimo istante dell’origine. In questo senso, la parola erminiana acquista le connotazioni del Sacro, rendendo i poeti, come scrive Rilke, «orecchie che ascoltano, bocche della Natura».(4)
Il rischio che questa poetica comporta (lo stesso, invero, al quale sono soggetti i poeti neo-orfici), è quello di cadere nella mistica dell’autenticità, per cui il poeta diviene un eletto e, al tempo stesso, uno schiavo del proprio destino disvelante, scoprendosi costretto a ripetere tautologicamente l’atto del disvelare, senza tuttavia mai mettere in questione il concetto stesso di ‘origine’. Ne Il bozzolo del grande fiore, Ermini tenta di eludere questa impasse sia ponendo l’accento sulla contaminazione dei saperi contemporanei (non ultimo quello epistemologico) e sia recuperando il concetto greco di zoe, quale forza vitale che pulsa nell’animalità e di cui la parola poetica vuole farsi custode, di contro alla bios, la vita (e dunque il linguaggio) organizzati attraverso la ragione calcolante. Questa seconda soluzione, ha il merito di riportare la parola alla matrice finita dell’esserci, evitando l’equivalenza natura = origine, giacché quest’ultima, non avendo luogo in un altrove atemporale, non è più metafisica, bensì è inscritta (e da essa tracima, eccede) nella singolarità di ciascun corpo, grazie alla sua natura ferina, che si dà in superficie (anche linguistica) nella forma magmatica del caos, come forza che trabocca, che esorbita l’immobilità della semplice presenza. Si pensi, a tal proposito, al Poema n.10. Tra pensiero (Empiria, 2001), in cui gli elementi della caducità (nascita, gesto, cenere, sangue, labbra, lingua, saliva, eccetera) vengono in essere attraverso la poesia ed in essa, senza soluzione di continuità, inesorabilmente scompaiono, quasi che la poesia stessa, divenuta foscolianamente «forza operosa», li affaticasse «in virtù di un moto che non conosce sosta», fino a travolgerli. In questa prospettiva, altra occasione non hanno i mortali per tollerare l’imprendibilità dell’origine, se non circoscrivendone gli effetti «in piccoli modi», che prestamente si dissolvono, dopo aver mostrato ombra e morte: «produce sofferenze elementari la lingua che si posa all’esterno dell’aria. Tenuta insieme dal nome, l’ombra comporta un’apertura netta nella carne». Nel Poema, differente destino spetta invece agli erranti «senz’ossa», a quelle figure insepolte il cui pensiero è «al riparo del tutto dal dolore». E tuttavia, a differenza del «non nato» trakliano, a cui questa figure alludono, esse non rifondano alcuna stirpe, pur mantenendosi attive quali forme del richiamo, quali modelli originari, archetipi del proprio antecedente alla caduta: «In verità, grembo del respiro è la fronte accostata alle grate oltre le quali l’insepolto si cela». Gli umani quindi vogliono vedere, vogliono sapere l’esatta dimensione dell’identità prima di ogni differenziazione; Ermini, tuttavia, mette in guardia contro ogni facile idealizzazione: il «biforme» è provvisto «di vessilli e rostro», di «ali» ma anche di «artigli», in una familiarità cara al tragos greco e, più in genere, alle culture arcaiche, nelle quali l’angelo e il demone si alimentano vicendevolmente.
Questo dialogo con l’eventualizzarsi dell’enigma trova la sua realizzazione saggistica nell’ultimo libro erminiano: fare della scrittura saggistica un pensiero che sia canto, una superficie dove, nell’apparenza, l’invisibile dimori; raccontare l’urgenza di mettere in tragica comunione verità e bellezza, sensibilità e conoscenza, sono infatti i due cardini simultanei del moto apparente del sole, messi in scena da un paesaggio allegorico, tutto nebbie e crepe, che ha nell’«antro» salvifico il suo inizio e la sua meta. «Antro», qui, rinvia tanto all’età delle archai «dove niente si distingue» ma tutto è possibile, quanto all’approdo salutare, a quella Wildniss annunciata da Hölderlin, che «non è selva, ma radura che attende il primo passo dell’uomo» votatosi all’ascolto dell’origine.(5) Su questa struttura ontologica, Ermini costruisce una complessa fenomenologia, un «catalogo» di voci, la cui funzione mira a portare alla massima potenza la poetica dell’Inizio, di cui gli editoriali degli ultimi dieci anni di “Anterem” sono stati splendidi bijou.(6) In tal senso, anche la storia dell’infelicità è solo apparente: non ha infatti progresso o senescenza questo stato di privazione, che invece ci pervade dall’istante successivo all’inizio, da quando, abbandonato l’antro, la storia è cominciata, inaugurando il nostro esilio, quella «continua mutilazione» che è l’esistere nel suo passare generazionale. Passare che trova pronuncia nel canto. Ciò significa che non si dà poesia se non nel dialogo con la propria radice nascosta, la quale mette in prossimità della parola autentica l’enigma del venire alla luce tanto del singolo uomo quanto della comunità. Così facendo, ci spiega l’autore, la parola guarisce, ossia riacquista la facoltà di creare «il mutevole orizzonte del mondo», come fecero, per primi, i «Nomothetes».
La chiamata in causa dei legislatori, di queste figure giuridiche (e storiche) dell’antica Grecia, trasformate da Ermini, sulla scorta di una lettura audace del Cratilo platonico, in presenze mitologiche,(7) ci consente di toccare il punto più delicato dell’intero libro erminiano, che riguarda la pluralità dei modi in cui l’essere viene fatto circolare di pagina in pagina, in una ridda sinonimica assai problematica. Se infatti talvolta si rinvia all’«essere abbandonato» di Jean-Luc Nancy, dove la presenza viene al mondo «ogni volta una», senza residui metafisici, talaltra emerge la nozione heideggeriana dell’es gibt, di quel darsi-ritraendosi del «dire originario» al quale corrispondere nel silenzio dell’ascolto; in altri passaggi, ancora, la metafora mitica del chaos, quale differire continuo che tiene aperto il possibile, assomiglia alla différance di Derrida, mentre gli stessi archetipi che abitano «l’antro», vengono a costituirsi quali essenze immutabili, principi primi estranei a Kronos e semmai figli di Kairos, con ciò avvicinando, questo e altri passi del libro, all’esoterismo, in cui la liberazione dalle catene del transeunte passa per l’ascesi, il sapere iniziatico e la fondazione «di una nuova terra» dove luce ed opera mettano in comunione i mortali. Malgrado questi sfasamenti metafisici – facili ad insinuarsi in un libro che fermenta e cresce dall’interno, incurante del principio di non contraddizione e che vuole invece far fecondare gli opposti (con enfasi esoterica, appunto, ma anche con l’entusiasmo di un fanciullo) – Il moto apparente del sole conferma l’indole sapienziale e la carica immaginifica di Ermini, oltre che il suo impegno civile, nella misura in cui il presente, dove regnano solitudine e decomposizione, trova nella poesia il suo canto funebre, ma anche appunto la forza per un nuovo inizio.

3. Ida Travi

L’origine di cui parla da sempre Ida Travi è «una lingua propria, perduta, conosciuta prima della lingua comune, al tempo in cui la bocca [del neonato] trovò corpo, latte e seno, insieme, disciolti e raccolti, “apparenti” nel suono di una voce»: quella della madre.(8) Ne L’origine orale della poesia, quest’esperienza indimenticabile eppure immemorabile, dalla Kristeva nominata «chora semiotica»,(9) chiama il poeta a corrisponderle, a starle nei pressi fiducioso e perduto, a cantarla secondo i modi dell’enigma e del sintomo di un trauma.(10) Quel trauma che, etimologicamente, allude al perforare, al passare attraverso, al nascere – appunto – del sintomo-parola, al suo venire alla luce portandosi in eredità il luogo indicibile, quell’esperienza originaria che fa oscillare l’identità, che la s-centra in quell’io-tu buberiano che precede ogni principio di individuazione.
Trauma, tuttavia, è termine simbolicamente ancora più carico nei testi della poetessa veronese, non solo in quanto lei stessa lo riconduce all’omofono germanico traum, «sogno», la cui materia costituisce la «lontananza da ogni logica» del dire poetico,(11) ma più intimamente perché il suo stesso cognome – travi – è un bisillabo che custodisce il segreto legame fra sogno e trauma, tenendoli insieme come una trave portante, un corpo parlante dalla cui bocca fiorisce la parola poetica, una parola che trama, che partorisce «sia il trionfo che l’orrore»,(12) in un reticolo sospeso nella voce e offerto ai fratelli e alle sorelle terrestri.
Che l’incontro con il mondo sia traumatico ce lo suggerisce la stessa autrice titolando Thàuma (con evidente richiamo fonetico) una sezione de Il distacco (Anterem, 1998), alludendo a quello stupore attonito e preoccupato di fronte all’imprevisto fenomenico, già molla della filosofia per i Greci e che, in lei, «parla per bocca del padre» ossia della legge, della distinzione, della separazione. Tutti questi elementi convergono ne La corsa dei fuochi (Moretti & Vitali, 2007), poesie che prendono spunto dai fuochi in festa per il ritorno dell’Agamennone eschileo, un ritorno carico di sventura, come sappiamo, tanto da leggersi emblematicamente (molto più che nell’Ulisse omerico), come se la nascita della civiltà mediterranea fosse, da subito, attraversata dalla morte, dalla caduta. Il recinto della polis, pare infatti raccontarci La corsa dei fuochi, è slabbrato sin dall’inizio, e così l’unità, il centro, il senso duraturo. Rimane «la padrona della casa», quella Clitemnestra madre vendicatrice, la cui autorità «supera ogni legge scritta»; rimane la notte senza dei – ma non senza futuro – cantata da Hölderlin e Novalis; e rimane la voce-penelope della poetessa, immobile a vedetta sulla terra di nessuno, in quello spazio non più città e non ancora selva, che aduna le anime e le ombre dei paraggi, invitandole all’amorevole corrispondenza: «Come canta, come canta la voce nella sera, la donna in mezzo/ al campo, e chiama, chiama». Per chi abbia avuto l’occasione di vedere Ida Travi immobile sul palco, lo sguardo consegnato al vuoto temporale, arcaico, mentre dà corpo ad una voce neutra, volutamente sospesa tra i due regni, che si fa trave mediana fra i vivi e i morti, riconoscerà nell’immagine citata certamente il calco. O cari, del resto, già conteneva la risposta all’orfano sostare dei mortali fra le cose, additando nella poesia, quale comunione di parola, nome, suono, realtà e apparenza, la metamorfosi naturale del mondo e la salvezza nostra: «Quando tutto si fonde, cioè ogni istante, senza scopo alcuno e senza sosta, quando tutto si fonde, e non per alchimia ma per natura, e cose separate, pur nel moto, si riuniscono, allora (sempre) si fonde la parola con il nome, e si rifonde il nome con il suono, e si confonde il suono con la cosa, e poi la cosa vera con la pura sembianza, il vano senso».(13) Una poesia, la sua, la cui voce, appunto, ha lo scarto sorgivo nella fusione originaria, nella bocca la sua articolazione e, nell’orecchio altri, la sua foce.
Eppure, l’esperienza originaria cui s’è detto non esaurisce l’originalità della parola singolare, che pur trae nutrimento da essa; che cosa distingue infatti la voce di ciascun poeta, se non l’esperienza personale, successiva – ma non troppo – alla «chora semiotica», e che nella Travi si sostanzia in alcuni episodi infantili tradotti affettivamente nel «sentimento del tempo» (che «avviene attraverso il lento riconoscimento dei ritmi del corpo e della natura nel loro interagire coi luoghi domestici») e nel «sentimento dei corpi»,(14) di quelle ombre dalla consistenza fantasmatica che pur hanno voce, odore, disciplina e che s’imprimono nel corpo e nell’immaginario infantile con la forza del mito, così come si configura, direi, in Cesare Pavese. E così accade per alcune parole-evento che accompagnano l’intero viaggio poetico di Ida Travi: neve, stanza, mantello e tazza, in particolare, non sono soltanto oggetti magici dal potere taumaturgico, bensì adunano, come le scarpe di Van Gogh in Heidegger, cielo, terra, divini e mortali, in una «quadratura» ove il soggetto torna ad essere mortale ossia il parlante che, rispondendo ai «suoni arcani» ereditati nello spazio sognante dell’allattamento, abita di nuovo «lo stato nascente», l’alba del mondo e, dunque, la speranza.(15)

4. Giorgio Bonacini

Libro chiave per comprendere la poetica di Giorgio Bonacini mi pare sia L’edificio deserto (Edizioni di Parol, 1990) là dove il corpo fattuale e il corpo testuale s’incrostano e unificano nell’allegoria dell’«edificio», grazie alla combustione della sposa duchampiana con le costruzioni labirintiche di Escher, così da ottenere un «corpo-scala» narrante che si frantuma e irradia nello spazio, in perpetuo e precario movimento. Entro queste coordinate, nelle quali regna l’insubordinazione lessicale spesso normalizzata in sestine, trova di nuovo spazio il tema amoroso di Teneri acerbi (Anterem, 1988),(16) suo primo libro, trattato apparentemente con la vibratile leggerezza della pioggia dannunziana, mentre invero la pineta versiliana, ne L’edificio, diventa un «giardino» traditore, che precipita «fibrosamente» sulla donna, mentre la sposa stessa si sfoglia, si squama, s’impasta con «lo strame».
Il panismo rovesciato si attenua fino a scomparire nel libro successivo, scritto a quattro mani con Giovanni Infelise e intitolato Sotto la luna, libro nel quale Bonacini pare essere uscito dal «corpo-scala», dalla croce e dal martirio che quella condizione implicava, per offrirci un dettato limpido e dal forte impatto analogico, dipanando un fregio zoomorfo di creature striscianti (insetti, rettili), di pesci mutanti sul «fondo del torrente», d’uccelli indifferenti a quanto in terra si agita, e di mammiferi, infine, capaci di vivere lontano da «stelle e sbeccature». Desiderio, quest’ultimo, che invece perseguita l’uomo, mammifero magno eppure inutile in questo brulichio animale che silenziosamente si muove «sotto la luna», impassibile anch’essa al dolore umano, eppure, agli occhi del poeta, madre di gioia: «luna che sporgi/ che stai nella luce/ chiunque tu sia/ io mi fido». Affermazione che ritroviamo identica ne Il limite (Book, 1993), inserita tuttavia in una più complessa orchestrazione governata dalla «destrezza», dall’accadere repentino sia del fraseggio che degli eventi narrati, secondo il dettato già sperimentato ne L’edificio deserto e questa volta ripreso a partire dalla mobilità ineffabile della luce e dell’ombra. Ne Il limite, la voce narrante si muove dolorosamente in un paesaggio minaccioso («l’ala dura e incattivita/ il passo corto/ nero/ del tramonto»), cercando tutto ciò che ha «l’andamento/ impreciso» e «quel poco di vuoto sensato».
Questa intenzionalità ci conduce nel cuore della poesia di Bonacini, giacché, a suo dire, proprio in questa permanenza ai bordi dell’io e del mondo (nel margine e in bilico, appunto, d’ogni volgare certezza) risiede il senso della scrittura, quel suo diventare aletheia, forza che disvela, che focalizza il vero quale luogo del fecondo cercare.(17) Tale viandanza, oltretutto, ha molto a che fare con la scelta di marginalità dai luoghi del potere,(189 progetto a cui Bonacini effettivamente si attiene anche in Falle Farfalle, dove lo sciame di farfalle, che si libra e moltiplica, diventa macroscopia della materia con il suo pullulare quantistico già sempre imprevedibile e segnato dall’impermanenza. Diversamente da quanto accadeva nell’Edificio deserto, dove la conoscenza s’esauriva nella molteplicità sempre insoddisfatta dello sguardo (che valica, scruta, corre al passato), in quest’ultimo libro, essa ha raggiunto il suo centro, quella impermanenza che non è mancanza, bensì la verità sulle cose e sull’io.
A questo punto, attraversato il deserto e la complicazione dell’esercizio scrittorio, il poeta di Correggio può finalmente ricominciare da capo, mettendo in movimento, come scrive altrove Giovanni Infelise, «un pensiero primitivo», nel quale «confessioni e ricordi» assumano il carattere dell’universalità, coerentemente con l’intenzione barthesiana, già presente ne Il limite, di «comunicare l’interiorità senza concedere l’intimità».(19) Ed è quanto infatti si può leggere in Quattro metafore ingenue, oltre che la convinzione – come scrive, recensendolo, Tiziano Salari – che «la poesia sia insicura e separata dalla vita […] sia distanza dalle cose ma rivelatrice della loro nascosta verità […] sia sempre mancanza […] un mistero nel mistero dell’essere».(20)

5. Marco Furia

Differente, ma sempre legata al tentativo di tenere nel fuoco della lingua il vortice dell’origine, è l’esperienza di Marco Furia, la cui formazione fa capo alle Ricerche filosofiche di Wittgenstein, fondamentali ad aprire – in concorrenza con l’ontologia ermeneutica heideggeriana – la via non metafisica al linguaggio, la quale intende quest’ultimo quale sistema articolato, policentrico ed inessenziale, pragmaticamente costituito dalla sommatoria di giochi linguistici irriducibili l’uno all’altro e funzionanti secondo le regole dettate dalla comunità. Come tuttavia rilevavo nella Introduzione a Menzioni, differentemente dal filosofo viennese che si vuole metodologicamente avalutativo, Furia «sceglie a bersaglio proprio il degrado del linguaggio ordinario, la cui “insulsa quiete” riverbera nella quotidianità, intesa quale “forma di vita” sbiadita in cui dominano il “buio”, la “devastante rovina” e la solitudine».(21) A questa meta, Furia arriva progressivamente; si leggano per esempio Minime topografie (Anterem, 1997), là dove egli, fedele al titolo, mette in rilievo scene d’ordinaria insignificanza, fatte muovere in sequenze che pur orientano ad un mondo desolato e impiegatizio insieme, bekettiano e volponiano, un mondo in cui la soglia del visibile è tutto l’essere che resta da vivere agli uomini, e l’invisibile langue nel gorgo, forse per sempre. Questa impressione, d’altro canto, era già vivissima in Efelidi, libro dalle spigolature aspre, pizzutiane, «distillato come un acido corrosivo che divora le cose dall’interno e le presenta nella loro essenza nominalistica».(22) È tuttavia in Forma di vita (Anterem, 1998) che la prosa poetica precedente si condensa con ulteriore puntigliosità, modulandosi in ottave ipermetre o in brevi liriche dal verso libero, sempre attente a non concedere nulla al discorso che consola o addita, se non tramite un interrogare sospeso, che sarà la cifra anche di Menzioni e Impressi Stili (Anterem, 2005), libro, quest’ultimo, dove la poesia sgrappola a valanga una sequela di unità sintagmatiche paradossalmente vere o drammaticamente fuse in un grido acefalo, scorporato, unità ingabbiate nel sistema poesia come per caso, scivolate finalmente nell’endecasillabo, che è diventato, da Menzioni, l’abito più consono al suo sentire.
Il problema intrinseco ad un tale progetto, è quello, per il poeta, di non chiudersi troppo, fino a trasformare l’enigmatico in enigmistico. Voglio dire: a prima vista, pare che l’enigmistico abbia a che fare con l’intelligenza, mentre l’enigmatico con la profezia. Se tuttavia leggiamo il passo in cui Edipo risolve l’enigma della sfinge,(23) comprendiamo che l’intelligenza è dell’una e dell’altra forma del discorso. La differenza, credo, sta nel fine: l’enigmistico usa l’intelligenza per creare separazione, chiedendo ai mortali di sciogliere l’intrico, umiliandoli e lasciandoli soli quando falliscono; l’enigmatico usa invece l’intelligenza per salvare gli altri, come fa appunto Edipo allorché salva Tebe dalla «dura cantatrice», rendendo la città libera di realizzare il proprio, sia pur tragico, destino. L’enigmatico dunque mette in moto la comunità, l’avvia incontro al suo più autentico andare-insieme verso qualcosa che non ha orizzonte, ma che chiama alla responsabilità della scelta, mentre l’enigmistico invita a sciogliere nodi senza conseguenze, per pura facondia. Coniugando la teoria e l’umanità palpabile del secondo Wittgenstein con la teoria borgesiana del labirinto infinito; cercando inoltre di tamponare la deriva che ne consegue con endecasillabi fortemente percussivi e declinando infine la poetica anteremiana ad una pratica civile, Marco Furia si propone di accettare sino in fondo l’enigmatico, ossia di pensarsi in quanto viandante, in continuo dialogo con l’ombra (della scrittura) e con il desiderio che quest’ombra reclama.(24)

6. Ranieri Teti

Enigmatica è anche la poesia di Ranieri Teti, il cui ultimo libro, Il Senso Scritto (Anterem, 2001), si muove sull’impossibilità di coniugare lo stare e l’andare: ecco allora l’«a luogo e moto sovrapposti» e gli ossimorici «verbi fermi di transito», quali condizioni impossibili di un abitare la terra condannato, al tempo stesso, alla necessità dell’erranza e al dominio dell’inerzia. Un giogo nel quale Teti si getta interamente (parecchi, infatti, i versi dove il suo male di vivere, sia pure mascherato, si affaccia) e che si ripercuote nella scrittura, deformandone la sintassi e il lessico, in una tensione che rende lo stile, l’ostile, cosa cioè conflittuale sia per il lettore che per l’autore. Tale condanna – di cui l’ostile è la risultante – che dilania tanto il corpo dell’io poetico quanto quello della scrittura, il poeta veronese cerca di risolverla spostando il problema dell’identità lacerata dal piano del testo a quello metatestuale: è l’intelligenza infatti (la sua, di autore in carne ed ossa, di demiurgo che ordina e disordina la materia linguistica) a tentare l’unità di quanto il testo vorrebbe disseminare, additando un senso, sia pure sempre divergente, continuamente differenziantesi, negli «aperti» e nelle «chiavi» che inaugurano e chiudono la prima sezione del libro: «dimora nel lineamento dell’ombra», ci spiega Teti in incipit, per incoraggiarci ad iniziare il viaggio esegetico con una mappa che indichi il luogo in cui si nasconde il vero, e prosegue: «idolo della veglia in opera/ ha per titolo aperti e chiavi/ iniziali a darsi incipit d’incognita».(25) Sono «Chiavi» anzitutto musicali, che spostano «arie», creando nuove incognite, che forse andrebbero approfondite dall’autore, per riuscire ancora meglio a definire la chiave per eccellenza, quella che Heidegger chiamerebbe «il luogo del poema», quell’ossessione che in ogni poeta torna, quell’unico tema che ciascun autore continuamente suona, non risultandogli mai perfetto. Un luogo che, nella poesia di Teti, ha molto a che fare con la collocazione, col vivere il tempo della finitezza, quell’aiōn, che pone immediatamente a contatto morte e perfezione dell’uomo. In questo senso, l’intelligenza che fonda l’identità dell’autore ne Il Senso Scritto non può che essere l’estremo rimedio del naufrago che non accetta la propria condizione, che vuole titanicamente fuggire da essa.
A differenza di Ermini, la poesia di Teti lascia in sospeso il “da dove” la cosa detta venga alla luce, se dal nulla-niente cui la tecnica ha ridotto l’essere o se, invece, da un’apertura che raccoglie la finitezza e la mette in opera, con tutta la pietas che l’operazione comporta. Ne Il Senso Scritto, sono presenti entrambi i luoghi: il primo, là dove i sintagmi-oggetti portano intero il peso del niente ontologico da cui vengono; il secondo – e più importante – vive bensì in quella famiglia di significati che traggono linfa dal sangue che pulsa nel poeta, dalla sua più cruda esistenza. La parola chiave che tiene insieme tutto questo è, forse, «resistenze», in quell’iniziale «aprire strofe trarne resistenze// itinerari e cascami dove distare», che inaugura il libro e mai viene meno. Talvolta, le resistenze prodotte dai sintagmi-oggetto messi in gioco da Teti sono di natura artificiale, l’effetto di una tecnica linguistica capace di modulare la krisis del lettore, mettendolo in un’erranza, potremmo dire, di superficie (ma anche capace, occorre dirlo, di descrivere una realtà plurima e diffratta, esibita in violente situazioni di simultaneità); le resistenze prodotte invece dalle strofe con le «stanze» vuote, dove il «tempo» s’arrotola «intorno» alle parole, al loro «emisfero/ in ombra», per incamminarsi nell’infinita ripetizione del «margine», quasi fossero «crome nello spostamento di arie e viceversa», sono quelle che preferisco, poiché danno senso davvero alla «parola che varca», mettendo in contatto la finitezza dell’autore con quella del lettore, lasciando così essere uno spaesamento salutare, che è conoscenza del mondo e principio d’ogni viandanza.

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Tratto da: Stefano Guglielmin, Senza riparo. Poesia e finitezza, Milano, Edizioni La Vita Felice, “Sguardi/Saggi”, 2009.
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Note

(1) Penso in particolare ad Angelo Guglielmi quando, in Avanguardia e sperimentalismo (Feltrinelli, 1964), attribuisce alla letteratura il compito di costruire un discorso che metta in fibrillazione i contenuti già dati, per offrirli al lettore in un impasto inaudito, sorprendente, spiazzante, cosicché essi siano concepibili nella loro valenza preideologica. Convinto che la lingua possa mostrare quell’impasto, possa offrirlo al palato nella sua fluidità aleatoria e generante, nella sua nudità continuamente cangiante, Guglielmi invita il poeta-minatore a ricercare oltre le apparenze, in una vertiginosa reinvenzione della lingua e delle sue strutture, per slabbrare la rassegnata ripetizione delle convenzioni operata non soltanto dal potere capitalista, ma anche dal Neorealismo.
(2) Nel presente saggio, per ragioni di spazio, presenterò soltanto alcune poetiche sulla soglia dei redattori anteremiani, ma invero tutti vi partecipano a pieno titolo. Si leggano in tal senso le osservazioni di Andrea Cortellessa su Mara Cini, Davide Campi, Rosa Pierno e Madison Morrison, che li inquadra nel «genere poeme in prose». In Andrea Cortellessa, Flavio Ermini, Gio Ferri (a cura di), Verso L’Inizio. Percorsi della ricerca poetica oltre il Novecento, Anterem, Verona 2000, p.274 e ss. Per quanto riguarda Sirio Tommasoli, artista visivo che organizza le sequenze con un’intenzione narrativa ma non didascalica, coniugando l’esperienza dell’informale con il progetto anteremiano, si legga, nel testo appena citato, Silvia Ferrari, Poesia del divenire spaziale (pp.60-62) e la nota di Gio Ferri, alle pp.71-72. Tra i poeti protagonisti della storia di “Anterem”, voglio ricordare il compianto Giacomo Bergamini, la sua attenzione alle malattie strutturali della lingua, anzitutto quella di pretendere d’essere copia del vero, laddove si mostra continuamente inadeguata a rappresentarlo. Sono tuttavia proprio i suoi meccanismi formali, le sue funzioni, scrutati dall’orlo e messi in moto nella slogatura dei versi, a lasciar passare il buio, l’angoscia reale che macera sotto, nell’animo del poeta. In Bergamini, l’inizio custodisce il silenzio di un esilio insanabile, da contrastare con una parola che si fa gesto, materia sonora, teatro della crudeltà, rito paradossalmente intransitivo.
(3) Flavio Ermini, Il bozzolo del grande fiore, in AA.VV., La bi-logica fra mito e letteratura, a cura di Pietro Bria e Fiorangela Oneroso, Franco Angeli, Milano, 2004. p.130.
(4) Rainer Maria Rilke, Sonetti a Orfeo, I, XXVI. (Trad. it. Giuliano Baioni).
(5) F. Ermini, Il moto apparente del sole. Storia dell’infelicità, Moretti & Vitali, Bergamo 2006, rispett. p.94 e p.284.
(6) Ora in F. Ermini, Antiterra, Edizioni Joker, Novi Ligure 2006.
(7) Scrive infatti l’autore nel Moto apparente del sole, a p.81, che i Nomothetes sono «i sapienti antichi che con la nominazione dei luoghi e delle cose crearono il mutevole orizzonte del mondo».
(8) Ida Travi, L’aspetto orale della poesia. Scritti e note per un seminario, Anterem, Verona 2000, p.15. A portare avanti questa prospettiva è un gruppo nutrito di studiose che fanno capo a “Diotima. Comunità filosofica femminile” dell’Università veronese. Cfr. il sito http://www.diotimafilosofe.it/index.html
(9) Julia Kristeva, La rivoluzione del linguaggio poetico, trad. it. Silvana Eccher dall’Eco, Angela Musso, Giuliana Sangalli, Marsilio, Venezia 1979. Scrive la Travi, riprendendo appunto Kristeva: «La “chora semiotica” è quell’area di esperienze che lega alla madre prima del riconoscimento del sé e prima della conversione sintattica della lingua», in Id., L’aspetto orale della poesia, cit., p.35. A titolo informativo, ricordo che, in questo ambito di ricerche, non vanno dimenticati gli studi di Melanie Klein, della quale la stessa Kristeva si è ripetutamente occupata.
(10) I. Travi, L’aspetto orale della poesia, cit. p.13.
(11) Ibidem, p. 17. sulla relazione trauma – traum si leggano le seguenti righe, tratte da I. Travi, La corsa dei fuochi. Poesie per la musica, Moretti & Vitali, Bergamo 2007, p. 12: «Anche in lingue differenti, trauma e sogno sono portati dallo stesso suono e per un attimo producono qualcosa di lampante. Su questo lampo s’inscrive la parola poetica».
(12) I. Travi, L’aspetto orale della poesia, cit., p.31.
(13) I. Travi, O cari, Anterem, Verona 1989, p.36.
(14) I. Travi, L’aspetto orale della poesia, cit., pp.50-51.
(15) Afferma la Travi che «tra neo-nato e neo-madre […] si fonda una relazione induplicabile, irripetibile, nuova. Tragica perché riapre una ferita, e contemporaneamente opposta al tragico in quanto evento originario che perpetua il momento inaugurale». In Id., L’aspetto orale della poesia, cit., p.23.
(16) In Teneri acerbi (Anterem, Verona 1988), Bonacini ricava da Emily Dickinson l’uso frequente del trattino lungo, capace di stratificare l’enunciato, di moltiplicarne l’effetto e, al tempo stesso, di assolutizzare quanto il trattino tiene; dal primo Montale, egli assorbe il timbro, l’impasto dei suoni e un sentimento di decorosa pudicizia nei confronti dei propri simili; dallo sperimentalismo degli anni Sessanta e Settanta, egli riprende infine l’incompiutezza sintattica, la reticenza, la paronomasia e quant’altro evidenzi la ‘trama impossibile’ della poesia contemporanea.
(17) Scrive Bonacini in Una conoscenza estrema (meditazione dentro la poesia): «La poesia esiste qui, ma ancora non sappiamo se qui sia effettivamente il suo luogo, vero e reale, di scorribanda o di meditazione. Qui c’è la nostra visione, il nostro sguardo finito che, proprio in virtù di questa sua limitatezza, riceve e avvalora». In “Capoverso”, n. 7 gennaio-giugno 2004, pp.47-48.
(18) Afferma infatti l’autore: «Se guardo al mio linguaggio (ma anche, in generale, il linguaggio di tutta la poesia) penso alla sua sostanza: alla felicità della sua ferita e della sua fatica, alla sua concretezza e all’assenza di potere che riesce a mantenere in un mondo di potere» (“Anterem”, n. 47, dicembre 1993).
(19) Giovanni Infelise, Nel silenzio dell’aria, in AA.VV., Verso l’inizio. Percorsi della Ricerca poetica. Oltre il Novecento, cit., pp.164-166.
(20) Tiziano Salari, recensione a Quattro metafore ingenue, in “Capoverso” n. 11, gennaio – giugno 2006.
(21) Stefano Guglielmin, L’assurdo scontento e la sua lingua, in M. Furia, Menzioni, Anterem, Verona 2002, p. 8. Su questo libro (e non solo), sarebbe interessante verificare l’influenza esercitata dal poemetto Europa cavalca un toro nero di Antonio Porta, sia sotto il profilo stilistico e sia nella prospettiva esistenzialmente desolante che lo permea.
(22) Stefano Lanuzza, Nota critica, in M. Furia, Efelidi. Poesie in prosa, Anterem, Verona 1989, p.21.
(23) Sofocle, Edipo Re, trad. it. Raffaele Cantarella: «Quando giunsi io, Edipo, che non sapevo nulla [di arte profetica], la feci smettere [la sfinge], indovinando con la mia intelligenza».
(24) Forse la radicalizzazione di questa via dovrà passare, in Furia, per la messa in opera dell’ombra identitaria e corporale, che in genere trova nel paesaggio (elemento quasi assente nel poeta genovese) il proprio incarnato. Scrivevo nella nota critica a Menzioni (ed. cit. pp.11-12): «Il discorso di Furia […] rinunciando alle forme della rappresentazione ordinaria, è costretto ad abbandonare il paesaggio tout court, con quel misto di memoria e tremore che spesso fa grande la poesia, per inventarsi un fondale essenzialmente retorico, in cui gli stessi rari scorci naturalistici si dispongono secondo linee e volumi scanditi dal ritmo del verso, in una piega che l’endecasillabo tende a dominare. A dominare, sia chiaro, non ad umiliare, a testimonianza che la natura (anche quella amorosa, che fugace s’affaccia nella dedica) è ancora una risorsa tutta da scoprire in Furia, un luogo dove la sua finitezza potrebbe giocarsi le prossime carte, a patto che si abbandoni alla grammaticità del linguaggio ordinario inteso quale destino della comunità e non come mero luogo dell’inautentico».
(25) Motivo che torna distorto nell’ultima poesia della prima sezione: «dimora nel lineamento dell’ombra/[…] / aprire strofe trarne resistenze/ idoli della veglia incognite in/ opera che ha per titolo aperti e chiavi» p.30.

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16 pensieri riguardo “La scrittura sorgiva dei poeti di “Anterem” – di Stefano Guglielmin”

  1. Grazie Francesco.

    ricordo, per chi fosse nei paraggi, che domenica 4 alle 17,30, a Vicenza, nell’Atelier “Di_segnolibero” (C.so Fogazzaro 86_Galleria San Lorenzo 6), ci sarà una ‘lettura’ di Ida Travi.

  2. Esco un po’ dall’argomento del post, nello specifico la scrittura dei poeti di Anterem, per dire qualcosa del libro di Guglielmin nel suo insieme. Lo sto leggendo e non ho ancora finito, anche perchè la proposta di Stefano è densa e richiede tempo e attenzione, e si divide in diverse sezioni di riflessioni e letture. Senza nulla togliere alle altre mi ha colpito enormemente la prima, Poesia e Finitezza, che è un ragionamento senza rete nè appoggi, che non si riferisce ad un autore o a un gruppo di autori ma alla poesia nel suo insieme, alle necessità ed alle conseguenze dello scrivere.
    Premetto che diffido molto di chi scrive sullo scrivere, in molti casi mi sembra che si vada incontro al rischio di un cortocircuito autoreferenziale. Non nel caso di Guglielmin, che nella prima ventina di pagine (A che cosa serve la poesia, Quale lingua, quale esperienza, Il dis-appunto della poesia, Ache cosa pensa la poesia, Perchè scrivi) mette nero su bianco una serie di concetti che chiunque scriva o legga o cerchi qualcosa nella scrittura altrui credo provi, magari in modo embrionale o sotterraneo. Stefano invece sviscera lo scheletro della scrittura con una lucidità disarmante, ne dichiara i riferimenti, le cause, il fine se esiste. Per me, che sto procedendo nel resto, queste prime pagine valgono già più di un libro, e sono la conferma della statura intellettuale e umana di Guglielmin.
    Il fatto poi che in questo post siano in qualche modo unite due delle persone di maggior statura che io abbia avuto la fortuna di conoscere (una più “magmatica”, fm, e una più “rizomatica”, st) non può che farmi molto piacere.

    ft

  3. Anche questo, libro molto denso, soprattutto nella parte centrale. Le prime pagine sono particolarmente belle, in alcuni passaggi anche da un punto di vista letterario. C’è poi tutto un discorso sul canone che è molto dotto. Come dicevo privatamente a Stefano. La cosa interessante di alcuni libri appena usciti, compreso il suo, è il fatto che, almeno in parte, siano stati nutriti dal lavoro in rete che, per un periodo almeno, ha fatto circolare un medesimo gruppo di autori sui qualis i è potuto ragionare con un ‘attenzione sicuramente più libera, ppoi approdata alal sintesi del libro. E’, quindi, uno dei pochi casi di libri che hanno anticipato il contenuto in rete. Nella collana sguardi sono usciti almeno due saggi densissimi: quello collettivo, LA POESIA E LA CARNE, e quello, bellissimo di Marco Ercolani, VERTIGINE E MISURA. Certo, l’attenzione di Francesco e la voglia di documentare le cose buone su cui si è lavorato, non mi sembra così tanto estendibile. Ma come si dice, e mi sembra sia questa la strada che una selezione naturale stia indicando, pochi blog ma buoni.
    Seb

  4. Plaudo a questo lavoro critico di Stefano, e qui lo saluto con affetto. So il suo rigore e la sua capacità di scavo dentro l’officina della parola condotto in anni di studio, attraverso il suo blog, la sua intensa, e mai superficiale, curiosità.
    Ciao Ste, un caro abbraccio. Fabio F.

  5. Ho iniziato il libro di Stefano, come quello di Sebastiano, e non posso che essere felice di questo rigoroso sguardo sulla poesia contemporanea che i tre ultimi libri editi dalla Vita Felice sanno offrire, invitando il lettore a un’attenzione durevole nel tempo. Grazie anche a Gabriela Fantato che, di questi tre libri, è stata la paladina, e a Gerardo Mastrullo che li ha accolti nelle sue edizioni. C’era bisogno, io credo, di aprire uno scavo nell’officina della parola poetica di questi ultimi anni. Mi auguro che altri libri li seguano. Inoltre, credo, è la prima volta che si delinea un’attenzione critica profonda alla scrittura dei poeti di “Anterem”.
    Marco

  6. Grazie a Stefano, agli amici che hanno lasciato un commento e ai tantissimi visitatori che si sono fermati su queste pagine.

    Più tardi proverò a scrivere qualcosa su un libro – importante – che suggerisce non poche riflessioni.

    fm

  7. grazie stefano del nuovo lavoro che ci offri. grazie del tuo impegno, della tua correttezza e della tua amicizia…aspetto le tue riflessioni caro francesco. un saluto a tutti.
    roberto

  8. Tra un paio di settimane pubblicherò un altro estratto dal libro di Stefano, e vi allegherò una mia nota di lettura. Si tratta, in ogni caso, di un’opera importante dove si intrecciano il rigore etico e la dottrina dello scrittore e dello studioso, la passione per la scrittura e un’innata, inappagata tensione all’ascolto: fuori da ogni steccato di mandato, di scuola e di appartenenza, seguendo unicamente quella traccia fatta di ricerca e libertà interiore che è anche la matrice prima da cui scaturisce il suo lavoro poetico.

    Leggendo e rileggendo questo libro, non posso non pensare a quanta volontaria cecità è nascosta nelle parole dei tanti che lamentano la mancanza di una critica “seria”, capace, “libera-mente”, di indicare linee e prospettive, supportata da un impianto teorico frutto di studio e applicazione, di attenzione e lavoro sui testi, non rabberciato o, nel migliore dei casi, dilettantistico…

    E se provassero, almeno una volta, a guardare fuori dal “circoletto” di cui sbandierano il distintivo di appartenenza?

    Un caro saluto a Roberto e Stefano.

    fm

  9. In buona parte è così, Stefano, ma credo ci sia anche una buona dose di ottusità, acquisita quando non proprio congenita: quell’accidioso abito mentale che costringe alla chiusura autoreferenziale, con conseguente incapacità, non dico di “leggere”, ma anche solo di pensare che possa esistere “qualcosa” di valido fuori dall’angusto cortiletto di casa…

    Penso, comunque, che qualcosa si stia muovendo, in positivo, anche in questo settore: cinque o sei nomi, tra i più giovani, ci sono senz’altro.

    Ciao.

    fm

  10. Io non sono nè giovane nè laureato nè intellettuale. Ma questo libro è la conferma che la capacità critica di Stefano è qualcosa di impressionante.

    ft

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